1 —
Gli ignoranti non osino accostarsi al magistero
Non
c’è arte che uno possa presumere di insegnare se non dopo averla
appresa attraverso uno studio attento e meditato. Quanta è dunque la
temerarietà con cui gli ignoranti assumono il magistero pastorale,
dal momento che il governo delle anime è l’arte delle arti. Chi
non sa che le ferite dei pensieri sono più nascoste di quelle delle
viscere? E tuttavia si dà spesso il caso di persone che non
conoscono neppure le regole della vita spirituale ma non temono di
professarsi medici dell’anima, mentre chi ignora la virtù
terapeutica delle medicine si vergognerebbe di passare per medico del
corpo. Ma poiché ormai per volontà di Dio ogni autorità del secolo
presente si inchina con riverenza di fronte alla religione, non sono
pochi coloro che dentro la Santa Chiesa aspirano alla gloria di una
dignità dietro l’apparenza del governo delle anime. Aspirano a
passare per maestri, bramano di superare gli altri e — come afferma
la Verità — amano i primi saluti in piazza, i primi posti nelle
cene, e le prime sedie nelle riunioni (cf. Mt. 23, 6-7). Essi sono
tanto più incapaci di assolvere degnamente all’ufficio della
cura pastorale che hanno assunto in quanto sono pervenuti al
magistero dell’umiltà solo con l’orgoglio; giacché
nell’insegnamento perfino la lingua si confonde quando si insegna
qualcosa di diverso da ciò che si è imparato. Contro costoro il
Signore si lamenta per mezzo del profeta dicendo: Da
sé hanno regnato, non
designati da me; sono
divenuti principi ed io non l’ho saputo (Os.
8, 4). Infatti, coloro che, senza il sostegno di alcuna virtù,
non chiamati per vocazione divina ma accesi dalla propria cupidigia
non conseguono ma rapiscono il più alto grado del governo delle
anime, regnano di proprio arbitrio, non per decisione del sommo
reggitore. Tuttavia, il Giudice delle coscienze mentre li eleva non
li riconosce, poiché certo nel suo giudizio di condanna egli ignora
coloro che pure, nella sua permissione, tollera. Perciò egli dice a
certuni che vanno da lui dopo aver compiuto addirittura dei
miracoli: Allontanatevi
da me operatori di iniquità, non
so chi siete (Lc.
13, 27). E così viene aspramente rimproverata dalla voce della
Verità la ignoranza dei Pastori, quando essa dice per mezzo del
profeta: Perfino
i pastori non hanno saputo comprendere (Is.
56, 11). E ancora il Signore li respinge dicendo: Pur
avendo in mano la legge non mi hanno conosciuto (Ger.
2, 8). Dunque, la Verità si lamenta di non essere conosciuta da
costoro e dichiara di non riconoscere il primato di chi non la
conosce, giacché è certo che quanti non conoscono le cose del
Signore, non sono conosciuti da lui, secondo la testimonianza di
Paolo che dice: Se
qualcuno poi ignora sarà ignorato (1
Cor. 14, 38). Naturalmente poi, a questa ignoranza dei Pastori
corrispondono spesso i demeriti dei sudditi, perché quantunque sia
tutto a loro proprio carico se i Pastori non possiedono il lume della
conoscenza, tuttavia per un rigoroso giudizio accade che a causa
della loro ignoranza inciampino anche coloro che li seguono. Di qui
la Verità stessa dice nell’Evangelo: Se
un cieco presta la sua guida a un altro cieco, cadono
ambedue nella fossa (Mt.
15, 14). E il salmista, non esprimendo un desiderio del suo
animo, ma nell’esercizio del suo ministero profetico, dichiara: Si
oscurino i loro occhi perché non vedano, e
piega sempre di più il loro dorso (Sal.
68, 24). Gli occhi sono chiaramente coloro che posti innanzi a
tutti al grado sommo della dignità, hanno assunto il compito di fare
da guide nel cammino; e quelli che al loro seguito aderiscono ad essi
sono giustamente chiamati dorsi. Dunque, se gli occhi si oscurano, il
dorso si piega: così quando coloro che guidano perdono la luce della
conoscenza, quelli che seguono si curvano inevitabilmente sotto il
peso dei peccati.
2
— Non occupino il posto del governo delle anime coloro che
nel loro modo di vivere non adempiono a quanto hanno appreso con lo
studio
Ci
sono poi alcuni che investigano le regole della vita spirituale con
esperta cura, ma poi calpestano con la loro condotta di vita ciò che
riescono a comprendere con l’intelligenza: subito si mettono a
insegnare ciò che hanno imparato con lo studio ma non con la
pratica; e combattono con i loro costumi ciò che predicano con le
loro parole. Così avviene che quanto il pastore cammina per terreni
scoscesi il gregge che lo segue cade nel precipizio. Perciò il
Signore si lamenta per mezzo del profeta contro la spregevole scienza
dei Pastori, dicendo: Mentre
voi bevevate acqua limpidissima, intorbidavate
l’altra con i vostri piedi e le mie pecore si nutrivano di quanto
voi avevate calpestato con i vostri piedi e bevevano l’acqua che i
vostri piedi avevano intorbidato (Ez.
34, 18-19). I Pastori bevono acqua limpidissima quando attingono
alle acque correnti della verità con retta intelligenza, ma è come
intorbidare quella stessa acqua con i propri piedi il corrompere gli
studi di una meditazione santa con una cattiva condotta di vita. Sono
poi pecore che bevono l’acqua intorbidata dai piedi di quelli, i
sudditi che non seguono le parole che ascoltano, ma imitano solo ciò
che vedono, cioè gli esempi di una vita depravata. Infatti essi
hanno sete di quanto viene loro detto con le parole, ma poi sono
pervertiti dalle opere e allora è come se nei loro bicchieri
bevessero fango perché le sorgenti si sono inquinate. Perciò è
pure scritto per mezzo del profeta: I cattivi sacerdoti sono laccio
di rovina per il mio popolo (cf. Os. 5,1; 9,8). E sempre dei
sacerdoti dice ancora il Signore: Sono
divenuti per la casa di Israele pietra di inciampo per
l’iniquità (Ez.
44, 12). In verità nessuno nuoce di più nella Chiesa di chi
portando un titolo o un ordine sacro conduce una vita corrotta,
giacché nessuno osa confutare un tale peccatore e la colpa si
estende irresistibilmente con la forza dell’esempio quando, a causa
della riverenza dovuta all’ordine sacro, il peccatore viene
onorato. Ma pur essendo indegnissimi, fuggirebbero la responsabilità
di una colpa così grave se valutassero con attento orecchio del
cuore la sentenza della Verità che afferma: Chi
avrà scandalizzato uno solo di questi piccoli che credono in me è
meglio per lui che gli si appenda una macina d’asino al collo e lo
si getti nel profondo del mare (Mt.
18, 6). Dove
la macina d’asino significa quel faticoso ritornare su se stessi
della vita del secolo, e il profondo del mare indica la condanna
eterna. Pertanto, chi rivestitosi dell’apparenza della santità
rovina gli altri con la parola e con l’esempio, sarebbe certo stato
meglio per lui che lo avessero trascinato a morte le sue azioni
terrestri quand’era nello stato laicale, piuttosto che le sue
funzioni sacre lo avessero indicato agli altri — nella sua colpa —
come esempio da imitare. Giacché se almeno fosse caduto da solo lo
avrebbe tormentato una pena infernale comunque più tollerabile.
3
— Il peso
del governo delle anime. Bisogna
disprezzare le avversità e temere la prosperità
Abbiamo
voluto dimostrare in breve, con quel che abbiamo detto sopra, quanto
sia grave il peso del governo delle anime, perché nessuno che non
sia in grado di sostenerlo osi accostarsi temerariamente ai ministeri
sacri e, per la bramosia di raggiungere il luogo della massima
dignità, si assuma invece la guida della perdizione. Per questo
Giacomo mette piamente in guardia dicendo: Non
vogliate, fratelli
miei, divenire
maestri in molti (Giac.
3, 1). E perciò lo stesso Mediatore fra Dio e gli uomini
rifuggi dall’assumere il regno sulla terra, lui che superando la
scienza e la conoscenza anche degli spiriti celesti regna nei cieli
prima dei secoli. Difatti è scritto: Gesù, dunque, sapendo
che sarebbero venuti per rapirlo e farlo re, fuggì
di nuovo sul monte, lui solo (Gv.
6, 15). Eppure chi avrebbe potuto regnare senza colpa sugli uomini
come colui che avrebbe regnato, così., sulle sue creature? Ma poiché
era venuto nella carne proprio per questo, non solo per redimerci con
la sua passione ma anche per ammaestrarci con la sua vita e offrirsi
come esempio per quelli che lo seguivano, perciò non volle divenire
re, ma si avviò spontaneamente al patibolo della croce, fuggi la
gloria della somma dignità che gli veniva offerta, ricercò la pena
di una morte obbrobriosa. Ciò evidentemente perché noi sue membra
imparassimo a fuggire i favori del mondo, a non temere affatto i
terrori della morte, ad amare le avversità per difendere la verità,
a evitare con timore la prosperità, perché questa con la gonfiezza
che l’accompagna corrompe il cuore, mentre le avversità lo
purificano attraverso la sofferenza. Nella prosperità l’animo si
innalza, ma nell’avversità, anche se prima si fosse innalzato, si
prostra. Nella prosperità l’uomo dimentica ciò che è, ma
nell’avversità anche non volendolo è richiamato quasi per
costrizione a ricordarsene. Nella prosperità spesso anche il bene
compiuto prima si corrompe, ma nell’avversità viene cancellato ciò
che di male si è commesso anche nel corso di un lungo tempo.
Infatti, per lo più sotto il magistero dell’avversità il cuore è
come costretto dalla disciplina, ma se poi si innalza fino al più
alto grado di governo, per l’esperienza della gloria si muta ben
presto fino all’esaltazione. Così Saul, che in un primo tempo era
fuggito per non essere fatto re considerandosene indegno (cf. 1 Sam.
10, 22), poi come ebbe assunto la guida del regno si gonfiò, e
bramoso di essere onorato davanti al popolo, per non essere
rimproverato pubblicamente, rinnegò perfino colui che l’aveva unto
re (cf. 1 Sam. 15, 17-30). Così David, approvato quasi in ogni sua
azione dal giudizio di Dio, appena non si senti più oppresso dalla
persecuzione ruppe nella superba ferita del peccato (cf. 2 Sam. 11, 3
ss.) e divenne rigido e crudele nel volere la morte di un uomo
nobile, mentre era stato molle e senza forza nel desiderio dissoluto
di una donna. Lui che prima aveva saputo salvare piamente i malvagi
imparò poi a desiderare l’uccisione anche dei buoni con fredda
determinazione (cf. 2 Sam. 11, 15). Infatti una volta pur trovandosi
nelle mani il suo persecutore non volle colpirlo, ma in seguito
uccise un soldato devoto, con danno, inoltre, dell’esercito che già
si trovava in difficoltà. E la colpa lo avrebbe certamente strappato
e portato ben lontano dal numero degli eletti, se il castigo divino
non lo avesse richiamato al perdono (cf. 2 Sam. 12).
4
— L’occupazione del governo delle anime per lo più
dissipa l’unità dello spirito
Spesso
le cure assunte col governo delle anime disperdono il cuore in
diverse direzioni così che ci si ritrova incapaci di affrontare
problemi singoli perché la mente confusa è divisa in molte
occupazioni. Perciò un sapiente avvertito ammonisce: Figlio
non applicarti a molte attività (Sir.
11, 10). E ciò per dire che la mente divisa in diverse
operazioni non può raccogliersi pienamente nella considerazione
esigente di ciascuna; e mentre è trascinata al di fuori da una cura
prepotente, si svuota di quella unità dello spirito prodotta
dall’intimo timore: diviene sollecita nella disposizione di cose
esteriori, e ignara solamente di sé, sa pensare a molte cose ma non
conosce se stessa. Infatti, quando si immerge più del necessario in
occupazioni esterne è come se, distratta lungo un viaggio, si
dimenticasse della meta cui era diretta e così, noncurante di
attendere all’esame di se stessa, non considera neppure quali danni
riceve da ciò e ignora l’entità del suo peccato. In effetti
Ezechia non credette di peccare quando mostrò agli ospiti stranieri
i depositi dei profumi (cf. 2 Re 20, 13), ma per questa azione che
egli aveva stimato lecita dovette portare l’ira del Giudice nella
condanna per i suoi discendenti (cf. Is. 39, 4-8). Accade spesso che
molte azioni per sé lecite e tali che, quando sono compiute,
riscuotono l’ammirazione dei sudditi, provochino però una
esaltazione dell’animo anche nel solo pensiero, e questa,
quantunque non si manifesti all’esterno con azioni inique, attira
su di sé l’ira senza riserve del Giudice. Poiché è nell’intimo
colui che giudica ed è l’intimo che è giudicato; e quando
pecchiamo nel cuore ciò che compiamo in noi resta nascosto agli
uomini ma il Giudice stesso è testimone del nostro peccato. Infatti
il re di Babilonia non peccò di superbia solamente quando giunse a
pronunciare parole superbe, poiché egli udì dalla bocca del profeta
la sentenza della sua condanna quando ancora non si era esaltato con
le sue parole (cf. Dan. 4, 16 ss.). Egli poi, in precedenza, aveva
lavato la sua colpa quando aveva riconosciuto onnipotente il Dio che
aveva offeso, predicandolo a tutte le genti che aveva sottomesse (cf.
Dan. 3, 98-100); ma in seguito esaltato per l’affermazione del suo
potere, compiaciuto di aver compiuto grandi cose, si antepose a tutti
nel suo pensiero, e quindi si inorgoglì al punto di esclamare: Non
è questa la grande Babilonia che io ho edificato come cosa del mio
regno, merito
della mia forza, gloria
della mia maestà? (Dan.
4, 27) Furono certamente queste parole che dovettero sostenere
apertamente la vendetta di quell’ira che l’intima esaltazione
aveva acceso. Infatti il severo Giudice aveva veduto già da prima
ciò che invisibilmente era in lui e che rimproverò poi
pubblicamente con la punizione: lo trasformò in animale irrazionale,
lo separò dal consorzio umano, lo associò per la sua mente
sconvolta alle bestie della campagna, affinché per un giudizio
evidentemente severo e tuttavia giusto, finisse col non essere più
un uomo colui che si era stimato grande al di sopra degli uomini (cf.
Dan. 4, 28-30). Così, proponendo questi esempi, non intendiamo
disapprovare il potere in sé, ma difendere la debolezza del cuore
dalla brama di raggiungerlo, affinché gli imperfetti non osino
impadronirsi della massima dignità del governo delle anime, né
coloro che vacillano sul terreno piano si arrischino a porre il piede
sul precipizio.
5
— Alcuni chiamati alla massima dignità del governo delle
anime potrebbero giovare col loro esempio, ma rifiutano
cercando la propria quiete
Ci
sono in effetti alcuni che ricevono doti eccellenti di virtù e
vengono esaltati per i loro grandi doni capaci di sostenere gli altri
nell’esercizio della vita ascetica. Costoro sono puri per l’amore
della castità, forti di quel vigore che è frutto dell’astinenza,
sazi del delizioso nutrimento della dottrina, umili nella loro
paziente longanimità, saldi della forza dell’autorità, benigni a
motivo della loro pietà, rigorosi di quella severità che è propria
della giustizia. Costoro però escludono per lo più anche se stessi
da questi doni che non hanno ricevuto per sé soli ma anche per gli
altri, se quando siano chiamati alla massima dignità del governo
delle anime rifiutano di accettarla. E poiché pensano al loro
guadagno e non a quello altrui, si privano proprio di quei doni che
desiderano possedere a uso privato. Perciò infatti la Verità dice
ai discepoli: Non
può restare nascosta una città posta su un monte, né
si accende una lampada e la si pone sotto un moggio, ma
sopra il candelabro perché faccia luce per tutti coloro che sono in
casa (Mt. 5,
15). Perciò dice a Pietro: Simone
di Giovanni, mi
ami? (Gv. 21,
17) E lui che subito aveva risposto che lo amava si sentì dire: Se
mi ami, pasci
le mie pecore (Gv.
21, 17). Se dunque la cura pastorale è testimonianza d’amore,
chiunque ricco di virtù rifiuta di pascere il gregge di Dio ha in
ciò stesso la prova che egli non ama il Pastore sommo. Perciò Paolo
dice: Se Cristo
è morto per tutti, dunque
tutti sono morti, e
se è morto per tutti resta che coloro che vivono non vivano pia per
sé ma per colui che è morto per loro ed è risorto (2
Cor. 14, 15). Perciò ancora Mosé dice che un fratello che
sopravvive al fratello morto senza figli ne sposi la moglie e generi
figli a nome del fratello; e se rifiuterà di prenderla la donna gli
sputi in faccia e il parente più prossimo di lei gli tolga un
sandalo, e la sua abitazione sia detta casa dello scalzato (cf.
Deut. 25, 5). Ora, il fratello morto è certamente colui che
apparendo dopo la sua gloriosa risurrezione disse: Andate, dite
ai miei fratelli (Mt.
28, 10). Egli è come morto senza figli, poiché non ha completato il
numero dei suoi eletti, e allora al fratello superstite viene
ordinato di ricevere la sua sposa.
Poiché
è certamente cosa degna che la cura della Santa Chiesa venga imposta
a chi più di ogni altro è in grado di governarla. E se egli non
vuole, la donna gli sputa in faccia, giacché chiunque non ha cura di
giovare agli altri coi doni che ha ricevuto, la Santa Chiesa gli
rimprovera anche ciò che egli fa di buono ed è come se gli gettasse
saliva in faccia. Ma egli è anche colui a cui viene tolto il sandalo
da un piede così che la sua casa sia detta dello scalzato, poiché è
scritto: Calzati
i piedi per prepararsi al annunciare l’Evangelo della pace (Ef.
6, 15). Dunque proteggiamo ambedue i piedi coi sandali se ci
prendiamo cura degli altri come di noi stessi; ma è come se perdesse
con vergogna il sandalo da un piede colui che pensando alla propria
utilità trascura quella del prossimo. Così, come abbiamo detto, ci
sono alcuni ricchi di grandi doni i quali ardono dal desiderio della
sola contemplazione e rifiutano di assoggettarsi all’utilità del
prossimo attraverso il servizio della predicazione, perché amano la
quiete appartata e aspirano alla meditazione in solitudine. Se si
dovesse giudicarli con rigore sotto questo aspetto, essi sono
responsabili nei confronti di tante anime, quante sono quelle cui
avrebbero potuto giovare venendo a stare fra gli uomini. In effetti
con quale pensiero colui che avrebbe potuto brillare nella sua
dedizione a vantaggio del prossimo prepone il proprio ritiro alla
utilità degli altri, quando lo stesso Unigenito del Sommo Padre, per
giovare a molti, è uscito dal seno del Padre (cf. Gv. 1, 18; 8, 42;
ecc.) per venire fra gente come noi?
6
— Coloro che fuggono il peso del governo delle anime per
umiltà sono veramente umili quando non resistono al decreto divino
Ci
sono poi alcuni che rifiutano solo per umiltà, per non essere cioè
preferiti a coloro ai quali si stimano inferiori. La loro umiltà, se
si circonda anche delle altre virtù, è certamente vera agli occhi
di Dio, perché essa non si ostina a respingere ciò cui le viene
ordinato di sottomettersi come cosa utile. Non è veramente umile
cioè colui che capisce di dovere stare alla guida degli altri per
decreto della volontà divina e tuttavia disprezza questa preminenza.
Se invece è sottomesso alle divine disposizioni e alieno dal vizio
dell’ostinazione ed è già prevenuto con quei doni coi quali può
giovare agli altri, quando gli viene imposta la massima dignità del
governo delle anime, egli deve rifuggire da essa col cuore, ma pur
contro voglia deve obbedire.
7
— Si dà spesso il caso che alcuni aspirino lodevolmente
all’ufficio della predicazione, e altri lodevolmente vi
si lascino attirare costretti
Sebbene
non di rado ci sia chi lodevolmente aspira all’ufficio della
predicazione, c’è anche chi lodevolmente vi si lascia attirare se
è costretto. Possiamo renderci conto facilmente di ciò se pensiamo
all’opposto atteggiamento di due profeti: uno si offrì
spontaneamente per essere mandato a predicare, l’altro pieno di
timore si rifiutò. Isaia infatti si offri di propria iniziativa al
Signore che chiedeva chi mandare, dicendo: Eccomi, manda
me (Is. 6,
8). Geremia invece è mandato e tuttavia resiste umilmente
per non esserlo, dicendo: Ah, ah, ah, Signore
Dio, ecco
non so parlare perché sono un ragazzo (Ger.
1, 6). Ecco, usci fuori una parola diversa dall’uno e
dall’altro, ma essa non sgorgò da una diversa sorgente d’amore,
giacché due sono i precetti della carità, cioè l’amore di Dio e
l’amore del prossimo. Isaia bramando di giovare al prossimo con la
vita attiva aspira all’ufficio della predicazione; mentre Geremia
desiderando di aderire sinceramente all’amore del Creatore
attraverso la contemplazione oppone che egli non deve essere mandato
a predicare. Pertanto l’uno aspirò lodevolmente a ciò di cui
l’altro lodevolmente ebbe terrore: questo non voleva guastare,
parlando, i frutti di una tacita contemplazione, quello non volle
sentire, tacendo, i danni di un’attività nutrita solo di
desiderio. Tuttavia bisogna penetrare sottilmente l’animo di
ambedue e capire che chi rifiutò non resistette fino all’ultimo; e
colui che volle essere mandato, prima si vide purificato dal carbone
acceso dell’altare (cf. Is. 6, 6-7) a significare che nessuno osi
accostarsi ai ministeri sacri senza essere stato purificato, o anche
che colui che la grazia celeste ha scelto non contraddica
superbamente sotto il pretesto dell’umiltà. Dunque, poiché è
molto difficile che una persona qualsiasi possa riconoscere di essere
stata purificata, è più che sicuro declinare l’ufficio della
predicazione; tuttavia, come s’è detto, non bisogna insistere con
ostinazione nel rifiutarlo quando si riconosce che è volontà
celeste l’assumerlo. Si tratta di due disposizioni dell’animo a
cui Mosé aderì mirabilmente poiché, dovendo essere guida di una
moltitudine tanto grande, non volle ma obbedì (cf. Es. 3, 10 – 4,
18). Forse sarebbe stato superbo se avesse assunto la guida di una
popolazione numerosissima senza trepidazione, e sarebbe ancora
risultato superbo se avesse rifiutato di obbedire all’ordine del
Creatore. Così, in ambedue i casi, egli fu insieme umile e soggetto,
poiché misurando se stesso non volle essere capo del popolo e
tuttavia acconsenti fidando sulle forze di colui che glielo ordinava.
Da questo esempio si rendano conto certe persone irriflessive, di
quanto è grande la loro colpa, se per il proprio desiderio non
temono di essere preposti ad altri, quando — pur dietro l’ordine
di Dio — uomini santi temettero di assumere la guida del popolo.
Mosé trepida dietro l’invito del Signore, e un inetto qualunque
anela ad un ufficio d’onore. Così, chi è spinto a cadere con
forza sotto i propri pesi offre volentieri le sue spalle per
caricarsi di quelli altrui: non ha la forza di sopportare il peso di
cui è già carico e aumenta quel che porta.
8
— Alcuni bramano il potere e si appropriano di una
affermazione dell’Apostolo ai fini della propria concupiscenza
Per
lo più coloro che bramano il potere si appropriano della parola con
cui l’Apostolo dice: Se
qualcuno desidera l’episcopato desidera un buon ufficio (1
Tim. 3, 1), e
l’adoperano ai fini della propria concupiscenza. Egli tuttavia pur
lodando il desiderio volge subito in motivo di timore ciò che ha
lodato, perché immediatamente aggiunge: Occorre
però che il vescovo sia irreprensibile (1
Tim. 3, 2); e continuando poi a enumerare le virtù necessarie,
chiarisce in che cosa consiste questa irreprensibilità. Incoraggia
quanto al desiderio, ma incute timore col precetto come se dicesse
apertamente: Lodo ciò che voi cercate, ma prima imparate bene che
cos’è che cercate, perché se trascurate di misurare voi stessi,
la vostra consapevolezza non appaia tanto più disonorevole, in
quanto ha fretta di mostrarsi a tutti rivestita della dignità
episcopale. Così, colui che fu grande maestro del ministero
pastorale, da un lato spinge i suoi ascoltatori e incoraggia,
dall’altro li trattiene col timore, per difenderli dalla superbia,
con la descrizione della perfetta irreprensibilità, e per disporli
alla vita che li attende lodando l’ufficio da loro richiesto. È da
notare però che egli parlava così in un tempo in cui chiunque fosse
a capo del popolo veniva condotto per primo ai supplizi del martirio.
Allora sì era cosa lodevole aspirare all’episcopato, quando si
sapeva con certezza che attraverso di esso si sarebbe giunti alle più
gravi torture. Anche per questo il ministero dell’episcopato viene
definito con l’espressione buon
ufficio, quando
è detto: Se
qualcuno desidera l’episcopato, desidera
un buon ufficio (1
Tim. 3, 1). Pertanto, colui che cerca l’episcopato per la
gloria di quell’onore e non per il buon ufficio di questo
ministero, testimonia da sé, per se stesso, che non è l’episcopato
ciò a cui egli aspira. In effetti, non solo egli non ama affatto
l’ufficio sacro, ma non sa neppure che cosa sia, lui che anelando
alla massima dignità del governo pastorale, nei pensieri
nascosti della sua mente si pasce della sottomissione altrui, gode
della lode rivolta a sé, esalta il suo cuore al pensiero dell’onore,
esulta per l’abbondanza dei beni affluenti da ogni parte. Così si
cerca il guadagno del mondo, proprio sotto l’apparenza di quella
dignità attraverso la quale i guadagni del mondo si sarebbero dovuti
distruggere. E quando la mente medita di impadronirsi del sommo grado
dell’umiltà avendo di mira la propria esaltazione, muta e deforma
nell’intimo ciò a cui aspira esteriormente.
9
— La mente di coloro che vogliono dominare spesso si
lusinga con il finto proposito di compiere opere buone
Ma
per lo più coloro che bramano di ricevere il magistero pastorale si
pongono in animo anche il proposito di qualche opera buona, e
quantunque nella loro aspirazione a quel magistero abbiano di mira la
propria esaltazione, tuttavia considerano a lungo col pensiero le
grandi cose che faranno e avviene che in essi tutt’altra cosa è
ciò che la loro intenzione soffoca nel profondo, da ciò che la
considerazione superficiale rappresenta al loro animo. Infatti, non
di rado il pensiero mente a se stesso riguardo a sé e si immagina —
quanto al bene operare — di amare ciò che di fatto non ama, e —
quanto alla gloria del mondo — di non amare ciò che ama. E
bramando il potere del primato, mentre lo cerca diviene timoroso
verso di esso, ma quando l’ha ottenuto si fa audace. Infatti,
finché è proteso ad esso, trepida di non arrivarci, ma una volta
arrivato, immediatamente giudica che quanto ha ottenuto gli fosse
dovuto di pieno diritto. E quando incomincia a godere mondanamente
del primato ottenuto, si dimentica volentieri di tutto quanto aveva
meditato di compiere con spirito religioso. Perciò è necessario che
quando l’immaginazione va oltre i limiti di ciò che è
praticamente realizzabile, subito l’attenzione della mente sia
richiamata alle opere compiute in precedenza, perché ciascuno valuti
quanto è stato capace di compiere da suddito e così si renda
immediatamente conto se può, come prelato, compiere le opere buone
che si è proposto. Perché colui che stando all’ultimo posto non
ha cessato di insuperbire non è per nulla in grado di apprendere
l’umiltà quando sia salito al luogo più alto. Non sa fuggire la
lode che gli viene ampiamente tributata, colui che ha imparato a
bramarla quando ne era privo. Né può vincere la cupidigia colui che
si dispone a provvedere a molti, mentre prima per sé solo non gli
bastavano i propri beni. Pertanto ciascuno scopra se stesso
dall’esame della sua vita passata perché nella sua brama di potere
l’immaginazione non lo illuda. Del resto, per lo più al posto di
governo si perde perfino l’uso del bene operare che si osservava in
una vita tranquilla, giacché sul mare calmo anche un inesperto sa
guidare diritta una nave, ma se il mare è mosso da ondate tempestose
anche un marinaio esperto ci si trova in difficoltà. E che cosa è
il culmine del potere se non una tempesta per la mente? In essa la
navicella del cuore è agitata dal fluttuare dei pensieri, spinta
incessantemente qua e là fino ad infrangersi per gli improvvisi
eccessi nel parlare e nell’agire, come contro degli scogli. E così
tra questi frangenti, quale via occorre seguire e quale linea tenere
se non questa: che chi è ricco di virtù venga costretto ad accedere
al governo delle anime, e chi è privo di virtù sia costretto a non
accostarvisi? Se il primo resiste in modo assoluto, veda di non dover
essere giudicato come colui che ha nascosto il denaro ricevuto dopo
averlo avvolto in un fazzoletto (cf. Lc. 19, 20). Perché avvolgere
il denaro nel fazzoletto significa nascondere i doni ricevuti,
nell’ozio di una molle rilassatezza. D’altra parte, chi brama il
governo delle anime badi che attraverso l’esempio di un agire
perverso non si trovi ad essere di inciampo per coloro che vogliono
entrare nel Regno; alla maniera dei farisei, i quali — secondo la
parola del Maestro — non ci entrano loro né permettono che ci
entrino gli altri (cf. Mt. 23, 13). Costui deve poi anche considerare
che, quando il presule eletto assume la cura del popolo, è come un
medico che si accosta ad un malato. Dunque, se nel suo agire sono
ancora vive le passioni, con quale presunzione si affretta a medicare
chi è stato percosso, colui che porta la propria ferita sul volto?
10 — Come
deve essere chi si accosta al governo delle anime
Pertanto,
in tutti i modi deve essere trascinato, a divenire esempio di vita,
colui che morendo a tutte le passioni della carne vive ormai
spiritualmente; ha posposto a tutto il successo mondano; non teme
alcuna avversità; desidera solamente i beni interiori. Pienamente
conformi alla sua intima disposizione, non lo contrastano né il
corpo con la sua debolezza né lo spirito col suo orgoglio. Egli non
è condotto a desiderare i beni altrui, ma è largo dei propri. Per
le sue viscere di misericordia si piega ben presto al perdono ma
non deflette dalla più alta rettitudine, passando sopra più di
quanto conviene. Non commette nulla di illecito, ma piange come
proprio il male commesso dagli altri. Compatisce la debolezza altrui
con tutto l’affetto del cuore, gioisce dei beni del prossimo come
di successi suoi. In tutto ciò che fa si mostra imitabile agli
altri, così che con loro non gli avviene di dover arrossire nemmeno
per fatti passati. Si studia di vivere in modo tale da essere in
grado di irrigare, con le acque della dottrina, gli aridi cuori del
suo prossimo. Attraverso la pratica della preghiera, ha imparato per
esperienza che può ottenere da Dio ciò che chiede, lui cui in modo
speciale è detto dalla parola profetica: Mentre
ancora tu parli, io
dirò: Eccomi, sono qui (Is.
58, 9). Infatti, se venisse qualcuno a prenderci per condurci come
suoi intercessori presso un potente adirato con lui e che, per altro,
non conosciamo, noi risponderemmo subito: non possiamo venire ad
intercedere perché non sappiamo niente di lui. Dunque, se un uomo si
vergogna di farsi intercessore presso un altro uomo che non conosce,
con quale animo può attribuirsi la funzione di intercedere per il
popolo presso Dio, chi non sa di godere la familiarità della sua
grazia con la sua condotta di vita? O come può chiedergli perdono
per gli altri uno che non sa se egli è placato verso di lui? A
questo proposito, un’altra cosa occorre temere con maggiore
sollecitudine, cioè che colui che si crede possa placare l’ira,
non la meriti a sua volta a causa del proprio peccato. Giacché
sappiamo tutti molto bene che se chi viene mandato a intercedere è
già sgradito per se stesso, l’animo di chi è irato viene
provocato a cose peggiori. Pertanto, chi è ancora stretto dai
desideri terreni veda di non accendere più gravemente l’ira del
Giudice severo e mentre gode del suo luogo di gloria, non divenga
autore di rovina per i sudditi.
11
— Com’è colui che non deve accostarsi al ministero
Ciascuno
dunque misuri saggiamente se stesso, perché non osi assumere la
funzione di governo a sua condanna se in lui regna ancora il vizio; e
non aspiri a divenire intercessore per le colpe degli altri colui in
cui permane la depravazione del suo peccato. Perciò viene detto a
Mosé dalla voce celeste: Parla
ad Aronne: chiunque
appartenente a famiglie della tua discendenza avrà un difetto, non
offrirà pani al Signore Dio suo né si accosterà per servirlo (Lev.
21, 17). Poi prosegue immediatamente: Se
sarà cieco, zoppo, col
naso troppo piccolo o troppo grande e storto, con
una frattura a un piede o a una mano, sia
gobbo o cisposo, con
albugine nell’occhio, la
scabbia, l’erpete
nel corpo, l’ernia (Lev.
21, 18). È cieco chi non conosce la luce della
contemplazione celeste, e avvolto dalle tenebre della vita presente,
incapace di guardare con amore alla luce che deve venire, non sa dove
dirigere i passi del suo operare. Perciò è detto nella profezia di
Anna: Custodirà
i passi dei suoi santi, e
gli empi taceranno nelle tenebre (1
Sam. 2, 9). Zoppo, invece, è colui che vede con certezza dove
deve dirigersi, ma per debolezza d’animo non sa mantenersi
perfettamente sulla via della vita, che pure vede; e ciò perché i
passi del suo operare non seguono efficacemente gli sforzi del suo
desiderio, là dove esso mira, cioè a una condizione virtuosa a cui
non sa innalzarsi la sua molle consuetudine di vita. Perciò infatti
Paolo dice: Rinfrancate
le mani cadenti e le ginocchia infiacchite e raddrizzate le vie per i
vostri passi, perché
qualcuno zoppicando non erri ma piuttosto sia guarito (cf.
Ebr. 12, 12-13). Ha il naso piccolo colui che non è adatto a
osservare la misura della discrezione. In effetti, col naso
distinguiamo odori gradevoli e sgradevoli, dunque è giusto
rappresentare col naso la discrezione con la quale scegliamo le virtù
e riproviamo i peccati. È perciò che si dice, in lode della
sposa: Il tuo
naso è come torre sul Libano (Cant.
7, 4), poiché è evidentemente con la discrezione che la Santa
Chiesa scorge quali tentazioni procedono da singole cause e, come chi
osserva dall’alto, riconosce le guerre dei vizi che stanno per
sopravvenire. Ma ci sono alcuni che per non essere stimati troppo
poco intelligenti si impegnano spesso più del necessario in certe
analisi ricercate in cui poi falliscono per l’eccessiva
sottigliezza. Perciò è detto anche: o
col naso grande e storto. Questo
infatti rappresenta la sottigliezza eccessiva del discernimento che,
per essere cresciuto oltre il conveniente, confonde da se stesso il
retto procedere della sua attività. Ha il piede o la mano fratturata
colui che non sa percorrere in alcun modo la via di Dio ed è
completamente escluso dalle buone opere, perché non ne partecipa
neppure imperfettamente come lo zoppo, ma è del tutto estraneo ad
esse. Gobbo, poi, è colui cui il peso delle sollecitudini terrene fa
abbassare il capo affinché non si volga mai a guardare verso l’alto,
ma sia attento solamente a ciò che viene calpestato nei luoghi più
bassi. E se qualche volta gli avviene di sentire parlare dei beni
della patria celeste, gravato com’è dal peso di una consuetudine
perversa, non volge ad essi gli occhi del cuore, poiché colui che è
tenuto curvo a terra dalla consuetudine delle cure terrene, non è
capace di drizzare verso l’alto la sua meditazione. È di costoro
che il salmista dice: Sono
incurvato e umiliato in ogni tempo (Sal.
37, 7). Anche la Verità in persona rimprovera la loro colpa,
dicendo: Il
seme caduto fra le spine sono coloro che dopo avere udito la
parola, se
ne vanno e vengono soffocati dalle sollecitudini, dalle
ricchezze e dai piaceri della vita e non portano frutto (Lc.
8, 14).
Il
cisposo è colui il cui ingegno è lucido e acuto per la conoscenza
della verità, e tuttavia le sue azioni carnali lo oscurano. In
effetti, negli occhi cisposi le pupille sono sane, ma le palpebre,
malate per la continua secrezione di umore si gonfiano, e per la
frequenza di questo deflusso si indeboliscono così che anche la
acutezza della pupilla ne resta menomata. E ci sono alcuni la cui
sensibilità resta ferita da una vita dedita ad attività carnali: la
sottigliezza d’ingegno consentirebbe loro di scorgere ciò che è
retto, ma essi sono oscurati dalla pratica di un agire depravato.
Così è cisposo colui a cui la natura ha fatto acuta la sensibilità
ma il suo comportamento corrotto la confonde. Ben vien detto loro,
per mezzo dell’angelo: Ungi col collirio i tuoi occhi per
vedere (Ap. 3, 18). Allora ungiamoci gli occhi col
collirio per vedere e aiutiamo con la medicina di un buon operare
l’acutezza del nostro intelletto, per conoscere lo splendore della
vera luce. Ha l’albugine nell’occhio colui al quale
l’accecamento, prodotto dalla sua presunzione di sapienza e di
giustizia, non permette di vedere la luce della verità. Infatti, se
la pupilla dell’occhio è nera, vede, ma se porta una macchia
bianca, non vede nulla. Poiché è chiaro che, se l’uomo nella sua
meditazione si riconosce stolto e peccatore, giunge all’esperienza
della chiarezza interiore. Se invece egli si attribuisce la candida
lucentezza della sapienza e della giustizia, si esclude da sé dalla
conoscenza della luce divina; e tanto meno riesce a penetrare la
chiarezza della vera luce, quanto più per la sua presunzione si
esalta ai propri occhi. Come è detto di certuni: Dicendo di
essere sapienti sono divenuti stolti (Rom. 1, 22). È poi
affetto da scabbia persistente colui che è dominato da una
incessante richiesta della carne. Infatti, nella scabbia è come se
l’ardore delle viscere affiorasse sulla pelle, e con essa
giustamente si designa la lussuria poiché se la tentazione del cuore
si affretta a esprimersi negli atti, è appunto un ardore intimo che
prorompe come scabbia della pelle, e ormai esteriormente copre il
corpo di piaghe; poiché il piacere che non si sa reprimere nel
pensiero, domina poi anche nell’azione. E Paolo si preoccupava di
come togliere il prurito dalla pelle quando diceva: Non vi
colga alcuna tentazione se non umana (1 Cor. 10, 13); come
a dire: è certamente umano che il cuore sopporti una tentazione, ma
è demoniaco, nella lotta con la tentazione, lasciarsi vincere da
essa mettendola in opera. Similmente è come chi ha l’erpete nel
corpo chiunque ha l’animo devastato dall’avidità, che se non è
contenuta nelle piccole cose è inevitabile che si espanda oltre
misura. L’erpete in effetti ricopre il corpo in modo indolore e,
senza alcun fastidio di colui che ne è colpito, si ingrandisce
deturpando il decoro delle membra; allo stesso modo l’avidità,
mentre dà quasi l’impressione di procurare piacere a colui che ne
è preso, di fatto gli piaga l’anima e mentre gli rappresenta al
pensiero quanto può ancora giungere a possedere, lo accende alla
discordia senza provocargli però dolore alla ferita, perché
promette, all’animo che arde per essi, abbondanza di beni derivanti
dalla colpa stessa. Ma il decoro deturpato delle membra significa che
la bellezza delle altre virtù è corrotta a causa dell’avidità, e
come l’erpete devasta tutto il corpo, così l’avidità distrugge
l’animo con tutti gli altri vizi, secondo l’insegnamento di Paolo
che dice: La cupidigia è radice di tutti i mali (cf.
1 Tim. 6, 10). E il malato di ernia è chi non pratica il vizio e
tuttavia ne ha la mente gravata dal pensiero continuo e smodato; e se
di fatto non è trascinato fino all’atto del peccato, tuttavia il
suo animo gode del piacere della lussuria senza alcuno stimolo a
resistergli. Si ha, come è noto, la malattia dell’ernia quando
l’umore viscerale scende nelle parti virili che si gonfiano in modo
certo molesto e indecoroso. Pertanto, con malato d’ernia, si
intende colui che trascorrendo alla lascivia con ogni suo pensiero,
porta nel cuore un peso vergognoso, e quantunque non esprima
nell’atto questa depravazione, non riesce però a strapparsene con
la mente; e non è capace di innalzarsi decisamente alla pratica
delle buone opere perché è gravato di nascosto da questo peso
turpe. Perciò, a chiunque sia gravato di qualcuno di questi vizi è
proibito offrire pani al Signore, perché non possa in alcun modo
sciogliere i peccati degli altri lui che è ancora preda dei propri.
Dunque, poiché abbiamo indicato in breve in qual modo uno può
accostarsi degnamente al magistero pastorale, e come lo debba temere
chi ne è indegno, ora intendiamo mostrare in che modo, colui che vi
sia pervenuto in modo degno, debba vivere in esso.
PARTE
SECONDA
LA
VITA DEL PASTORE
1 —
Come si deve mostrare nell’esercizio del governo delle anime
colui che vi sia giunto legittimamente
Il
comportamento del presule deve essere di tanto superiore a quello del
popolo, quanto la vita del pastore differisce, ordinariamente, da
quella del gregge. Infatti è opportuno che egli si dia cura di
misurare con sollecitudine quale necessità lo costringa ad una
rigorosa rettitudine, perché è per lui che il popolo è chiamato
gregge. Bisogna allora che egli sia puro nel pensiero, esemplare
nell’agire, discreto nel suo silenzio, utile con la sua parola; sia
vicino a ciascuno con la sua compassione e sia, più di tutti,
dedito alla contemplazione; sia umile alleato di chi fa il bene, ma
per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei
peccatori; non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni
esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la
sollecitudine del bene interiore. Ma ora vogliamo riprendere in una
trattazione più estesa queste qualità che abbiamo ristrette
brevemente nell’enunciazione.
2
— La guida delle anime sia pura nel pensiero
La
guida delle anime sia sempre pura nel suo pensiero, affinché nessuna
immondezza contamini colui che ha assunto questo ufficio ed egli sia
in grado di lavare anche i cuori altrui dalle macchie dell’impurità;
perché bisogna che abbia cura di essere pulita la mano che si
adopera a pulire ciò che è sudicio, e non renda ancora più sporco
ciò che va toccando mentre è ancora infangata. Perciò è detto per
mezzo del profeta: Purificatevi
voi, che
portate i vasi del Signore (Is.
52, 12). Infatti portano i vasi del Signore coloro che si
assumono di condurre le anime ai santuari eterni, con la fedeltà
della propria condotta di vita. Dunque, vedano in se stessi quanto
debbano essere purificati, quelli che dentro la promessa che hanno
fatto di sé portano vasi viventi al tempio eterno. Perciò viene
prescritto dalla parola divina che sul petto di Aronne aderisca,
legato con nastri, il razionale del giudizio (cf. Es. 28, 15),
affinché il cuore del sacerdote non sia posseduto da pensieri
oscillanti ma sia tenuto stretto solo dalla sapienza dello spirito: e
non pensi a nulla di incerto o di inutile colui che, stabilito come
esempio per gli altri, deve sempre mostrare, con l’austerità della
vita, quanta sapienza abbia nel cuore. E si ha cura di aggiungere che
in questo razionale si scrivano i nomi dei dodici patriarchi;
infatti, portare di continuo i padri scritti sul petto significa
meditare senza interruzione la vita degli antichi, e il sacerdote
procede in modo irreprensibile quando fissa il suo sguardo senza posa
sugli esempi dei padri che l’hanno preceduto, considera
incessantemente le orme dei santi e reprime pensieri illeciti per non
oltrepassare il limite di un agire ordinato. Ed è anche appropriato
il nome di razionale del giudizio, poiché il sacerdote deve sempre
discernere con esame sottile e retto il bene e il male e studiare
attentamente come si accordino gli oggetti e i mezzi, il tempo e il
modo; e non cercare mai nulla per sé ma considerare vantaggio
proprio il bene altrui. Perciò là è scritto: Porrai
sul razionale del giudizio la dottrina e la verità, che
staranno sul petto di Aronne quando entrerà davanti al Signore, e
porterà il giudizio dei figli di Israele sul suo petto, davanti
al Signore, sempre (Es.
28, 30). Per il sacerdote, portare il giudizio dei figli di
Israele sul petto davanti al Signore, significa trattare le cause dei
sudditi avendo di mira solo la volontà del Giudice interiore, perché
ad essa nulla si mescoli di umano in ciò che egli dispensa come
rappresentante di Dio né alcun risentimento personale inasprisca
l’ardore della correzione. E quando si mostra pieno di zelo contro
i vizi altrui, persegua innanzitutto i propri perché una invidia
nascosta non contamini la pacatezza del giudizio, o non la turbi
un’ira precipitosa. Ma considerando il sacro terrore che si deve a
colui che sta sopra a tutto, cioè l’intimo Giudice, non si devono
governare i sudditi senza grande timore: quel timore che mentre
umilia l’animo di chi governa lo purifica, perché la presunzione
spirituale non lo esalti né lo contamini il piacere carnale o non lo
oscurino sconvenienti pensieri terrestri, frutto della cupidigia di
cose mondane. Tutte queste tentazioni non possono non assalire
l’anima di chi governa, ma è necessario affrettarsi a lottare
contro di esse per vincerle affinché, per il fatto che l’anima
tarda a respingerle, il vizio che la tenta con la suggestione non la
sottometta con la mollezza del piacere e non la uccida con la spada
del consenso.
3
— La guida
delle anime sia sempre esemplare nel suo agire
La
guida delle anime sia esemplare nel suo agire per potere annunciare
ai sudditi, col suo modo di vivere, la via della vita; e il gregge
che va dietro alla voce e ai costumi del Pastore, proceda più con
l’aiuto dei suoi esempi che delle sue parole. Infatti, chi per
dovere indeclinabile del suo ministero è tenuto a dire cose elevate,
dal medesimo dovere è costretto a mostrare cose elevate nei fatti;
giacché il cuore degli ascoltatori è più facilmente penetrato
dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla, il quale
con l’esempio aiuta ad eseguire ciò che comanda a parole. Perciò
è detto per mezzo del profeta: Sali
su un monte eccelso, tu
che evangelizzi Sion (Is.
40, 9). Cioè, chi pratica la divina predicazione deve mostrare
che, abbandonando le più basse attività terrestri, sta saldo al di
sopra delle cose; e tanto più facilmente può attirare i sudditi
verso il meglio, quanto è con il merito della sua vita che egli
grida le verità celesti. Per questo, per la legge divina, nel
sacrificio il sacerdote riceve la spalla destra separata dal resto
(cf. Es. 29, 22), perché la sua condotta non sia solo utile ma anche
esemplare, il suo agire sia retto non solo tra i cattivi ma egli
superi per le virtù della sua vita anche i sudditi che operano il
bene come è superiore a loro, per la dignità dell’Ordine. A lui,
poi, viene assegnata, come cibo, oltre alla spalla, anche la parte
tenera del petto, perché quanto gli è prescritto di prendere dal
sacrificio impari ad immolarlo in se stesso al Creatore. Ed egli non
deve solamente meditare retti pensieri nel suo petto, ma invitare
quanti lo osservano ad azioni elevate, indicate dalle spalle: non
aspiri alla prosperità della vita presente, non tema le avversità,
disprezzi le lusinghe del mondo come per un intimo senso di terrore,
ma poi, ai terrori che esse suscitano, non badi, volgendosi al
conforto della dolcezza interiore. E per questo la parola divina
ordina pure che le spalle del sacerdote siano avvolte dal velo
omerale (cf. Es. 29, 5), perché egli sia sempre difeso
dall’ornamento delle virtù contro l’avversità e contro la
prosperità affinché, secondo la parola di Paolo, avanzando con le
armi della giustizia a destra e a sinistra (cf. 2 Cor. 6, 7) e
indirizzando ogni sforzo solo verso i beni interiori, non pieghi né
da un lato né dall’altro verso alcun basso piacere.
Non
lo esalti la prosperità, non l’abbatta l’avversità, nessuna
lusinga lo alletti fino a fargli ricercare il piacere; l’asprezza
delle difficoltà non lo spinga alla dispersione, e così, senza che
alcuna passione trascini verso il basso la tensione del suo spirito,
egli possa mostrare di quanta bellezza il velo omerale ricopra le sue
spalle. Ed è anche giustamente prescritto che il velo omerale sia
d’oro, di violaceo, di porpora, di scarlatto tinto due volte e di
bisso ritorto (cf. Es. 28, 8), per dimostrare di quante virtù debba
risplendere il sacerdote. Ora, nell’abito del sacerdote,
soprattutto rifulge l’oro poiché in lui deve brillare
principalmente una intelligenza sapiente. Ad esso si aggiunge il
violaceo che risplende di riflessi d’oro, affinché attraverso ogni
conoscenza a cui perviene, egli non ricerchi basse soddisfazioni, ma
si innalzi all’amore delle cose celesti; e non avvenga che mentre
si lascia prendere incautamente dalle lodi che gli vengono rivolte,
resti privo proprio dell’intelligenza della verità. All’oro e al
violaceo si mescola pure la porpora, per indicare cioè che il cuore
sacerdotale, mentre spera le cose somme che predica, deve reprimere
anche in se stesso le suggestioni dei vizi e contraddire ad essi come
in virtù di un potere regale, poiché egli deve avere sempre di mira
la nobiltà di una continua intima rigenerazione e difendere, coi
suoi costumi, l’abito del regno celeste. Di questa nobiltà dello
spirito, per mezzo di Pietro è detto: Ma
voi siete stirpe eletta, sacerdozio
regale (1
Pt. 2, 9). E anche riguardo a questo potere di sottomettere i
vizi, siamo confortati dalla parola di Giovanni che dice: Ma
a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di
Dio (Gv.
1, 12). Ed è considerando la dignità di questa potenza che il
salmista dice: Per
me sono stati molto onorati i tuoi amici, o
Dio, quanto
è stato rafforzato il loro principato (Sal.
138, 17).
Poiché
è certo che l’animo dei santi si leva verso le più grandi altezze
principalmente quando, all’esterno, essi sono visibilmente
sottoposti all’abiezione. Inoltre, all’oro, al violaceo e alla
porpora si aggiunge lo scarlatto tinto due volte, a significare che
agli occhi del Giudice interiore ogni bene di virtù deve adornarsi
della carità, e tutto quanto risplende davanti agli uomini, alla
presenza del Giudice occulto deve essere acceso dalla fiamma
dell’amore intimo. Ed è evidente che la carità, in quanto ama Dio
e il prossimo, rifulge quasi di una doppia tintura. Pertanto, colui
che anela alla bellezza del Creatore, ma trascura di occuparsi del
prossimo, oppure si occupa del prossimo ma è torpido nell’amore di
Dio, per avere trascurato uno di questi due precetti, non sa portare
lo scarlatto tinto due volte, sul velo omerale. Resta ancora però,
senza dubbio, che quando lo spirito è teso verso i comandamenti
della carità, la carne deve macerarsi nell’astinenza. Perciò si
aggiunge allo scarlatto il bisso ritorto. Infatti il bisso nasce
dalla terra con un aspetto splendente, e che cosa può essere
designata dal bisso se non la castità luminosa per la dignità di un
corpo puro? Ed essa si intreccia, ritorta, alla bellezza del velo
omerale perché la castità è portata al candore perfetto della
purezza quando la carne si affatica nell’astinenza. E quando, tra
le altre virtù progredisce anche il merito di una carne umiliata, è
come bisso ritorto che risplende nella varia bellezza del velo
omerale.
4
— La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio, utile
con la sua parola
La
guida delle anime sia discreta nel suo silenzio e utile con la sua
parola affinché non dica ciò che bisogna tacere e non taccia ciò
che occorre dire. Giacché come un parlare incauto trascina
nell’errore, così un silenzio senza discrezione lascia nell’errore
coloro che avrebbero potuto essere ammaestrati. Infatti, spesso,
guide d’anime improvvide e paurose di perdere il favore degli
uomini hanno gran timore di dire liberamente la verità; e, secondo
la parola della Verità, non servono più alla custodia del gregge
con lo zelo dei pastori ma fanno la parte dei mercenari (cf. Gv. 10,
13), poiché, quando si nascondono dietro il silenzio, è come se
fuggissero all’arrivo del lupo. Per questo infatti, per mezzo del
profeta, il Signore li rimprovera dicendo: Cani
muti che non sanno abbaiare (Is.
56, 10). Per
questo ancora, si lamenta dicendo: Non
siete saliti contro, non
avete opposto un muro in difesa della casa d’Israele, per
stare saldi in combattimento nel giorno del Signore (Ez.
13, 5). Salire
contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera parola in
difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del
Signore è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei
malvagi. Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere
temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle col proprio
silenzio? Ma chi si espone in difesa del gregge, oppone ai nemici un
muro in difesa della casa di Israele. Perciò di nuovo viene detto al
popolo che pecca: I
tuoi profeti videro per te cose false e stolte e non ti manifestavano
la tua iniquità per spingerti alla penitenza (Lam.
2, 14). È
noto che nella lingua sacra spesso vengono chiamati profeti i maestri
che, mentre mostrano che le cose presenti passano, insieme rivelano
quelle che stanno per venire. Ora, la parola divina rimprovera
costoro di vedere cose false, perché mentre temono di scagliarsi
contro le colpe, invano blandiscono i peccatori con promesse di
sicurezza: essi non svelano le iniquità dei peccatori perché si
astengono col silenzio dalle parole di rimprovero. In effetti le
parole di correzione sono la chiave che apre, poiché col rimprovero
lavano la colpa che, non di rado, la persona stessa che l’ha
compiuta ignora.
Perciò
Paolo dice: (Il vescovo) sia in grado di esortare nella sana
dottrina e di confutare i contraddittori (Tit. 1, 9). Perciò
viene detto per mezzo di Malachia: Le labbra del sacerdote
custodiscano la scienza e cerchino la legge dalla sua bocca, perché
è angelo del Signore degli eserciti (Mal. 2, 7).
Perciò
per mezzo di Isaia il Signore ammonisce dicendo: Grida, non
cessare, leva
la tua voce come una tromba (Is.
58, 1). E invero chiunque si accosta al sacerdozio assume
l’ufficio del banditore perché, prima dell’avvento del Giudice
che lo segue con terribile aspetto, egli lo preceda col suo grido. Se
dunque il sacerdote non sa predicare, quale sarà il grido di un
banditore muto? Ed è perciò che lo Spirito Santo, la prima volta,
si posò sui Pastori in forma di lingue (Atti, 2, 3), poiché rende
subito capaci di parlare di Lui, coloro che ha riempiti. Perciò
viene ordinato a Mosé che il sommo sacerdote entrando nel
tabernacolo si accosti con tintinnio di campanelli, abbia cioè le
parole della predicazione, per non andare con un colpevole silenzio
incontro al giudizio di colui che lo osserva dall’alto. È scritto
infatti: Perché
si oda il suono quando entra e quando esce dal santuario in cospetto
del Signore, e
non muoia (Es.
28, 35). Così il sacerdote, che entra o che esce, muore se
da lui non si ode suono, poiché attira su di sé l’ira del Giudice
occulto se cammina senza il suono della predicazione. Inoltre, quei
campanelli sono descritti come opportunamente inseriti nelle sue
vesti, perché le vesti del sacerdote non dobbiamo intenderle
altrimenti che come le sue buone opere, per testimonianza del profeta
che dice: I
tuoi sacerdoti si rivestano di giustizia (Sal.
131, 9). Pertanto, i campanelli sono inseriti nelle sue vesti,
perché insieme al suono della parola, anche le opere stesse del
sacerdote proclamino la via della vita. Ma quando la guida delle
anime si prepara a parlare, ponga ogni attenzione e ogni studio a
farlo con grande precauzione, perché se si lascia trascinare a un
parlare non meditato, i cuori degli ascoltatori non restino colpiti
dalla ferita dell’errore; e mentre forse egli desidera di mostrarsi
sapiente non spezzi stoltamente la compagine dell’unità. Perciò
infatti la Verità dice: Abbiate
sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc.
9, 49). Col sale è indicata la sapienza del Verbo. Pertanto chi
si sforza di parlare sapientemente, tema molto che il suo discorso
non confonda l’unità degli ascoltatori. Perciò Paolo dice: Non
sapienti più di quanto è opportuno, ma
sapienti nei limiti della sobrietà (Rom.
12, 3). Perciò nella veste del sacerdote, secondo la parola
divina, ai campanelli si uniscono le melagrane (Es. 28, 34). E che
cosa viene designato con le melagrane se non l’unità della fede?
Infatti, come nelle melagrane i molti grani dell’interno sono
protetti da un’unica buccia esterna, così l’unità della fede
protegge tutti insieme gli innumerevoli popoli che costituiscono la
Santa Chiesa e che si distinguono all’interno per la diversità dei
meriti. Così, affinché la guida delle anime non si butti a parlare
da incauto, come già si è detto, la Verità stessa grida ai suoi
discepoli: Abbiate
sale in voi e abbiate pace tra voi, come
se attraverso la figura della veste del sacerdote dicesse: Aggiungete
melagrane ai campanelli affinché, in tutto ciò che dite abbiate a
conservare con attenta considerazione l’unità della fede. Inoltre,
le guide delle anime debbono provvedere con sollecita cura, non solo
a non fare assolutamente discorsi perversi e falsi, ma a non dire
neppure la verità in modo prolisso e disordinato, perché spesso il
valore delle cose dette si perde quando viene svigorito, nel cuore di
chi ascolta, da una loquacità inconsiderata e inopportuna. Questa
medesima loquacità, poi, che è certamente incapace di servire
utilmente gli ascoltatori, contamina anche colui che la esercita. Per
cui è ben detto per mezzo di Mosé: L’uomo
che soffre di flusso di seme, sarà
immondo (Lev.
15, 2). Di fatto, la qualità del discorso udito è seme di quel
pensiero che gli terrà dietro nella mente degli ascoltatori, poiché
la parola, ricevuta attraverso l’orecchio, nella mente genera il
pensiero. È per questo che, dai sapienti di questo mondo, il bravo
predicatore è chiamato seminatore di parole (cf. Atti, 17, 18).
Dunque, chi patisce flusso di seme è dichiarato impuro, perché chi
è soggetto a una eccessiva loquacità si macchia con quel seme da
cui — se l’avesse effuso in modo ordinato — avrebbe potuto
generare nei cuori degli ascoltatori la prole del retto pensiero; ma
se lo sparge con una loquacità inconsiderata, è come chi emette il
seme, non al fine di generare ma per l’impurità. Perciò anche
Paolo, quando esorta il discepolo ad insistere nella predicazione
dicendo: Ti
scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che giudicherà i vivi e i
morti, per
il suo avvento e il suo regno, predica
la parola, insisti
opportunamente, importunamente (2
Tim. 4, 1-2); prima di
dire importunamente premise opportunamente, perché
è chiaro che nella considerazione di chi ascolta, l’importunità
appare in tutta la sua qualità spregevole se non sa esprimersi in
modo opportuno.
5
— La guida
delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più
di tutti dedito alla contemplazione
La
guida delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più
di tutti dedito alla contemplazione, per assumere in sé, con le sue
viscere di misericordia, la debolezza degli altri, e insieme, per
andare oltre se stesso nell’aspirazione delle realtà invisibili,
con l’altezza della contemplazione. E così, se guarda con
desiderio verso l’alto non disprezzi le debolezze del prossimo o se
viceversa, si accosta ad esse, non trascuri di aspirare all’alto.
Perciò infatti Paolo è condotto in Paradiso e vi scruta i segreti
del terzo cielo (cf. 2 Cor. 12, 2 ss.), e tuttavia, pur assorto in
quella contemplazione delle cose invisibili, richiama l’acutezza
della sua mente al letto dell’unione carnale e definisce come
questa debba essere vissuta nella sua intimità, dicendo: A causa
della fornicazione, ciascun
uomo abbia la propria moglie e ciascuna donna abbia il proprio
marito. Il
marito dia alla moglie quanto le deve; e
similmente, la
moglie al marito (1
Cor. 7, 2). E poco dopo: Non
privatevi l’uno dell’altro se non temporaneamente e
d’accordo, per
attendere alla preghiera, e
di nuovo ritornate insieme perché Satana non vi tenti (1
Cor. 7, 5). Ecco, egli viene già introdotto ai segreti celesti
e tuttavia per la sua accondiscendente misericordia investiga il
letto dell’unione carnale, e quello sguardo del cuore che egli, già
innalzato, rivolge alle cose invisibili lo piega pieno di compassione
verso i segreti di creature inferme. Oltrepassa il cielo con la
contemplazione e tuttavia non tralascia, nella sua sollecitudine, di
occuparsi del giaciglio dell’unione carnale; poiché, congiunto
strettamente alle realtà più alte e insieme alle infime dall’intimo
abbraccio della carità, egli è rapito potentemente verso l’alto
per virtù del suo spirito, ma per la sua misericordia, nella mitezza
del suo animo, si fa debole negli altri. Perciò infatti dice: Chi
è debole e io non sono debole? Chi patisce scandalo e io non
brucio? (2
Cor. 11, 29). E perciò ancora dice: Con
i Giudei sono divenuto come Giudeo (1
Cor. 9, 20). Evidentemente mostrava ciò non con la perdita
della fede, bensì con l’estendere la sua misericordia, così che
trasferendo in sé la persona degli infedeli potesse imparare da se
stesso come avrebbe dovuto avere compassione degli altri e fare a
loro il bene che — nella medesima condizione — avrebbe rettamente
voluto fosse fatto a lui. E di nuovo perciò dice: Se
usciamo di mente è per Dio; se
siamo sobri è per voi (2
Cor. 5, 13), poiché nella contemplazione egli sapeva salire
oltre se stesso, ma sapeva ugualmente moderare se stesso per
condiscendenza verso i suoi ascoltatori. Per questo Giacobbe, quando
il Signore risplendeva su di lui in alto ed egli in basso unse la
pietra, vide angeli che salivano e scendevano (cf. Gen. 28, 12): a
significare, cioè, che i veri predicatori non solo anelano verso
l’alto con la contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al
Signore, ma nella loro misericordia scendono pure in basso, alle sue
membra. Ugualmente Mosé entra ed esce tanto frequentemente dal
Tabernacolo: dentro, è rapito dalla contemplazione; fuori, è
pressato dalle necessità di creature inferme. Dentro, medita i
misteri di Dio; fuori, porta i pesi delle realtà carnali. Ma pure,
quando si tratta di casi dubbi egli ricorre sempre al Tabernacolo e
davanti all’arca del testamento consulta il Signore: certo per
offrire un esempio alle guide delle anime perché, quando nelle
decisioni di carattere esterno si trovano nell’incertezza,
ritornino sempre al proprio cuore come . al Tabernacolo; sarà come
se fossero davanti all’arca del testamento a consultare il Signore,
se riguardo a ciò per cui dentro di sé sono in dubbio,
ricercheranno nel loro intimo le pagine della parola sacra. Perciò
la Verità stessa che ci si è mostrata nell’assunzione della
nostra umanità, sul monte si immerge nella preghiera, ma nelle città
opera i miracoli (cf. Lc. 6, 12): evidentemente per appianare la via
dell’imitazione alle buone guide delle anime, perché se anche sono
già protese alle somme altezze della contemplazione, sappiano
tuttavia mescolarsi compatendo alle necessità di creature inferme.
Poiché la carità si eleva a meravigliosa altezza quando si trascina
con misericordia fino alle bassezze del prossimo; e con quanto
maggior benevolenza si piega verso le infermità tanto più
potentemente risale verso l’alto. Coloro che presiedono si mostrino
tali che quanti sono loro soggetti non arrossiscano di affidar loro i
propri segreti, affinché, quando si sentono come bambini nella lotta
contro i flutti delle passioni, ricorrano al cuore del Pastore come
al seno di una madre; e col sollievo della sua esortazione e le
lacrime della sua preghiera lavino le impurità della colpa che preme
e minaccia di contaminarli. Per questo davanti alla porta del tempio
c’è il mare di bronzo, cioè il bacino per la purificazione delle
mani di chi entra, ed è sostenuto da dodici buoi i quali sporgono
con la parte anteriore mentre la posteriore resta nascosta (cf. 1 Re
7, 23-25). Che cosa significano i dodici buoi se non tutto l’ordine
dei Pastori, dei quali, secondo il commento che ne fa Paolo, la
Scrittura dice: Non
mettere la museruola al bue che trebbia (1
Cor. 9, 9)? Di
essi non vediamo le opere compiute apertamente, ma ignoriamo ciò che
li attende nella segreta retribuzione del severo Giudice. Tuttavia
quando essi con la loro paziente accondiscendenza dispongono il
prossimo alla confessione purificatrice è come se portassero su di
sé il bacino davanti alle porte del tempio, affinché chiunque si
sforza di entrare per la porta dell’eternità, manifesti al cuore
del Pastore le sue tentazioni e — per così dire — lavi il suo
pensiero e le sue azioni nel bacino dei buoi. Accade pure spesso che
il Pastore nell’ascoltare benevolmente le tentazioni altrui ne
diviene vittima egli stesso come senza dubbio resta inquinata quella
medesima acqua del bacino, nella quale si purifica la moltitudine del
popolo. Infatti mentre riceve l’impurità di coloro che si lavano,
l’acqua viene come a perdere la sua limpida purezza, ma non si deve
temere che avvenga lo stesso del Pastore, poiché Dio che pensa a
tutto con cura minuziosa lo strappa alla sua tentazione tanto più
facilmente quanto maggiore è la misericordia con cui egli si carica
della tentazione altrui.
6
— La guida delle anime sia umile alleato di chi fa il
bene; e per il suo zelo della giustizia sia inflessibile
contro i vizi dei peccatori
La
guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene e per il suo
zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori;
così non si anteponga in nulla ai buoni, e quando la colpa dei
malvagi lo esige, non esiti a riconoscere il potere del suo primato.
In tal modo, lasciando da parte la dignità che riveste, si consideri
uguale ai sudditi che vivono operando il bene, e verso i malvagi non
tema di affermare i diritti della verità e della giustizia. Infatti,
come ricordo di avere scritto nei libri morali (Moralia, lib.
21, cap. 10), è certo che gli uomini sono tutti uguali per natura
ma, variando l’ordine dei meriti, la colpa pospone gli uni agli
altri. Però, anche la diversità che procede dal peccato è regolata
dalla disposizione divina affinché, siccome non ogni uomo è in
grado di mantenersi in questa condizione di eguaglianza, ci siano
alcuni uomini governati da altri. Perciò tutti coloro che
presiedono, in se stessi non debbono considerare il potere del
proprio grado ma l’eguaglianza secondo natura; non godano dunque di
governare sugli uomini ma di giovare loro. I nostri antichi padri,
del resto, furono pastori di pecore, non re di uomini; e quando il
Signore disse a Noè e ai suoi figli: Crescete
e moltiplicatevi e riempite la terra, subito
aggiunse: E
terrore di voi e tremore sia su tutti gli animali della terra (Gen.
9, 1). Evidentemente, se viene prescritto che debba esserci questo
terrore e tremore sugli animali della terra, viene senz’altro
proibito che esso possa esercitarsi sugli uomini. L’uomo è stato
preposto per natura agli animali bruti, non agli altri uomini; e
perciò gli viene detto che gli animali e non gli uomini lo devono
temere; quindi voler essere temuto da un eguale corrisponde ad una
esaltazione contro natura. E tuttavia è necessario che le guide
delle anime incutano timore ai sudditi quando esse si accorgono che
quelli non hanno alcun timore di Dio, affinché coloro che non hanno
paura dei giudizi divini temano di peccare almeno per una paura
umana. Infatti, coloro che sono preposti ad altri non insuperbiscono
nella ricerca di questo timore, poiché con essa non cercano la
propria gloria ma la giustizia dei sudditi: nell’esigere timore per
sé da coloro che conducono una vita malvagia è come se governassero
animali e non uomini, perché è per quella parte di loro con cui si
comportano da bestie che i sudditi debbono giacere persino prostrati
dalla paura. Ma spesso chi guida delle anime, per il fatto stesso di
essere preposto ad altri si gonfia nell’esaltazione del suo
pensiero: tutto è a sua disposizione, i suoi ordini vengono
prontamente eseguiti secondo il suo desiderio, tutti i sudditi sono
pronti a lodarlo ampiamente se fa qualcosa di buono e sono privi di
autorità per contraddirlo per quello che fa di male, anzi, per lo
più sono disposti a lodarlo anche quando dovrebbero disapprovarlo;
allora il suo animo si innalza al di sopra di sé sedotto da
tutto ciò che gli viene elargito dal basso. Così, circondato
all’esterno da grandissimo favore, si svuota interiormente della
verità e dimentico della sua realtà profonda si disperde
compiacendosi dell’apprezzamento altrui e si crede tale quale è la
sua fama al di fuori, non quale dovrebbe riconoscersi nel proprio
intimo. Disprezza i sudditi, non li riconosce uguali a sé secondo
l’ordine naturale e si immagina di avere superato, anche per i
meriti della propria vita, coloro che gli stanno sottoposti a motivo
di un potere datogli in sorte. Si giudica più sapiente di tutti
coloro dei quali si vede più potente. Nella stima che ha di se
stesso si è come stabilito su una cima e sdegna di guardare agli
altri come a uguali, lui che pure è legato a loro dalla condizione
di una, uguale natura. E così diviene simile a colui di cui è
scritto: Vede
ogni sublime altezza ed egli stesso è re sopra tutti i figli della
superbia (Giob.
41, 25), a colui cioè che aspirando a un luogo più elevato e
disprezzando la comune vita degli angeli dice: Porrò la mia dimora
presso l’Aquilone e sarò simile all’Altissimo (cf. Is. 14,
13-14). Pertanto egli scoprì dentro di sé, per mirabile giudizio
divino, un abisso di abiezione poiché al di fuori si era innalzato
al culmine del potere. E così diviene simile all’angelo apostata
l’uomo che sdegna di essere simile agli altri uomini. Similmente
Saul, dopo avere ben meritato per la sua umiltà, si gonfiò di
superbia per l’altezza del suo potere; per l’umiltà fu scelto ma
fu riprovato per la superbia, secondo la testimonianza del Signore
che dice: Non
ti costituii forse capo tra le tribù di Israele quando eri piccolo
ai tuoi occhi? (1
Sam. 15, 17). Prima si era visto piccolo coi suoi occhi ma poi,
sostenuto dalla sua potenza mondana, non si vedeva più piccolo.
Infatti, preferendo se stesso a paragone degli altri poiché aveva un
potere superiore a tutti, si stimava più grande di tutti. Ma come —
mirabilmente — per essere piccolo davanti a se stesso fu grande
davanti a Dio, quando appari grande davanti a se stesso divenne
piccolo davanti a Dio. Dunque accade spesso che l’animo si gonfia
perché è grande il numero di coloro che gli sono soggetti e,
adulato dalla sola altezza della sua potenza, esso si corrompe
effondendosi nella superbia. Ma questa potenza, evidentemente, la
regge bene chi sa tenerla in pugno e insieme combatterla; la regge
bene chi sa, con essa, erigersi sopra le colpe, e con essa sa essere
uguale agli altri. Infatti la mente umana spesso si esalta anche
quando non si sostiene su alcun potere; quanto più si leverà in
alto se le si aggiunge anche il potere. Però il potere può essere
ben esercitato da chi sa trarre da esso ciò che giova e sa vincere
le tentazioni che esso ispira e, pur possedendolo, sa vedersi uguale
agli altri e insieme sa anteporsi ai peccatori per lo zelo della
punizione. E se consideriamo l’esempio del primo Pastore, possiamo
riconoscere più pienamente in che cosa consiste questa discrezione.
Infatti Pietro che pure teneva il primato nella Santa Chiesa, per
volontà di Dio, ricusò di accogliere i segni di una venerazione
fuor di misura da Cornelio, uomo buono che faceva il bene, il quale
gli si era umilmente prostrato; ma riconoscendosi invece simile a lui
gli disse: Alzati, non
farlo, sono
un uomo anch’io (Atti,
10, 26). Quando
però scopri la colpa di Anania e di Saffira (cf. Atti, 5, 5), mostrò
subito per quale potenza egli fosse divenuto preminente sugli altri.
Infatti con una sola parola colpi la loro vita che egli aveva
conosciuto col discernimento spirituale e si ricordò di essere la
somma autorità nella Chiesa contro i peccati; cosa che non volle
riconoscere di fronte a fratelli buoni e attivi nel bene, per un
onore che gli veniva tributato con trasporto. E in questo caso, la
santità delle opere meritò di essere accolta in una comunione tra
uguali; nell’altro, lo zelo della punizione provocò l’esercizio
del potere. Paolo non si considerava preposto ai fratelli attivi nel
bene quando diceva: Non
facciamo da padroni della vostra fede, ma
siamo cooperatori della vostra gioia (2
Cor. 1, 23). E aggiunge subito: infatti
voi state saldi nella fede (ibid.), come
per spiegare quello che aveva premesso dicendo: Perciò, non facciamo
da padroni sulla vostra fede, perché voi state saldi nella fede;
infatti noi siamo uguali a voi in ciò in cui riconosciamo che
restate fermi. Ed era come non considerarsi preposto ai fratelli
quando diceva: Siamo
divenuti un bambino piccolo in mezzo a voi (1
Tess. 2, 7); e ancora: E
noi vostri servi per Cristo (2
Cor. 4, 5). Ma
quando scopri la colpa che avrebbe dovuto essere corretta, subito si
ricordò di essere maestro, dicendo: Che
cosa volete? Devo venire da voi con la verga? (1
Cor. 4, 21). Colui
che presiede regge bene il sommo potere quando domina sui vizi
piuttosto che sui fratelli; ma quando i superiori correggono i
sudditi peccatori è necessario che in virtù del loro potere
attendano con sollecitudine a punire le colpe, per il dovere cui sono
tenuti di conservare la disciplina. Tuttavia, per conservare
l’umiltà, si riconoscano nello stesso tempo uguali a quegli stessi
fratelli che vengono corretti da loro, anzi sarebbe spesso cosa degna
che nella nostra tacita considerazione anteponessimo a noi stessi le
medesime persone che correggiamo. Infatti i loro vizi vengono puniti
per mezzo nostro col rigore della disciplina, mentre in ciò che noi
stessi commettiamo di male non siamo scalfiti neppure da una parola
di rimprovero da parte di alcuno. Siamo dunque tanto più obbligati
presso il Signore quanto più impunemente pecchiamo presso gli
uomini. D’altra parte, la nostra correzione fa tanto più liberi i
sudditi davanti al giudizio divino in quanto Egli non lascia impunite
qui le loro colpe. Così bisogna conservare l’umiltà nel cuore e
la disciplina nelle opere. Ma detto questo, bisogna anche guardare
saggiamente che le esigenze del governo non restino vanificate da una
custodia impropria dell’umiltà e se un superiore si abbassa più
del conveniente non possa più trattenere poi la vita dei sudditi
sotto il vincolo della disciplina. Dunque, le guide delle anime
restino ferme a quell’atteggiamento esteriore che assumono in vista
dell’utilità degli altri e conservino nell’intimo quella
disposizione che le fa temere grandemente quanto alla stima di sé.
Tuttavia i sudditi devono poter percepire, da certi segni di sobria
spontaneità, che esse sono umili e vedere così ciò che devono
temere dalla loro autorità e conoscere ciò che devono imitare della
loro umiltà. Pertanto, i superiori, quanto maggiore appare
all’esterno la loro potenza tanto più non cessino di provvedere a
deprimerla interiormente ai propri occhi, evitando che il pensiero ne
sia tutto preso, l’animo sia rapito dal compiacimento di sé e non
sia più in grado di tenere sottomessa quella potenza, alla quale si
sottomette per libidine di dominio. Infatti, affinché l’animo del
superiore non venga rapito dal compiacimento del suo potere fino
all’esaltazione, un sapiente ha giustamente detto: Ti
hanno stabilito guida, non
ti esaltare ma sii tra di loro come uno di loro (Sir.
32, 1). Perciò anche Pietro dice: Non
come padroni delle persone a voi toccate in sorte, ma
fatti a forma del gregge (1
Pt. 5, 3). Perciò la Verità stessa invitandoci ai più alti
meriti della virtù dice: Sapete
che i capi delle nazioni le dominano e i grandi esercitano il potere
su di loro. Non
così sarà tra voi, ma
chiunque vorrà essere maggiore fra voi sarà vostro servo, e
chi vorrà essere primo tra voi sarà vostro schiavo, come
il Figlio dell’uomo non è venuto a essere servito ma a
servire (Mt.
20, 25). Di
qui il senso delle parole che si riferiscono a quel servo esaltato
per il potere ricevuto, ma poi lo attenderanno i supplizi: Che
se quel servo malvagio dirà in cuor suo: Il
mio padrone tarda a venire; e
incomincerà a battere i suoi conservi e mangerà e berrà con gli
ubriachi; verrà
il padrone di quel servo nel giorno in cui non l’aspetta e in
un’ora che non sa, e
lo separerà e la sua parte sarà con gli ipocriti (Mt.
24, 48 ss.). Ed è giustamente considerato ipocrita colui che col
pretesto della disciplina muta il ministero del governo in esercizio
di dominio. E tuttavia spesso si pecca gravemente se nei confronti
dei malvagi si custodisce più l’eguaglianza che la disciplina.
Infatti, Eli che, vinto da una falsa pietà, non volle punire i figli
peccatori, colpi se stesso insieme ai figli con una crudele condanna
presso il severo Giudice (cf. 1 Sam. 4, 17-18); e perciò egli si
sente dire dalla parola divina: Hai
onorato i tuoi figli pia di me (1
Sam. 2, 29). E Dio
rimprovera i Pastori per mezzo dei profeti dicendo: Non
avete fasciato ciò che si era fratturato, non
avete ricondotto ciò che era rigettato (Ez.
34, 4). Si
riconduce chi è rigettato quando col vigore della sollecitudine
pastorale si richiama alla condizione di giustizia chiunque è caduto
nella colpa. E la fasciatura stringe la frattura quando la disciplina
reprime la colpa, affinché la piaga non degeneri fino alla morte se
non la stringe la severità del castigo. Ma spesso la frattura si fa
più grave se viene fasciata senza precauzione e la ferita duole
maggiormente se le bende la stringono in modo eccessivo. Perciò è
necessario che, quando per porvi rimedio si comprime nei sudditi la
ferita del peccato, si abbia grande sollecitudine di moderare la
stessa correzione perché, mentre si esercita verso i peccatori il
dovere della disciplina, non si venga meno ai sentimenti di pietà.
Bisogna cioè avere cura che la pietà faccia apparire ai sudditi
madre colui che li guida, e la disciplina glielo mostri padre. E
pertanto bisogna provvedere con pronta e avvertita prudenza che la
correzione non sia troppo rigida o la misericordia troppo permissiva.
Infatti, come abbiamo già detto nei Libri
Morali (Moralia, lib.
20, cap. 8), sia la disciplina che la misericordia vengono meno
se si esercita l’una senza l’altra; invece, nelle guide delle
anime, devono trovarsi verso i sudditi una misericordia che provvede
secondo giustizia insieme a una disciplina rigida secondo pietà. Ed
è perciò che nell’insegnamento della Verità quell’uomo
semivivo viene condotto all’albergo dalla sollecitudine del
Samaritano (cf. Lc. 10, 34) e gli vengono somministrati vino e olio
nelle sue ferite, chiaramente perché, per esse, egli sperimenti la
pungente disinfezione del vino e il conforto dell’olio che lenisce.
È assolutamente necessario che chi ha l’ufficio di curare le
ferite somministri attraverso il vino il morso pungente del dolore e
attraverso l’olio la tenerezza della pietà, giacché col vino si
purifica il putridume e con l’olio si nutre e si ristora per la
guarigione. Così, bisogna mescolare la dolcezza con la severità;
bisogna fare come un giusto contemperamento dell’una e dell’altra
affinché i sudditi non restino esasperati da troppa asprezza e
neppure infiacchiti da una eccessiva benevolenza. Ciò è ben
rappresentato dall’arca del Tabernacolo — secondo la parola di
Paolo — nella quale si trovano insieme alle tavole la verga e la
manna (cf. Ebr. 9, 4); cioè, se nell’anima della buona guida
spirituale, insieme alla scienza della Sacra Scrittura c’è la
verga della correzione, ci sia anche la manna della dolcezza. Perciò
dice David: La
tua verga e il tuo bastone mi hanno consolato (Sal.
22, 4), perché
la verga ci colpisce e il bastone ci sostiene e se c’è la
correzione della verga che ferisce ci sia anche la consolazione del
bastone che sostiene. E così ci sia l’amore, non tale però che
renda molli; ci sia il rigore non tale però che esasperi; ci sia lo
zelo che tuttavia non infierisce oltre misura; ci sia la pietà che
risparmia ma non più di quanto conviene; affinché nell’esercizio
del governo, conciliando giustizia e clemenza, il superiore muova il
cuore dei sudditi col timore ma usi con loro dolcezza, e con questa
dolcezza li costringa al rispetto che il timore ispira.
7
— La guida delle anime non attenui la cura della vita
interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di
provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene
interiore
La
guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle
occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità
esteriori per la sollecitudine del bene interiore, affinché, dedito
alle attività esterne non venga meno alla vita spirituale oppure
occupato solo in essa manchi di rendere quel che deve al prossimo
nell’attività esterna. Accade spesso infatti che alcuni,
dimentichi di essere stati preposti ai fratelli per le loro anime, si
dedicano con ogni sforzo del cuore al servizio degli interessi
secolari, e l’essere presenti a questi li fa esultare di gioia, e
anche quando sono assenti anelano ad essi, giorno e notte,
nell’agitazione di un pensiero inquieto. Quando poi, forse per una
interruzione occasionale, sono quieti da essi, questa stessa quiete
li affatica ancor peggio; infatti giudicano un piacere essere
oppressi dall’attività e considerano una fatica non faticare in
occupazioni terrestri. Così accade che, mentre godono di essere
incalzati da inquietudini mondane, ignorano i beni interiori che
avrebbero dovuto insegnare agli altri. Per cui sicuramente anche la
vita dei sudditi intorpidisce poiché, mentre essi aspirano al
progresso spirituale, inciampano contro l’esempio del superiore
come contro un ostacolo che si trova lungo il cammino. Infatti quando
la testa è malata anche le membra perdono vigore, e nella ricerca
del nemico non serve che l’esercito segua con prestezza se la
stessa guida del cammino perde la strada. Nessuna esortazione innalza
gli animi dei sudditi e nessun rimprovero è castigo efficace contro
le loro colpe, poiché sebbene colui che è preposto alle anime
eserciti l’ufficio di giudice terreno, la cura del Pastore non è
rivolta alla custodia del gregge e i sudditi non possono cogliere la
luce della verità perché, quando interessi terreni occupano i sensi
del Pastore, la polvere spinta dal vento della tentazione acceca gli
occhi della Chiesa. Perciò il Redentore del genere umano, volendoci
trattenere dalla ingordigia del ventre, dopo aver detto: Fate
attenzione che i vostri cuori non siano gravati dalla gozzoviglia e
dall’ubriachezza, subito
aggiunse: o
nelle preoccupazioni di questa vita; e
poi ancora introduce il timore proseguendo con forza: che
non vi sopravvenga improvviso quel giorno (Lc.
21, 34). E
di quale venuta si tratti lo manifesta dicendo: Verrà
infatti come un laccio su tutti coloro che siedono sulla faccia di
tutta la terra (Lc.
21, 35). Quindi ancora dice: Nessuno
può servire a due padroni (Lc.
16, 13). Perciò Paolo interdice le anime religiose dal commercio col
mondo dichiarando o piuttosto consigliando pressantemente: Nessuno
che militi per Dio si immischi in affari secolari per potere piacere
a colui che l’ha arruolato (2
Tim. 2, 4). Perciò prescrive alle guide della Chiesa di essere
liberi da altri interessi e mostra loro come provvedere quando si
tratti di cercare consigli, dicendo: Pertanto, se
avrete delle liti riguardo a interessi secolari stabilite come
giudici persone da niente nella Chiesa (1
Cor. 6, 4), perché
all’amministrazione dei beni terreni servano quelli che sono non
dotati di alcun dono spirituale. Come se dicesse apertamente: poiché
non sanno penetrare le realtà interiori, operino almeno per le
necessità esterne. Perciò Mosé, che parla con Dio (cf. Es. 18,
17-18), viene giudicato dal rimprovero di Ietro, uno straniero,
perché serve con una fatica inutile alle faccende terrene del
popolo, e riceve subito il consiglio di stabilire altri al posto suo
a dirimere le liti, per potere lui stesso più liberamente conoscere
i misteri spirituali e insegnarli al popolo. Pertanto tocca ai
sudditi svolgere le attività di grado inferiore, e alle guide delle
anime meditare le verità somme affinché il darsi cura della polvere
non oscuri l’occhio preposto a fare da guida nel cammino Infatti,
tutti coloro che presiedono sono capo dei sudditi e senza alcun
dubbio è il capo che deve provvedere dall’alto a che i piedi siano
in grado di percorrere la via diritta e non si intorpidiscano nel
procedere del viaggio, quando il corpo si incurva e il capo si piega
verso terra. Ma con quale disposizione interiore colui che è
preposto alle anime esercita sugli altri la dignità pastorale se lui
stesso è preso dalle attività terrene che dovrebbe rimproverare
negli altri? È chiaramente questo che il Signore, dall’ira della
giusta retribuzione, minaccia per mezzo del profeta dicendo: E
come il popolo così sarà il sacerdote (Os.
4, 9). E il sacerdote è come il popolo quando colui che esplica
un ufficio spirituale compie esattamente le stesse cose di coloro che
vengono ancora designati dai loro interessi carnali. Vedendo questo,
il profeta Geremia piange, con grande dolore ispirato dalla sua
carità, e lo raffigura nella distruzione del tempio dicendo: Come
si è annerito l’oro e si è mutata la sua splendida lucentezza, le
pietre del santuario sono state disperse in capo a tutte le
piazze (Lam.
4, 1). Che cosa si intende infatti con oro, che
è il metallo più prezioso di tutti, se non l’eccellenza della
santità? Che cosa si esprime con splendida
lucentezza se
non la riverenza che ispira la dignità religiosa amabile a tutti?
Che cosa significano le pietre
del santuario, se
non le persone insignite di ordini sacri? Che cosa si raffigura col
nome di piazze, se
non la larghezza della vita presente? Infatti nella lingua greca la
larghezza è detta platos ed
è certo per la larghezza che le piazze sono chiamate così. Ma la
Verità in persona dice: Larga
e spaziosa è la via che porta alla perdizione (Mt.
7, 13). L’oro
pertanto annerisce quando una vita che deve essere santa si contamina
con attività terrestri. La splendida lucentezza si muta quando
diminuisce la stima che si era fatta di certuni i quali si credeva
vivessero religiosamente. Infatti quando qualcuno, chiunque sia,
lascia il costume di una vita santa per immischiarsi in attività
terrestri, la riverenza che egli ispirava, divenuta oggetto di
disgusto, impallidisce agli occhi degli uomini come la vivezza di un
colore alterato. E anche le pietre del santuario vengono sparse nelle
piazze quando coloro, che per il decoro della Chiesa avrebbero dovuto
attendere solo ai misteri dello spirito, come nel segreto del
Tabernacolo, vagano invece fuori, sulle larghe vie degli affari
mondani. In effetti, le pietre del santuario erano fatte per
comparire nell’interno del Santo dei Santi sulla veste del sommo
sacerdote; ma quando i ministri della religione non sanno esigere,
coi meriti della loro condotta di vita, l’onore dovuto dai sudditi
al loro Redentore, allora le pietre del santuario non sono ornamento
del pontefice. Esse giacciono sparse sulle piazze perché coloro che
portano gli ordini sacri, dediti alla larghezza dei loro piaceri,
sono tutti presi dagli affari terreni. E occorre notare che non dice
che sono sparsi nelle piazze,
ma in capo alle
piazze, poiché mentre si occupano delle cose del mondo aspirano ad
apparire in alto, per mantenersi sulle larghe vie, per l’allettamento
del piacere, e insieme in capo alle piazze, per l’onore che viene
attribuito alla santità. Del resto possiamo anche intendere senza
difficoltà che le pietre del santuario siano invece quelle medesime
con cui il santuario era stato costruito; in questo caso quelle
pietre giacciono in capo alle piazze quando gli uomini insigniti
degli ordini sacri si pongono con desiderio al servizio di affari
mondani mentre prima sembrava che la loro gloria consistesse nel
servizio delle cose sante. Così, gli affari mondani si devono
assumere talvolta per esigenze di carità, ma non si devono mai
ricercare con passione, per evitare che esse, gravando l’animo di
chi le predilige, lo trascinino avvinto al proprio peso, dalle
regioni celesti giù nel profondo. Ma si dà anche il caso che alcuni
assumano effettivamente la cura del gregge, ma aspirano tanto per sé
di essere liberi di dedicarsi alle cose spirituali che non si
occupano per nulla affatto di cose esterne. Allora, poiché essi
trascurano totalmente le cure materiali, non soccorrono in nulla le
necessità dei sudditi e per lo più la loro predicazione viene
sdegnata e non vengono ascoltati volentieri poiché rimproverano
l’agire dei peccatori, ma poi non amministrano loro quanto è
necessario alla vita presente. Infatti la parola della dottrina non
penetra nella mente del bisognoso se una mano misericordiosa non la
raccomanda al suo cuore. E invece, il seme della parola germina
facilmente quando la pietà di chi predica lo irriga nel petto di
colui che ascolta. Perciò è necessario che la guida delle anime
possa infondere le verità spirituali e anche provvedere alle
necessità esteriori con una attenzione del pensiero che però non
gli danneggi. Così, i Pastori siano ferventi degli interessi
spirituali dei loro sudditi, purché in questo non tralascino di
provvedere pure alla loro vita esteriore. Infatti, come abbiamo
detto, è comprensibile che l’animo del gregge non creda alla
predicazione che dovrebbe accogliere, se il Pastore tralascia la cura
dell’aiuto esterno. Perciò il primo Pastore ammonisce con
sollecitudine dicendo: Scongiuro
gli anziani che sono tra voi, io
anziano come loro e testimone dei patimenti di Cristo e fatto
partecipe della sua gloria che deve essere rivelata in
futuro, pascete
il gregge di Dio che è tra voi. Ed
egli stesso spiega a questo punto quale pascolo intenda, se del cuore
o del corpo, poiché aggiunge subito: Governandolo
non per costrizione ma spontaneamente, secondo
Dio, non
per turpe guadagno ma volontariamente (1
Pt. 5, 1). E certo, con queste parole, previene piamente i
Pastori perché, mentre soddisfano l’indigenza dei sudditi, non
uccidano se stessi con la spada dell’ambizione, e se per loro mezzo
il prossimo riceve il sollievo di aiuti materiali, loro stessi poi
non rimangano digiuni del pane della giustizia. Paolo eccita questa
sollecitudine dei Pastori dicendo: Chi
non ha cura dei suoi, soprattutto
dei familiari, ha
rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele (1
Tim. 5, 8). E
così, tra queste cose, bisogna però sempre temere e prestare vigile
attenzione che mentre si trattano affari esterni non se ne venga
sommersi, privati dell’intimo fervore; poiché spesso, come abbiamo
già detto, le guide delle anime piegano improvvisamente il loro
cuore a servire le cure temporali, e così si raffredda l’amore nel
loro intimo, ed espandendosi al di fuori non temono di vivere
nell’oblio, col pretesto di doversi occupare delle anime. Pertanto,
la cura che pure si deve avere nei confronti dei bisogni materiali
dei sudditi deve essere necessariamente contenuta entro certi limiti.
Perciò si dice bene in Ezechiele: I
sacerdoti non si radano il capo, né
si tacciano crescere i capelli, ma
li accorcino tagliandoli (Ez.
44, 20). Infatti sono giustamente chiamati sacerdoti coloro che
presiedono ai fedeli per offrire loro una guida sacra. I capelli del
capo sono i pensieri della mente volti a cure esteriori e finché
nascono insensibilmente sul capo designano le cure della vita
presente, le quali crescono, senza quasi che ce ne accorgiamo, da una
sensibilità trascurata poiché nascono talvolta in modo inopportuno.
Dunque, poiché tutti quelli che presiedono devono avere di fatto
delle sollecitudini esteriori, senza d’altra parte dedicarsi ad
esse con eccessiva passione, giustamente si proibisce ai sacerdoti di
radersi il capo e di farsi crescere i capelli, affinché non taglino
radicalmente da sé i pensieri che riguardano la vita materiale dei
sudditi, né d’altra parte diano loro troppo spazio in modo da
farli crescere. Perciò è ben detto: Accorcino
i capelli tagliandoli, evidentemente
nel senso che se pure, per quel che è inevitabile, possono nascere
preoccupazioni di cure materiali, tuttavia esse devono essere
tagliate ben presto perché non crescano smodatamente. Pertanto,
quando la vita materiale viene protetta attraverso la pratica di una
previdenza esteriore — e in più non è ostacolata dalla tensione
spirituale, quando questa è illuminata — è allora che i capelli
sul capo del sacerdote vengono conservati perché coprano la pelle,
ma vengono tagliati perché non chiudano gli occhi.
8
— La
guida delle anime, col
suo zelo, non
abbia di mira il favore degli uomini; e
tuttavia sia attento a ciò che ad essi deve piacere.
Oltre
a ciò, è pure necessario che la guida delle anime esplichi una
vigile cura perché non la spinga la bramosia di piacere agli uomini,
e quando si dedica assiduamente ad approfondire le realtà interiori
o distribuisce provvidamente i beni esteriori, non cerchi di più
l’amore dei sudditi che la verità; e quando sostenuto dalle sue
buone azioni sembra, estraneo al mondo, il suo amore di sé non lo
renda estraneo al Creatore. Infatti è nemico del Redentore colui
che, attraverso le opere giuste che compie, brama di essere amato
dalla Chiesa in luogo di Lui; ed è così reo di pensiero adultero,
come il servo per mezzo del quale lo sposo manda doni alla sposa ed
egli brama di piacere agli occhi di lei. Poiché quando l’amor
proprio si impadronisce della guida delle anime, talvolta la trascina
a una mollezza disordinata, talvolta al contrario ad un aspro rigore.
Il suo spirito è portato alla mollezza dall’amor proprio quando,
pur vedendo i sudditi peccare, non trova opportuno castigarli per non
indebolire il loro amore verso di lui, e non di rado accarezza con le
adulazioni quegli errori dei sudditi che avrebbe dovuto rimproverare.
Perciò è detto bene, per mezzo del profeta: Guai
a coloro che cuciono cuscinetti per ogni gomito e fanno guanciali per
teste di ogni età, per
rapire anime (Ez.
13, 18). Porre cuscinetti sotto ogni gomito è confortare con
blanda adulazione le anime che vengono meno alla propria rettitudine
e si ripiegano nei piaceri di questo mondo. Ed è come accogliere su
un cuscino o su un guanciale il gomito o il capo di uno che giace,
quando si sottrae il peccatore alla durezza della punizione e gli si
offrono le mollezze del favore, così che chi non è colpito da
alcuna aspra contraddizione giaccia mollemente nell’errore. E le
guide delle anime che amano sé stesse, senza alcun dubbio offrono di
queste cose a coloro che temono gli possano nuocere nella loro
ricerca della gloria mondana. Infatti esse opprimono con l’asprezza
di un rimprovero sempre duro e violento quelli che vedono non avere
alcuna forza contro di loro, e non li ammoniscono mai benignamente
ma, dimentiche della mitezza del Pastore li terrorizzano in forza del
loro potere. La parola di Dio li rimprovera giustamente dicendo per
mezzo del profeta: Voi
comandavate su di loro con austerità e con prepotenza (Ez.
34, 4). Infatti, amando più se stessi che il loro Creatore, si
ergono contro i sudditi con tracotanza e non guardano a quello che
hanno dovere di fare ma a ciò per cui hanno la forza; senza alcun
timore del giudizio che seguirà, si gloriano sfrontatamente del loro
potere temporale purché possano compiere con ogni licenza anche cose
illecite e nessuno dei sudditi li contraddica. Pertanto, colui che
desidera vivere perversamente, e che gli altri tuttavia ne tacciano,
testimonia contro se stesso di desiderare che si ami lui più della
verità, che non vuole venga difesa contro di lui. E non esiste
certamente nessuno che viva in questo modo e, almeno entro un certo
ambito, non pecchi. Vuole invece che si ami la verità più di lui,
chi non vuol essere risparmiato da nessuno ai danni della verità.
Perciò infatti Pietro riceve volentieri il rimprovero di Paolo (cf.
Gal. 2, 11 ss.); perciò David ascoltò umilmente la correzione di un
suddito (cf. 2 Sam. 11, 7 ss.); poiché le buone guide di anime non
sanno amare se stessi di un amore particolare e considerano un umile
ossequio, da parte dei sudditi, una parola ispirata da una libera
purezza d’animo. Ma è soprattutto necessario che la cura del
governo delle anime sia temperata da tanta sapiente moderazione che i
sudditi possano esprimere con libera parola quanto hanno rettamente
avvertito, anche se poi questa libertà non deve essere tale da
erompere in superbia; perché non accada che se si concede ai sudditi
una eccessiva libertà di parola, essi abbiano poi a perdere l’umiltà
della vita. Bisogna pure sapere che è opportuno che le buone guide
delle anime desiderino di piacere agli uomini, ma solo per attirare
il prossimo all’amore della verità attraverso la dolcezza della
stima che esse ispirano; non per desiderare di essere amate, ma per
fare dell’amore di cui sono oggetto come una via attraverso la
quale introdurre all’amore del Creatore i cuori di coloro che
ascoltano. Poiché è difficile che, per quanto dica la verità, sia
ascoltato volentieri, un predicatore che non è amato. Dunque, chi
presiede deve applicarsi a farsi amare per potere essere ascoltato; e
tuttavia non deve cercare amore per se stesso, per non essere trovato
come chi, nell’occulta tirannide del suo pensiero, si oppone a
colui che per via del suo ufficio sembra servire. Ciò suggerisce
bene Paolo quando ci manifesta gli aspetti nascosti della sua
dedizione, dicendo: Come
anch’io piaccio a tutti in ogni cosa (1
Cor. 10, 33). E
tuttavia dice di nuovo altrove: Se
piacessi ancora agli uomini non sarei servo di Cristo (Gal.
1, 10). Dunque, Paolo piace e non piace perché, nel suo
desiderio di piacere, non cerca di piacere lui, ma che agli uomini
piaccia la verità attraverso di lui.
9
— La guida delle anime deve essere attenta nella
consapevolezza che non di rado i vizi si travestono da virtù
La
guida delle anime deve anche sapere che non di rado i vizi si
travestono da virtù Infatti spesso l’avarizia si nasconde sotto il
nome di parsimonia e, al contrario, la prodigalità sotto
l’appellativo di generosità. Spesso una accondiscendenza senza
discrezione è considerata pietà, e un’ira sfrenata zelo virtuoso;
spesso un’azione precipitosa passa per rapidità efficiente e la
lentezza dell’agire per prudenza deliberata. Perciò è necessario
che la guida delle anime discerna con vigile cura virtù da vizi,
perché l’avarizia non si impadronisca del suo cuore ed egli si
compiaccia di apparire parco nella sua amministrazione; oppure si
vanti, magari con l’aria di commiserare la propria liberalità,
quando c’è stato qualche sperpero per la sua prodigalità; o
trascini all’eterno supplizio i sudditi rimettendo il peccato che
avrebbe dovuto colpire; o colpendo con crudeltà il peccato, pecchi
egli stesso più gravemente; o, tratti con leggerezza, con una fretta
troppo anticipata, ciò che si sarebbe potuto trattare correttamente
e con ponderazione o, differendo il compimento di una buona azione,
ne converta in peggio il risultato.
10 —
Quale debba essere la discrezione della guida delle anime nel
correggere e nel dissimulare; nello zelo e nella
mansuetudine
Bisogna
pure sapere che occorre talvolta dissimulare con prudenza i vizi dei
sudditi ma che pur dissimulandoli bisogna mostrare di conoscerli.
Talvolta, colpe manifeste bisognerà tollerarle per un certo
tempo, talvolta invece, quando sono nascoste, esaminarle
diligentemente; talvolta riprenderle con dolcezza; talvolta al
contrario rimproverarle con forza. Alcune in effetti, come abbiamo
detto, bisogna dissimularle con prudenza e tuttavia mostrare di
conoscerle, affinché il peccatore sapendo di essere noto come tale,
e di essere tuttavia sopportato, arrossisca di aumentare quelle colpe
che vede tollerate in silenzio nei suoi confronti, e fattosi giudice
di se stesso si punisca, lui che la clemente pazienza della sua
guida, per parte sua, scusa. È chiaro che con questa dissimulazione
il Signore corregge la Giudea, quando dice per mezzo del profeta: Hai
mentito e non ti sei ricordata di me né hai meditato in cuor
tuo; perché
io tacevo quasi come uno che non vede (Is.
57, 11). Dunque dissimulò le colpe e lo fece notare, in quanto
tacque contro il peccatore ma non tacque il fatto stesso di avere
taciuto. Alcune colpe manifeste, invece, bisogna tollerarle per un
certo tempo; finché cioè l’opportunità della situazione non sia
tale da consigliare un’aperta correzione. Infatti le ferite operate
troppo presto si infiammano maggiormente, e se i medicamenti non
vengono graduati in modo conveniente nel tempo, è chiaro che non
rendono al medico la loro utilità. Ma quando il superiore deve
cercare tempo per infliggere la correzione ai sudditi, è proprio
sotto il peso di quelle colpe che si esercita la sua pazienza. Perciò
dice bene il salmista: Sul
mio dorso hanno fabbricato i peccatori (Sal.
128, 3). Poiché è sul dorso che portiamo i pesi, egli si
lamenta che sul suo dorso i peccatori hanno fabbricato, come se
dicesse apertamente: Porto addosso come un peso coloro che non posso
correggere. Alcune colpe invece, che sono nascoste, vanno esaminate
diligentemente perché, se se ne manifestano alcuni segni, la guida
delle anime possa scoprire tutto ciò che si nasconde, chiuso,
nell’animo dei sudditi e, presentandosi il momento della
correzione, possa conoscere dai più piccoli segni di vizio le colpe
maggiori. Perciò giustamente viene detto ad Ezechiele: Figlio
dell’uomo, fora
la parete. E
subito il profeta prosegue: E
quando ebbi forato la parete mi apparve una porta. E
mi disse: Entra
e vedi le orribili abominazioni che costoro commettono qui. Ed
entrato vidi; ed
ecco ogni tipo di rettili e di animali abominevoli e tutti gli idoli
della casa di Israele erano dipinti sulla parete (Ez.
8, 8-10). È chiaro che Ezechiele rappresenta le persone dei
superiori, e la parete la durezza dei sudditi. E che cosa significa
forare la parete se non aprire la durezza del cuore con penetranti
indagini? Quando ebbe forato la parete apparve una porta, perché
quando la durezza del cuore si spacca cedendo alle attente indagini o
alle sapienti correzioni, è come se si mostrasse una porta dalla
quale si vedono tutte le profondità dei pensieri in colui che viene
ammonito. Per cui è ben detto ciò che segue quel punto: Entra
e vedi le orribili abominazioni che costoro commettono. Ed
è uno che entra per vedere delle abominazioni, colui che, andando
oltre certi segni che appaiono all’esterno, penetra i cuori dei
sudditi in modo che gli risultino chiari tutti i loro pensieri
illeciti. E quindi prosegue: Ed
entrato vidi; ed
ecco ogni tipo di rettili e animali abominevoli. Nei
rettili sono indicati i pensieri del tutto terreni, negli animali i
pensieri già un poco sollevati da terra ma ancora alla ricerca di un
compenso terreno.
Infatti
i rettili aderiscono alla terra con tutto il corpo, mentre gli
animali con gran parte del corpo sono sospesi da terra e tuttavia
continuano a essere inclinati verso di essa per l’appetito della
gola. Così i rettili sono oltre la parete, quando nella mente si
rivolgono pensieri che non si innalzano mai dai desideri terreni. E
ci sono pure animali oltre la parete, quando pensieri e meditazioni,
sia pure giusti e onesti, sono tuttavia ancora asserviti a mire di
guadagni e onori temporali: per sé, in effetti, sono già quasi
elevati da terra ma si sottomettono ancora alle realtà più basse
per la loro ambizione che è paragonabile a un desiderio di gola.
Perciò ancora prosegue giustamente: E
tutti gli idoli della casa di Israele erano dipinti sulla parete. In
effetti è scritto: E
l’avarizia, che
è schiavitù agli idoli (Col.
3, 5). Dunque è giusto che dopo gli animali si descrivano gli
idoli, poiché sebbene alcuni si drizzino già da terra per l’agire
onesto, tuttavia per la loro disonesta ambizione si riadagiano per
terra. Ed è ben detto: Erano
dipinti, perché,
quando gli aspetti delle cose esterne vengono assorbiti
interiormente, viene come dipinto nel cuore quello che si pensa e si
delibera sulla base di quelle false immagini. Pertanto, occorre
sottolineare che prima c’è il foro nella parete, quindi si vede la
porta e infine viene manifestata la occulta abominazione. Ciò
evidentemente perché in ciascuno si danno prima i segni esterni del
peccato, quindi si mostra la porta dell’iniquità manifesta e
infine si spalanca ogni male che si nasconde nell’intimo. Alcuni
peccati però vanno ripresi con dolcezza; infatti, quando non si
pecca per malizia ma solo per ignoranza o per debolezza, è
assolutamente necessario che la stessa correzione del peccato sia
temperata da grande moderazione: tutti, finché siamo in questa carne
mortale, soggiacciamo alla debolezza della nostra natura corrotta,
così ciascuno deve apprendere da se stesso come si debba essere
misericordiosi nei confronti della debolezza altrui affinché, se si
lascia trasportare a pronunciare parole di rimprovero troppo accese
contro la debolezza del prossimo, non gli accada di apparire uno che
si è dimenticato di sé. Perciò Paolo ammonisce giustamente: Se
qualcuno sarà colto in qualche peccato, voi
che siete spirituali istruite questo tale in spirito di
mansuetudine, considerando
te stesso perché anche tu non sia tentato (Gal.
6, 1); come se dicesse apertamente: Quando vedi qualcosa di
spiacevole dovuto alla debolezza altrui, pensa a ciò che sei; perché
nello zelo del rimprovero lo spirito si moderi, se teme anche per se
stesso ciò che rimprovera ad altri. Altri peccati invece si devono
rimproverare con forza, affinché chi ha commesso la colpa e non ne
conosce l’entità la apprenda dalla bocca di colui che lo
rimprovera. E se qualcuno è portato a considerare con leggerezza il
male commesso, lo tema molto, al contrario, per la severità di chi
glielo rimprovera aspramente. Ed è certamente dovere della guida
delle anime mostrare con la predicazione la gloria della patria
celeste, manifestare quanto son grandi le tentazioni dell’antico
nemico, che si nascondono nel cammino di questa vita, e correggere
con zelo grande e severo i peccati dei sudditi che non devono essere
tollerati con leggerezza, perché non sia considerato lui stesso reo
di tutte le colpe se il suo sdegno non si accende contro quelle.
Perciò è ben detto in Ezechiele: Prenditi
un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso la città
di Gerusalemme. E
subito prosegue: E
disporrai l’assedio contro di essa, edificherai
le opere di difesa, costruirai
un terrapieno, e
porrai contro di essa gli accampamenti e metterai intorno gli
arieti. E
subito per sua protezione gli viene suggerito: E
tu prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro fra
te e la città (Ez.
4, 1-3). E di chi è figura il profeta Ezechiele se non dei
maestri? Giacché gli vien detto: Prenditi
un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso la città
di Gerusalemme. E
in realtà i santi dottori si prendono un mattone quanto attirano a
sé il cuore di terra degli ascoltatori per istruirli. E pongono
davanti a sé quel mattone evidentemente nel senso di custodirlo con
tutta la tensione dello spirito. E ricevono l’ordine di disegnare
su di esso la città di Gerusalemme, perché predicando a cuori di
terra pongono ogni loro cura a dimostrare quale sia la visione della
pace celeste. Ma poiché invano si cerca di conoscere la gloria della
patria celeste se non si conosce la grandezza delle tentazioni
dell’astuto nemico che vi fanno irruzione, si prosegue
opportunamente: Disporrai
l’assedio contro di essa e edificherai le opere di difesa. E
i santi predicatori indubbiamente dispongono un assedio intorno al
mattone su cui è disegnata la città di Gerusalemme, quando
dimostrano a un cuore terreno ma già in ricerca della patria celeste
quanto essa sia soggetta nel tempo di questa vita agli assalti ostili
dei vizi. Infatti quando si mostra in qual modo ciascun peccato
insidia coloro che avanzano [nel cammino spirituale] è come se dalla
voce del predicatore si disponesse un assedio intorno alla città di
Gerusalemme. Ma poiché non solo devono risultare chiari gli assalti
dei vizi ma anche come ci fortifichi la custodia delle virtù,
giustamente si prosegue: Edificherai
le opere di difesa. Queste
difese, il predicatore santo le edifica quando dimostra quali virtù
si oppongono a quei vizi. E poiché quando aumenta la virtù per lo
più crescono le guerre della tentazione, si aggiunge giustamente
ancora: E
costruirai un terrapieno e porrai contro di essa gli accampamenti e
metterai intorno gli arieti. Infatti
costruisce un terrapieno, il predicatore, quando annuncia l’entità
della tentazione crescente. Ed erige accampamenti contro Gerusalemme,
quando predice le caute e quasi inavvertibili insidie dell’astuto
nemico, alla onesta intenzione degli ascoltatori. E pone arieti
intorno, quando fa conoscere gli aculei delle tentazioni, che ci
circondano da ogni parte in questa vita e sono capaci di perforare il
muro delle virtù. Ma quantunque la guida delle anime riesca a
suggerire sottilmente tutte queste consapevolezze, se egli non arde
di uno spirito di gelosia contro i peccati dei singoli, non si
procura assoluzione in eterno; perciò, in quel luogo, ancora
giustamente si prosegue: E
tu prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro tra
te e la città. Con teglia si
intende l’ardore dello spirito, e con ferro la
forza del rimprovero. Che cosa infatti fa ardere e tormenta il
maestro con più acutezza che lo zelo di Dio? E Paolo, che bruciava
per l’ardore di questa teglia diceva: Chi
è infermo e io non sono infermo? Chi è scandalizzato e io non
brucio? (2
Cor. 11,29) E poiché chiunque è acceso dallo zelo di Dio è
custodito in eterno da una forte custodia, per non dovere essere
condannato per la negligenza, è detto giustamente: La
porrai come muro di ferro fra te e la città. Infatti,
la teglia di ferro è posta come muro di ferro fra il profeta e la
città, nel senso che, quando le guide delle anime manifestano un
forte zelo, questo stesso zelo essi lo conservano come forte difesa
fra sé e gli ascoltatori, affinché se saranno troppo indulgenti
nella correzione non siano poi abbandonati alla vendetta [divina].
Soprattutto però bisogna sapere, che se l’animo del maestro si
esaspera nel rimprovero, è molto difficile che egli una volta o
l’altra non prorompa a dire qualcosa che non deve dire. E per lo
più accade che, quando si corregge la colpa di sudditi con grande
impeto, la lingua del maestro è trascinata ad eccedere nelle parole;
e, quando il rimprovero è acceso oltre misura, il cuore dei
peccatori si deprime fino alla disperazione. Perciò è necessario
che quando il superiore si rende conto di avere colpito l’animo dei
sudditi con eccessiva durezza, nella sua esasperazione, ricorra alla
penitenza dentro di sé per ottenere perdono, col suo pianto, di
fronte alla Verità, anche per ciò in cui pecca per eccessivo zelo.
A ciò corrisponde, in figura, il precetto del Signore che per mezzo
di Mosé dice: Se
uno andrà con un suo amico nel bosco, semplicemente
a tagliar legna, e
gli sfuggirà di mano il manico della scure, e
il ferro caduto dal manico colpirà l’amico e l’ucciderà; egli
fuggirà in una delle città sopraddette e vivrà; perché
non accada che il parente prossimo di colui di cui è stato sparso il
sangue, spinto
dal dolore, lo
insegua, lo
prenda e colpisca la sua vita (Deut.
19, 5-6). Dunque,
noi andiamo nel bosco con l’amico ogni volta che ci disponiamo a
ricercare i peccati dei sudditi, e tagliamo semplicemente legna
quando recidiamo, con disposizione d’animo pietosa, i vizi dei
peccatori. Ma quando il rimprovero si trascina fino a divenire più
aspro del necessario, è allora che la scure sfugge di mano; e quando
le parole della correzione si fanno troppo dure il ferro cade dal
manico, per cui colpisce e uccide l’amico colui che, proferendo
parole ingiuriose, spegne nel suo ascoltatore lo spirito di carità.
Infatti l’animo di colui che subisce la correzione immediatamente
precipita nell’odio se questo rimprovero va oltre i limiti. Ma è
necessario che, chi colpisce incautamente la legna e uccide il
prossimo, fugga verso tre città per vivere protetto in una di esse;
perché colui che, voltosi a lacrime di penitenza, si nasconde sotto
la speranza la fede e la carità nell’unità del sacramento non è
considerato reo dell’omicidio commesso. E il parente prossimo
dell’ucciso, quando lo troverà non lo ucciderà; perché quando
verrà il severo Giudice, che si è unito a noi facendosi consorte
della nostra natura, senza dubbio non perseguirà il reato della sua
colpa col castigo poiché fede speranza e carità lo nascondono sotto
il suo perdono.
11 — Quando
la guida delle anime debba essere dedita alla meditazione della legge
sacra
Ma
tutto ciò si compie debitamente dalla guida delle anime se, animato
dallo spirito del timore e dell’amore, ogni giorno con diligenza,
medita i precetti della Parola sacra, affinché le parole della
divina ammonizione ricostruiscano in lui la forza della sollecitudine
e della previdente attenzione verso la vita celeste, che viene
distrutta incessantemente dalla pratica della vita tra gli uomini. E
chi, attraverso la comunione con le persone del mondo, è ricondotto
alla vita dell’uomo vecchio, con il desiderio della comunione si
rinnova a un amore incessante della patria spirituale. Infatti, nel
parlare con gli uomini il cuore si disperde, e constatando con
certezza che, spinto dal tumulto delle occupazioni esteriori, decade
dalla sua condizione, deve avere una cura incessante di rialzarsi
attraverso la dedizione allo studio [sacro]. Perciò Paolo ammonisce
il discepolo preposto al gregge, dicendo: Fino
alla mia venuta attendi alla lettura (1
Tim. 4, 13). Perciò David dice: Come
amo la tua legge, Signore, tutto
il giorno è la mia meditazione (Sal.
118, 97). Perciò
il Signore dà ordine a Mosé a proposito del trasporto dell’arca,
dicendo: Farai
quattro anelli d’oro che porrai ai quattro angoli dell’arca, e
farai delle stanghe di legno di acacia e le coprirai d’oro e le
infilerai negli anelli ai lati dell’arca così che sia portata con
quelle, che
saranno sempre infilate negli anelli e non ne verranno mai
estratte (Es.
25, 12 ss.). Che
cosa è rappresentato dall’arca se non la Santa Chiesa? Si ordina
poi che ad essa vengano aggiunti quattro anelli agli angoli, e ciò
senza dubbio significa che essa, per il fatto che si estende
dilatandosi nelle quattro parti del mondo, è annunciata cinta dei
quattro libri del Santo Evangelo. E si fanno stanghe di legno di
acacia da infilarsi nei medesimi anelli per il trasporto, pérché
bisogna cercare maestri forti e perseveranti come legno che non
imputridisce, i quali, sempre intenti allo studio dei libri sacri,
annuncino l’unità della Santa Chiesa portando l’arca come
inseriti in quegli anelli, poiché portare l’arca con le stanghe
significa, per i buoni maestri, condurre la Santa Chiesa alle rozze
menti degli infedeli attraverso la predicazione. E le stanghe devono
essere pure ricoperte d’oro, cioè i maestri mentre con i loro
discorsi predicano agli altri devono risplendere anche loro per la
luminosità della vita. E giustamente, riferendosi a loro si
aggiunge: Le
quali saranno sempre dentro gli anelli e non saranno mai estratte
da essi, perché
evidentemente è necessario che chi veglia all’ufficio della
predicazione non cessi dall’amoroso studio della lettura sacra. E
l’ordine che le stanghe siano sempre negli anelli è in vista
dell’opportunità indeclinabile di trasportare l’arca senza che
si generi alcun ritardo nell’inserimento delle stanghe; ciò
significa che quando un Pastore viene interrogato dai sudditi
riguardo a un qualche contenuto spirituale, è veramente vergognoso
se egli si mette a cercare la risposta proprio quando deve risolvere
una questione. Ma le stanghe sono inserite negli anelli perché i
maestri che meditano sempre nel loro cuore la Parola sacra alzino
l’arca del testamento senza indugi, e insegnino senza incertezze in
qualunque necessità. Perciò dice bene il primo Pastore della Chiesa
ammonendo gli altri Pastori: Pronti
sempre a rispondere a chiunque vi chiede ragione della speranza che è
in voi (1 Pt.
3, 15). Come se dicesse apertamente: Le stanghe non siano mai
tolte dagli anelli affinché nessun indugio intralci il trasporto
dell’arca.
PARTE
TERZA
COME
DEVE INSEGNARE E AMMONIRE I SUDDITI
UNA
GUIDA DELLE ANIME
CHE
HA BUONA CONDOTTA DI VITA
Prologo
Poiché
abbiamo indicato come deve essere il Pastore, ora intendiamo
dimostrare quale debba essere il suo insegnamento. Infatti, come
insegnò molti anni prima di noi Gregorio di Nazianzo di venerabile
memoria, non a tutti si adatta un unico e medesimo genere di
esortazione poiché sono diversi la natura e il comportamento di
ciascuno, e spesso ciò che giova agli uni nuoce agli altri. Così
accade non di rado che certe erbe adatte a nutrire alcuni animali ne
uccidono altri o che un leggero fischio che acquieta i cavalli eccita
i cagnolini; e una medicina che fa passare una malattia ne aggrava
un’altra; e il pane che rinvigorisce le persone forti uccide i
bambini piccoli. Dunque, il discorso di chi insegna deve essere fatto
tenendo conto del genere degli ascoltatori per essere adeguato a
quella che è la condizione propria dei singoli e tuttavia non
decadere dal suo proprio genere che è di servire alla comune
edificazione. Infatti che cosa sono le menti degli ascoltatori se
non, per così dire, corde ben tese di una cetra che l’artista
tocca con diversa intensità per produrre un’armonia che si accordi
col canto?
E
le corde danno un’armonia ben modulata, perché sono toccate da un
unico plettro ma con vibrazioni diverse. Perciò il maestro per
edificare tutti nell’unica virtù della carità deve toccare il
cuore degli ascoltatori con una sola dottrina ma con un diverso
genere di esortazione.
1 —
Nell’arte della predicazione bisogna osservare una grande
diversità di modi
Infatti
deve essere diverso il modo con cui si ammoniscono gli uomini e le
donne. Diversa l’ammonizione per i giovani e per i vecchi; per i
poveri e per i ricchi; per gli allegri e per i tristi; per i sudditi
e per i prelati; per i servi e per i padroni; per i sapienti di
questo mondo e per gli incolti; per gli sfrontati e per i timidi; i
presuntuosi e i pusillanimi; gli impazienti e i pazienti; i benevoli
e gli invidiosi; i semplici e gli insinceri; i sani e i malati;
coloro che temono i castighi e perciò conducono una vita innocente e
quelli tanto induriti nell’iniquità che neppure i castighi li
correggono; i taciturni e i chiacchieroni; i pigri e i precipitosi; i
mansueti e gli iracondi; gli umili e gli orgogliosi; gli ostinati e
gli incostanti; i golosi e i temperanti; quelli che distribuiscono
per misericordia i propri beni, e coloro che fanno di tutto per
rapire quelli degli altri; quelli che né rapiscono i beni altrui né
elargiscono i propri, e coloro che distribuiscono ciò che hanno e
tuttavia non desistono dal rapire i beni altrui; i litigiosi e i
pacifici; i seminatori di discordia e gli operatori di pace; coloro
che non intendono rettamente le parole della legge divina, e coloro
che, invece, le intendono certo rettamente ma non ne parlano
umilmente; coloro che sono in grado di predicare degnamente ma temono
di farlo per eccessiva umiltà e quelli a cui sarebbe proibito da
qualche difetto o dall’età e tuttavia l’irruenza li spinge a
farlo; quelli che prosperano in tutto quel che desiderano nei beni
temporali, e quelli che, pur accesi di desiderio delle cose mondane,
durano la fatica di una pesante fortuna avversa; quelli che sono
vincolati dal matrimonio, e quelli che sono liberi dal vincolo
matrimoniale; quelli che hanno esperienza di unione carnale, e quelli
che non l’hanno; quelli che piangono peccati di opere, e quelli che
piangono peccati di pensiero; quelli che piangono i peccati e
tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia
non li piangono; quelli che addirittura lodano le azioni illecite che
compiono, e quelli che accusano le loro depravazioni ma non le
evitano; quelli che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e
quelli che restano prigionieri della colpa con deliberazione; quelli
che commettono frequentemente peccati, sia pure minimi, e quelli che
si custodiscono dai piccoli ma talvolta’affondano nei più gravi;
quelli che non incominciano neppure a fare il bene, e quelli che dopo
averlo incominciato non lo portano a termine; coloro che fanno il
male di nascosto e il bene in pubblico, e quelli che nascondono il
bene che fanno e tuttavia lasciano che si pensi male di loro per
certe loro azioni pubbliche. Ma non ci sarebbe alcuna utilità a
passare in rassegna in una breve enumerazione tutte queste situazioni
se non esponessimo anche, con la maggiore brevità possibile, i modi
dell’ammonizione adatti a ciascuna di esse. Dunque deve essere
diverso il modo di ammonire gli uomini e le donne poiché agli uni
bisogna imporre obblighi più gravi affinché gravi doveri li rendano
sempre operanti nell’esercizio del bene; alle altre invece bisogna
imporre pesi più leggeri che le convertano come accarezzandole.
Diverso deve essere il modo di ammonire i giovani e i vecchi poiché
è la severità dell’ammonizione che per lo più guida i primi nel
loro progresso mentre è un’amorevole preghiera che dispone i
secondi a un agire migliore. Poiché è scritto: Non sgridare
un anziano ma pregalo come un padre (1 Tim. 5, 1).
2
— Come bisogna ammonire i poveri e i ricchi
Diverso
è il modo di ammonire i poveri e i ricchi poiché agli uni dobbiamo
offrire il sollievo della consolazione di fronte alla tribolazione,
agli altri invece il timore di fronte all’esaltazione. Al povero,
il Signore dice, per mezzo del profeta: Non temere perché
non sarai confuso. E non molto tempo dopo dice con
dolcezza: Poverina, sbattuta dalla tempesta (Is.
48, 10). E ancora la consola dicendo: Ti ho scelto nel
crogiolo della povertà (Is. 54, 4. 11). Paolo, al
contrario, a proposito dei ricchi dice al discepolo: Ai
ricchi di questo secolo ordina di non essere superbi e di non sperare
nelle loro incerte ricchezze (1 Tim. 6, 17); dove
occorre notare che il maestro dell’umiltà non
dice: prega ma ordina, perché
quantunque si debba usare misericordia alla debolezza, non si deve
onore all’orgoglio. Dunque, ciò che è giusto dire a tali persone
viene loro tanto più giustamente comandato quanto più esse si
gonfiano nell’esaltazione del loro pensiero riguardo a realtà che
passano. Di costoro il Signore dice nell’Evangelo: Guai a
voi, ricchi, che avete la vostra
consolazione (Lc. 6, 24). Poiché infatti essi ignorano
in che cosa consistono le gioie eterne e si consolano con la
ricchezza della vita presente. Bisogna allora offrire consolazione a
coloro che ardono nel crogiolo della povertà, mentre agli altri, che
si esaltano nella consolazione della gloria mondana, occorre
insinuare il timore; affinché i poveri apprendano che possiedono
ricchezze che non vedono e i ricchi sappiano che non possono
conservare le ricchezze che vedono. Spesso tuttavia la qualità dei
costumi inverte l’ordine delle persone, per cui il ricco è umile e
il povero orgoglioso. Subito allora la parola del predicatore deve
adattarsi alla vita di chi ascolta così da colpire con tanto maggior
rigore l’orgoglio nel povero in quanto neppure la povertà che gli
è stata imposta riesce a piegarlo; e con tanta più dolcezza
accarezzi l’umiltà dei ricchi in quanto neppure la ricchezza che
inorgoglisce li esalta. Tuttavia non di rado anche il ricco superbo
deve essere placato con dolce esortazione, perché spesso dure ferite
si alleviano con medicamenti leggeri e la furia dei pazzi è
ricondotta al senno da un medico amorevole, così che quando si viene
loro incontro con dolcezza si mitiga la malattia, dell’insania.
Infatti bisogna penetrare senza negligenza il significato più
profondo di ciò che accadeva quando lo spirito avverso invadeva
Saul, e David calmava la sua follia con la cetra (cf. 1 Sam. 16, 23);
giacché, a che cosa si accenna attraverso Saul se non all’orgoglio
dei potenti? E a che cosa attraverso David se non all’umile vita
dei santi? Dunque, quando Saul è afferrato dallo spirito immondo, la
sua follia è moderata dal canto di David perché quando il
sentimento dei potenti si muta in furore a causa dell’orgoglio, è
opportuno che esso sia richiamato alla sanità della mente, dalla
pacatezza del nostro parlare come dal dolce suono della cetra. Ma
talvolta, quando si tratta di confutare dei potenti di questo mondo,
occorre prima metterli alla prova usando delle similitudini come se
si trattasse di affare che non riguarda loro; e quando avranno
proferito una giusta sentenza come rivolta a un altro, allora con i
modi opportuni bisogna colpirli direttamente con l’accusa della
loro colpa, affinché il cuore, gonfio della sua potenza mondana, non
si erga contro chi lo rimprovera — poiché è col suo stesso
giudizio che questi calpesta il suo collo superbo — ed esso non
provi a difendersi in alcun modo, legato com’è dalla sentenza
pronunciata con la sua stessa bocca. Perciò, infatti, il profeta
Natan era venuto ad accusare il re con l’aria di chiedere un
giudizio contro un ricco in difesa di un povero (cf. 2 Sam. 12,
1-15), affinché il re prima pronunciasse la sua sentenza e solamente
dopo ascoltasse il suo peccato, senza poter contraddire ciò che era
giusto, secondo quanto egli stesso aveva proferito contro di sé. E
così l’uomo santo considerando insieme il peccatore e il re,
secondo un mirabile procedimento, prima legò il re temerario
attraverso la confessione quindi lo troncò con l’accusa; per un
poco celò chi veramente cercava ma colpi improvvisamente colui che
teneva stretto. Forse avrebbe agito su di lui con minore efficacia se
fin dal principio del discorso avesse voluto colpire apertamente la
colpa, mentre anticipando la similitudine rese più acuto il
rimprovero che essa nascondeva. Era venuto come un medico da un
malato, vedeva che la ferita doveva essere tagliata ma dubitava della
pazienza del malato; pertanto, nascose il bisturi sotto la veste e
trattolo improvvisamente lo conficcò nella ferita, perché il malato
lo sentisse tagliare prima di vederlo e non si fosse rifiutato di
sentirlo se l’avesse veduto in precedenza.
3
— Come
bisogna ammonire gli allegri e i tristi
Diverso
è il modo di ammonire gli allegri e i tristi. Agli allegri
evidentemente bisogna presentare le tristezze che tengono dietro al
castigo; ai tristi invece i gaudii promessi come frutto del regno.
Gli allegri imparino dalla durezza delle minacce ciò che devono
temere; i tristi ascoltino le gioie del premio che già possono
pregustare. Ai primi, infatti, è detto: Guai
a voi che ora ridete, poiché
piangerete (Lc.
6, 25); gli altri invece ascoltano l’insegnamento del medesimo
maestro: Vi
vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà e nessuno vi toglierà la
vostra gioia (Gv.
16, 22). Alcuni però non diventano allegri o tristi per le
circostanze ma lo sono per temperamento nativo e ad essi bisogna
certamente far conoscere che ci sono dei vizi verso i quali certi
temperamenti sono più proclivi: infatti le persone allegre sono
facili alla lussuria, le tristi all’ira. Perciò è necessario che
ognuno consideri non solamente ciò che deve sostenere a causa del
suo temperamento, ma anche ciò che lo preme da vicino con peggiore
pericolo, perché non avvenga che, mentre lotta contro ciò che deve
sopportare, si trovi a soccombere davanti a quel vizio dal quale
pensa di essere libero.
4
— Come
bisogna ammonire i sudditi e i prelati
Diverso
è il modo di ammonire i sudditi e i prelati, affinché
l’assoggettamento non annienti i primi e la posizione elevata non
esalti i secondi. Quelli non compiano meno di ciò che è stato loro
ordinato, e questi non ordinino pila di quanto giustamente si può
compiere; i primi siano sottomessi umilmente e gli altri presiedano
con moderazione. Infatti, per quanto si può anche intendere in modo
figurato, ai sudditi viene detto: Figli, obbedite
ai vostri genitori, nel
Signore; e
per i prelati c’è il precetto: E
voi, padri, non
provocate all’ira i vostri figli (Col.
3, 20-21). I primi imparino come disporre il proprio intimo agli
occhi del Giudice occulto; e gli altri come offrire all’esterno
esempi di una vita buona anche a coloro che sono stati loro affidati.
I prelati, infatti, devono sapere che se commettono azioni perverse
sono degni di morire tante volte quanti sono gli esempi di perdizione
che essi offrono ai loro sudditi. Perciò è necessario che si
custodiscano dalla colpa con una cautela tanto maggiore in quanto non
sono soli a morire, a causa delle loro azioni perverse, ma sono rei
delle anime altrui che essi hanno distrutto con i loro cattivi
esempi. Così occorre ammonire i sudditi, che saranno severamente
puniti se non sapranno farsi trovare liberi da colpa, almeno quanto a
se stessi; e i prelati, che saranno giudicati degli errori dei
sudditi anche se essi si sentono tranquilli per quanto li riguarda
personalmente. I sudditi abbiano una cura tanto pila sollecita del
proprio dovere in quanto non devono preoccuparsi degli altri; ma i
prelati provvedano agli interessi altrui senza tralasciare di curare
i propri, e per questi siano ferventi e solleciti come in nulla
devono essere pigri a custodire quanti sono stati loro affidati.
Infatti a colui che deve provvedere solo a se stesso viene detto: Va’
dalla formica, pigro, e
considera le sue vie e impara la sapienza (Prov.
6, 6); ma all’altro viene fatta una terribile ammonizione
quando gli è detto: Figlio
mio, ti
sei impegnato per il tuo amico, hai
dato la tua mano a un estraneo e ti sei preso al laccio con le parole
della tua bocca e sei prigioniero dei tuoi propri discorsi (Prov.
6, 1). Infatti, impegnarsi per un amico equivale a prendere su
di sé l’anima di un altro a rischio della propria vita; per questo
poi si dà anche la mano a un estraneo, perché l’animo si lega a
una preoccupazione e a una sollecitudine che prima non aveva. Ed egli
è preso al laccio dalle parole della sua bocca e prigioniero dei
propri discorsi, perché mentre è costretto a dire cose buone a
coloro che gli sono stati affidati è necessario che prima egli
stesso custodisca ciò che dice, ed è quindi propriamente preso al
laccio dalle parole della sua bocca quando è costretto dalla
coerenza a non abbandonarsi a una vita diversa da quanto egli va
insegnando. E perciò presso il severo Giudice egli è costretto ad
adempiere, praticamente, tutto quanto risulta che egli ha imposto
agli altri a parole. Segue poi subito e opportunamente
l’esortazione: Dunque, fa’
quanto ti dico, figlio
mio, e
liberati poiché sei caduto nelle mani del tuo
prossimo, corri, affrettati, sveglia
il tuo amico, non
dare sonno ai tuoi occhi, non
sonnecchino le tue palpebre (Prov.
6, 3-4). Chi infatti è preposto agli altri come esempio di vita
è ammonito non solo a vegliare lui stesso ma anche a svegliare
l’amico. Giacché non basta, perché la sua vita sia buona, che
vegli, se non separa dal torpore del peccato anche colui a cui
presiede. Ed è detto bene: Non
dare sonno ai tuoi occhi, non
sonnecchino le tue palpebre. Dare
sonno agli occhi significa trascurare affatto la cura dei sudditi
cessando l’attenzione per loro. E le palpebre sonnecchiano quando i
nostri pensieri sanno che cosa bisogna rimproverare ai sudditi ma lo
dissimulano, resi indolenti dalla pigrizia. Infatti, dormire
profondamente è non conoscere e non correggere le azioni dei
sudditi, mentre non è dormire ma sonnecchiare, il conoscere ciò che
va rimproverato e tuttavia non correggerlo coi giusti rimproveri, per
una specie di pigra noia dello spirito. Ma, sonnecchiando, l’occhio
cade nel sonno profondo, e ciò avviene per lo più quando chi
governa non taglia il male che conosce, e quindi poi, a causa della
sua negligenza, può giungere addirittura al punto di non sapere più
riconoscere il peccato commesso dai sudditi. Pertanto, bisogna
ammonire coloro che governano ad avere gli occhi attentissimi, dentro
di sé e attorno, attraverso una accurata vigilanza e ad adoperarsi
per divenire animali celesti (cf. Ez. 1, 18): quegli animali celesti
che vengono descritti tutti pieni di occhi di dentro e di fuori (cf.
Ap. 6, 6). Ed è certo cosa degna che tutti quelli che governano
abbiano occhi rivolti dentro di sé e attorno e, mentre cercano di
piacere nel loro intimo al Giudice interiore, offrendo all’esterno
esempi di vita scorgano anche ciò che va corretto negli altri. I
sudditi poi vanno ammoniti a non giudicare temerariamente la vita dei
loro superiori, se capita di vederli fare qualche cosa degna di
rimprovero, perché non accada che, mentre giustamente rimproverano
cose malfatte, poi per un impulso orgoglioso, sprofondino in mali
peggiori. Bisogna ammonirli che, quando considerano le colpe dei
superiori, non diventino arroganti verso di loro, ma se si danno di
fatto in essi alcune gravi colpe, le discernano così però da non
rifiutarsi, in ogni caso, di portare nei loro confronti il giogo del
rispetto dovuto, costretti a ciò dal timore di Dio. Ciò si dimostra
meglio portando l’esempio di quanto fece David: una volta che Saul,
il suo persecutore, era entrato in una grotta per evacuare, e là
c’era David coi suoi uomini — il quale già da lungo tempo
portava il peso della sua persecuzione — questi, poiché i suoi lo
incitavano a colpire Saul, li persuase con la risposta che non si
doveva mettere le mani sull’unto del Signore. Tuttavia si alzò di
nascosto e gli tagliò il lembo del mantello (cf. 1 Sam. 24, 4 ss.).
Che cosa rappresenta Saul se non le cattive guide delle anime; e
David, se non i buoni sudditi? Pertanto, Saul che evacua designa i
superiori empi che estendono la malizia concepita nel cuore a
compiere opere maleodoranti, e mostrano nell’aperta esecuzione dei
fatti i pensieri colpevoli del loro intimo. E tuttavia David ebbe
timore di colpirlo perché le pie menti dei sudditi che si astengono
da ogni pestifera maldicenza non colpiscono la vita dei superiori,
con la spada della loro lingua, anche quando li rimproverano per la
loro imperfezione. E se pure talvolta, per la loro debolezza fanno
fatica ad astenersi dal parlare di certe mancanze dei superiori più
gravi e manifeste, e tuttavia lo fanno umilmente, è come se
tagliassero in silenzio l’orlo del mantello; perché questo mancare
verso la dignità del superiore, sia pure senza nuocere e di
nascosto, equivale a rovinare la veste del re costituito su di loro.
Ma essi poi rientrano in se stessi e si rimproverano aspramente
perfino di quel leggerissimo taglio operato con la parola. Perciò si
trova giustamente scritto in quel luogo: Dopo
ciò David percosse il suo cuore, per
aver tagliato l’orlo del mantello di Saul (1
Sam. 24, 6). Dunque, le azioni dei superiori non bisogna ferirle
con la spada della bocca, anche quando si giudica che sia giusto
rimproverarle. Se però qualche volta la lingua si lascia andare
anche per pochissimo contro di loro, bisogna che il cuore si stringa
per il dolore del pentimento finché rientri in se stesso e, avendo
peccato contro l’autorità che gli è preposta, tema molto il
giudizio di colui che gliel’ha preposta. Perché quando pecchiamo
contro i superiori contravveniamo a quella disposizione che ce li ha
preposti. Perciò anche Mosé, quando venne a sapere che il popolo si
lamentava contro di lui e contro Aronne, disse: Che
cosa siamo noi? La vostra mormorazione non è contro di noi, ma
contro il Signore (Es.
16, 8).
5
— Come bisogna ammonire i servi e i padroni
Diverso
è il modo di ammonire i servi e i padroni. I servi, bisogna
ammonirli a considerare sempre in se stessi l’umiltà della loro
condizione; i padroni, a non dimenticare la propria natura per la
quale sono creati uguali ai loro servi. I servi bisogna ammonirli a
non disprezzare i loro padroni per non offendere Dio insuperbendo e
contraddicendo alla sua disposizione; ma bisogna ammonire anche i
padroni che, a loro volta, insuperbiscono contro Dio riguardo al suo
dono se non riconoscono uguali a sé, per la comune natura, coloro
che, per la loro condizione, tengono sottomessi.
I
servi bisogna ammonirli a sapere di essere servi dei loro padroni; i
padroni bisogna ammonirli a riconoscere di essere conservi dei loro
servi. Agli uni infatti è detto: Servi, obbedite
ai vostri padroni secondo la carne (Col.
3, 22). E ancora: Coloro
che sono sotto il giogo della servita giudichino i loro padroni degni
di ogni onore (1
Tim. 6, 1); ma agli altri è detto: E
voi, padroni, fate
lo stesso con loro rinunciando a minacciarli, sapendo
che il padrone vostro e loro è nei cieli (Ef.
6, 2).
6
— Come bisogna ammonire sapienti e incolti
Diverso
è il modo di ammonire i sapienti di questo mondo e gli incolti. I
sapienti, bisogna ammonirli a perdere la scienza di ciò che sanno;
gli incolti invece, a desiderare di sapere ciò che non sanno. Negli
uni la prima cosa da distruggere è il fatto che essi si giudicano
sapienti; negli altri, bisogna ormai edificare tutto ciò che si
conosce della sapienza celeste, poiché in loro non c’è alcuna
superbia e con ciò è come se avessero preparato i loro cuori a
ricevere quell’edificio. Coi sapienti bisogna affaticarsi perché
divengano più sapientemente stolti: abbandonino la sapienza stolta
ed imparino la sapiente stoltezza di Dio (cf. 1 Cor. 1, 25); agli
incolti invece, bisogna predicare in modo che, dalla loro apparente
stoltezza si accostino più da vicino alla vera sapienza. Infatti, ai
primi è detto: Se
qualcuno di voi sembra sapiente in questo secolo, diventi
stolto per essere sapiente (1
Cor. 3, 18); e agli altri è detto: Non
molti sapienti secondo la carne (1
Cor. 1, 26). E ancora: Dio
ha scelto le cose stolte del mondo per confondere i sapienti (1
Cor. 1, 27). Per lo più ci vogliono ragionamenti per convertire
i primi; per gli altri, molto spesso valgon meglio gli esempi. A
quelli, pertanto, giova rimanere vinti nelle loro argomentazioni; per
questi invece, in genere è sufficiente che conoscano azioni altrui
degne di lode. Perciò il grande maestro, debitore
verso i sapienti e verso gli insipienti (Rom.
1, 14), insegnando agli Ebrei, tra i quali alcuni erano sapienti
e altri anche piuttosto rozzi, e parlando loro del compimento
dell’Antico Testamento, superò la loro sapienza con
l’argomento: Quanto
è antiquato e vecchio è presso alla morte (Ebr.
8, 13). Ma poi, rendendosi conto che alcuni si potevano
trascinare solamente con la forza degli esempi, aggiunse nella
medesima lettera: I
santi sperimentarono schemi e battiture e inoltre catene e
carcere, furono
lapidati, segati, sottoposti
a dure prove, uccisi
di spada (Ebr.
11, 36-37). E ancora: Ricordatevi
dei vostri superiori che vi hanno parlato la Parola di Dio
e, considerando
quale fu il termine della loro esistenza, imitatene
la fede (Ebr.
13, 7). E così vinceva gli uni con la forza del ragionamento; e
gli altri li persuadeva ad elevarsi a una vita superiore attraverso
una dolce imitazione.
7
— Come bisogna ammonire gli sfrontati e i timidi
Diverso
è il modo di ammonire gli sfrontati e i timidi. I primi, infatti,
nulla vale a trattenerli dal vizio della sfrontatezza se non un duro
rimprovero, mentre gli altri per lo più si dispongono al meglio con
una esortazione moderata. Quelli non si accorgono di fare il male se
non ricevono rimproveri da più parti; a convertire i timidi, per lo
più è sufficiente che il maestro gli richiami alla mente con
dolcezza le loro mancanze. Gli sfrontati, li corregge meglio chi li
affronta con un violento rimprovero, ma coi timidi si raggiunge un
miglior risultato se si sfiora appena ciò che in essi occorre
rimproverare. Perciò il Signore, rimproverando apertamente il popolo
sfrontato dei Giudei, dice: La tua fronte è divenuta come
quella di una donna prostituta: non hai voluto
arrossire (Ger. 3, 3). E di nuovo conforta colei che si
vergogna, dicendo: Ti dimenticherai della vergogna della tua
adolescenza, e non ricorderai l’obbrobrio della tua
vedovanza, perché sarà tuo Signore
colui che ti ha fatta (Is. 54, 4-5). E Paolo sgrida
apertamente anche i Galati che peccavano con sfrontatezza, dicendo: O
Galati insensati, chi vi ha affascinato? (Gal.
3, 1) E ancora: Siete così stolti che dopo avere
incominciato con lo spirito finite con la carne? (Gal. 3,
3). Ma le colpe dei timidi le rimprovera quasi con compassione,
dicendo: Ho gioito grandemente nel Signore che finalmente
sono rifioriti i vostri sentimenti verso di me, come già
li avevate ma eravate presi [da altro] (Fil. 4, 10). E così,
col rimprovero duro toglieva le colpe degli uni, e con parole più
dolci copriva la negligenza degli altri.
8
— Come bisogna ammonire i presuntuosi e i pusillanimi
Diverso
è il modo di ammonire i presuntuosi e i pusillanimi. Quelli infatti,
sono molto sicuri di sé e rimproverano sdegnosamente gli altri;
questi invece, troppo consci della propria debolezza, per lo più si
lasciano andare alla disperazione. I primi hanno una straordinaria
altissima stima di tutto ciò che compiono; gli altri giudicano
affatto spregevole ciò che fanno e perciò si scoraggiano e
disperano. Per questo, chi deve riprendere le azioni dei presuntuosi,
deve discuterle con grande sottigliezza per dimostrare loro che ciò
in cui essi piacciono a se stessi, dispiacciono a Dio. È allora
infatti che li correggiamo meglio, cioè quando dimostriamo loro che
quel che credono di aver fatto bene è fatto male, così che proprio
di dove si crede di aver raggiunto la gloria provenga un utile
turbamento. Spesso però, quando proprio non si rendono conto per
nulla di peccare di presunzione, si correggono più rapidamente se
restano confusi per il rimprovero rivolto a un’altra colpa più
manifesta scoperta in loro, così che da ciò di cui non sono in
grado di difendersi riconoscano che non sostengono rettamente ciò
che difendono. Perciò Paolo, rivolgendosi ai Corinzi che vedeva
presuntuosamente gonfi gli uni verso gli altri dire che uno era di
Paolo, l’altro di Apollo, l’altro di Cefa, l’altro di Cristo
(cf. 1 Cor. 1, 12), tirò fuori quel peccato di incesto che era stato
commesso presso di loro e restava impunito, dicendo: Si
sente dire che si dà una fornicazione tra di voi, e
una tale fornicazione quale non è ammissibile neppure fra i
gentili, e
cioè che uno abbia come sua la moglie di suo padre. E
voi vi siete gonfiati e non avete fatto piuttosto lutto, perché
fosse tolto di tra voi colui che ha commesso una tale azione (1
Cor. 5, 1-2). Come se dicesse apertamente: Perché nella vostra
presunzione dite di essere di questo e di quello, voi che mostrate di
non essere di nessuno per questa negligenza con cui vi siete sciolti
da ogni legame? Al contrario, riconduciamo al bene i pusillanimi in
modo più appropriato se ci informiamo indirettamente di qualche loro
buona azione e, lodandola, li confortiamo nello stesso momento in cui
li dobbiamo accusare rimproverandogliene altre; affinché la lode
ricevuta sostenga la loro timidezza mentre riceve il castigo dal
rimprovero della colpa. Spesso tuttavia otteniamo un risultato più
utile con loro se richiamiamo anche solo ciò che hanno fatto di
bene; e se hanno compiuto qualche cosa di irregolare non glielo
rimproveriamo come una colpa già commessa, ma ci limitiamo a
distoglierli da quella come se dovessero ancora commetterla, affinché
la benevolenza manifestata accresca in loro le azioni che approviamo,
mentre contro le azioni che dobbiamo rimproverare più che il
rimprovero abbia maggiore efficacia presso di loro una esortazione
riguardosa. Perciò il medesimo Paolo, vedendo che i Tessalonicesi
fermi nella predicazione ricevuta erano turbati da un senso di paura
come per una prossima fine del mondo, prima loda quanto scorge in
loro di forte, e solo dopo, con caute ammonizioni, rafforza la loro
debolezza. Dice infatti: Dobbiamo
ringraziare sempre Dio per voi, fratelli, come
è degno, perché
la vostra fede aumenta e abbonda in ciascuno di voi la carità
vicendevole; così
che noi stessi ci gloriamo per voi nelle chiese di Dio, per
la vostra pazienza e la vostra fede (2
Tess. 1, 3-4). E dopo avere premesso queste lodi lusinghiere
riguardo alla loro vita, poco dopo prosegue dicendo: Vi
preghiamo tuttavia, fratelli, per
la venuta del nostro Signore Gesti Cristo e il nostro riunirci in
Lui, che
non vi lasciate smuovere troppo presto dal vostro sentire né
spaventare da spirito o da discorso o da lettera come fosse stata
scritta da noi, come
se il giorno del Signore fosse imminente (2
Tess. 2, 1). Così, da vero maestro, fece in modo che prima si
sentissero lodati per ciò che riconoscevano di sé, e quindi si
sentissero esortati rispetto a ciò che dovevano seguire; affinché
la lode premessa rafforzasse il loro spirito per accogliere senza
turbamento la ammonizione che sarebbe seguita. E sebbene sapesse che
essi erano turbati dal timore della prossima fine, non li
rimproverava per questo, ma come se ignorasse addirittura la cosa,
quasi non si fosse ancora data, li preveniva affinché non si
turbassero. E questo perché, mentre per quel lieve cenno potevano
credere che il loro maestro avesse addirittura ignorato questo
aspetto in loro, temessero però sia di meritare il rimprovero sia di
essere in ciò conosciuti da lui.
9
— Come si devono ammonire gli impazienti e i pazienti
Diverso
è il modo di ammonire gli impazienti e i pazienti. Infatti, agli
impazienti bisogna dire che trascurando di frenare la loro natura
precipiteranno in molte azioni inique contro la loro stessa
intenzione, perché evidentemente il furore spinge l’animo dove non
desidererebbe essere trascinato e, senza che uno se ne renda conto,
provoca turbamenti, di cui poi egli si duole quando ne prende
coscienza. Bisogna dire pure agli impazienti che quando agiscono come
folli per impulso di un moto precipitoso, a stento si rendono conto
delle proprie azioni cattive solo dopo che le hanno compiute. Coloro
che non contrastano per nulla le proprie emozioni, turbano anche ciò
che forse avevano compiuto tranquillamente, e per un improvviso
impulso distruggono tutto ciò che forse avevano costruito con lunga
e provvida fatica. Per il vizio dell’impazienza si perde perfino la
virtù, poiché è scritto: La
carità è paziente (1
Cor. 13, 4). Pertanto, se non è paziente affatto non è carità.
Anche la stessa scienza che alimenta le altre virtù è dissipata dal
vizio dell’impazienza, infatti è scritto: La
scienza dell’uomo si apprende attraverso la pazienza (Prov.
19, 11); per cui tanto meno uno si mostra dotto quanto meno si
dimostra paziente. E neppure può compiere con verità il bene a
parole, se nella vita non sa sopportare in pace i difetti altrui.
Inoltre, per questo vizio dell’impazienza lo spirito resta ferito
dalla colpa dell’arroganza, perché quando uno non sopporta di
essere disprezzato in questo mondo, se ha qualche bene nascosto si
sforza di ostentarlo, così attraverso l’impazienza è condotto
all’arroganza e, per non poter sopportare il disprezzo, mettendo in
mostra se stesso si gloria con l’ostentazione. Perciò sta
scritto: È
meglio il paziente dell’arrogante (Qo.
7, 9); poiché evidentemente il paziente preferisce sopportare
qualsiasi male piuttosto di far conoscere con l’ostentazione i suoi
beni nascosti. L’arrogante, al contrario, preferisce vantarsi di
qualche bene, anche falsamente, pur di non dover sopportare neppure
il più piccolo male.
Pertanto,
poiché quando si abbandona la pazienza va distrutto anche il resto
di bene che si è compiuto, giustamente in Ezechiele si trova il
precetto che sull’altare di Dio si faccia una cavità perché si
conservino gli olocausti che vi stanno sopra (cf. Ez. 43, 13).
Infatti se nell’altare non ci fosse la cavità i resti di quel
sacrificio sarebbero dispersi dal vento. Ma che cosa dobbiamo
intendere per altare di Dio se non l’anima del giusto che pone su
di sé, davanti agli occhi di Lui, quanto di bene ha compiuto come
sacrificio? E che cos’è la cavità dell’altare se non la
pazienza dei buoni che umilia il loro spirito per sopportare le
avversità e lo mostra come adagiato nel fondo di una fossa? Si
faccia dunque una cavità nell’altare, affinché il vento non
disperda il sacrificio che vi sta sopra; cioè, lo spirito degli
eletti custodisca la pazienza per non perdere, a causa del vento
dell’impazienza, anche ciò che di bene ha compiuto. Ed è giusto
che quella medesima cavità, secondo quanto è descritto, sia di un
solo cubito; poiché è naturale che se non si abbandona la pazienza
si conserva la misura dell’unità. Per cui anche Paolo
dice: Portate a
vicenda i vostri pesi, e
così adempirete la legge di Cristo (Gal.
6, 2). Poiché la legge di Cristo è la carità dell’unità
che compiono solamente coloro i quali, anche quando portano grave
peso, non trascendono. Ascoltino gli impazienti ciò che sta
scritto: È
meglio un paziente che un uomo forte, e
chi domina il suo animo pia che un conquistatore di città (Prov.
16, 32). Vale meno infatti una vittoria contro delle città,
giacché ciò che in questo caso si sottomette è qualcosa di
esterno; ma è molto di più ciò che si vince con la pazienza,
poiché è l’anima che si lascia vincere da se stessa e si
sottomette se stessa quando la pazienza la spinge a frenarsi dentro
di sé. Ascoltino gli impazienti ciò che la Verità dice ai suoi
eletti: Nella
vostra pazienza possederete le vostre anime (Lc.
21, 19). Infatti siamo stati creati in modo così mirabile che
lo spirito possiede l’anima e l’anima possiede il corpo; ma
all’anima è rifiutato il suo diritto di possedere il corpo se essa
non è prima posseduta dallo spirito. Pertanto il Signore,
insegnandoci che nella pazienza possediamo noi stessi, ci ha
insegnato che la pazienza è custode della nostra condizione
naturale. Perciò possiamo conoscere quanto sia grande la colpa
dell’impazienza se per essa perdiamo perfino il possesso di ciò
che siamo. Ascoltino gli impazienti ciò che ancora dice Salomone: Lo
stolto sfoga tutto il suo animo, il
sapiente invèce attende e lo serba per l’avvenire (Prov.
29, 11). Per l’impulso dell’impazienza avviene che tutto
l’animo si sfoghi al di fuori, ed è naturale che l’agitazione lo
riversi all’esterno poiché nessuna sapiente disciplina lo
trattiene interiormente. Ma il sapiente attende e lo serba per
l’avvenire. Infatti, se viene offeso non desidera vendicarsi
subito, poiché anche dovendo sopportare preferisce trattenersi,
tuttavia non ignora che tutto riceverà la giusta vendetta
nell’ultimo giudizio. Al contrario, bisogna ammonire i pazienti a
non dolersi interiormente di ciò che sopportano al di fuori, per non
corrompere nell’intimo con la peste della malizia l’intensità di
quel sacrificio ricco di virtù che immolano interiormente; e la
colpa di questo dolore, non riconosciuta come tale dagli uomini, ma
peccato di fronte all’esame divino, non divenga tanto peggiore
proprio in quanto davanti agli uomini pretende di passare per
virtù. Dunque bisogna dire ai pazienti che si studino di amare
coloro che sono costretti a sopportare, perché se la pazienza non è
accompagnata dalla carità, la virtù che ostenta non si muti nella
peggiore colpa dell’odio. Perciò Paolo, dopo avere detto: La
carità è paziente, aggiunge
subito: La
carità è benigna (1
Cor. 13, 4), volendo mostrare chiaramente che essa non cessa di
amare con benignità coloro che sopporta con pazienza.
Perciò
il medesimo egregio maestro, esortando i discepoli alla pazienza con
le parole: Ogni
asprezza e ira e sdegno e clamore e ingiuria sia tolta da voi (Ef.
4, 31), come dopo averli già tutti ben disposti esteriormente,
si rivolge al loro intimo e aggiunge: con
ogni malizia; poiché,
evidentemente, invano si toglie all’esterno lo sdegno, il clamore e
l’ingiuria se nell’intimo domina la malizia madre dei vizi; e
invano si incide al di fuori dei rami il male se esso si conserva
nell’intimo della radice, pronto a riaffiorare moltiplicato. Perciò
la Verità stessa dice: Amate
i vostri nemici, fate
del bene a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi
perseguitano e vi calunniano (Lc.
6, 27-28). Dunque è virtù davanti agli uomini sopportare i
nemici, ma davanti a Dio la virtù è amarli, poiché Dio accoglie
soltanto quel sacrificio che la fiamma della carità accende davanti
ai suoi occhi sull’altare delle buone opere. Perciò dice ancora ad
alcuni pazienti ma non caritatevoli: Perché
vedi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello e non vedi la trave
nel tuo occhio? (Mt.
7, 3), significando che il turbamento dell’impazienza è la
pagliuzza, ma la malizia in cuore è la trave nell’occhio. Infatti
il soffio della tentazione agita il filo di paglia, ma la malizia
consumata porta la trave quasi senza scosse. E giustamente in quel
passo si prosegue: Ipocrita, getta
via prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai per gettare la
pagliuzza dall’occhio del tuo fratello (Mt.
7, 5), come se dicesse all’anima malvagia che si rode
interiormente e all’esterno invece si mostra santa per la pazienza:
prima fa’ uscire da te la tua pesante malizia e poi rimprovera agli
altri la loro leggera impazienza, affinché il tollerare i peccati
altrui non sia per te peggio, se non ti sforzi a vincere lo spirito
di simulazione. Suole anche accadere spesso alle persone pazienti
che, proprio nel momento in cui o sopportano avversità o ricevono
ingiurie, non si sentano spinte da nessun risentimento e mostrino
così una pazienza tale che permette loro di conservare anche
l’innocenza del cuore. Ma quando, passato un po’ di tempo,
richiamano alla memoria ciò che hanno dovuto sopportare, accendono
in sé il fuoco del risentimento e vanno a cercare gli argomenti per
vendicarsi; e con questa intima ritrattazione mutano in malizia la
mansuetudine che avevano conservato nella pazienza. Allora il maestro
li soccorre ben presto se gli manifesta la causa di questo mutamento.
Infatti l’astuto avversario muove guerra contro due tipi di
persone: uno lo accende spingendolo ad offendere per primo, l’altro
lo provoca a restituire l’offesa ricevuta; mentre riesce subito
vincitore sul primo che si è lasciato persuadere all’ingiuria,
resta poi vinto da colui che porta tranquillamente l’offesa
ricevuta. Pertanto, vincitore del primo che è riuscito a soggiogare
agitando il suo animo, si erge con tutta la sua potenza contro
l’altro e si irrita che questi gli resista con forza e vinca; ma
poiché non poté turbarlo nell’attimo stesso in cui riceveva
l’ingiuria, rinunciando per il momento alla lotta aperta e
attaccando il suo pensiero con una suggestione segreta, cerca il
tempo adatto per trarlo in inganno. Infatti ha perduto nel pubblico
combattimento e arde di esercitare nascostamente le sue insidie.
Così, nel tempo del riposo, ritorna all’animo del vincitore e gli
richiama alla memoria le perdite materiali subite o le ferite delle
ingiurie, e maggiorando grandemente quanto di male gli è stato
inflitto glielo mostra intollerabile e gli turba la mente con tanta
tristezza, che spesso l’uomo paziente, divenuto prigioniero dopo la
vittoria, arrossisce di avere sopportato tranquillamente quelle
offese, si duole di non averle ricambiate e cerca, se si offra
l’occasione, di renderne di peggiori. A chi dunque sono simili
costoro se non a quelli che per la loro forza riescono vincitori in
campo aperto, ma per la loro negligenza in seguito si lasciano fare
prigionieri dentro le mura della città? A chi sono simili se non a
coloro che una improvvisa e grave malattia non li strappa alla vita,
ma li uccide una leggera febbre recidiva? Così bisogna ammonire le
persone pazienti a fortificare il loro cuore dopo la vittoria perché
il nemico battuto in aperto combattimento non mediti di insidiare le
mura del pensiero; e temano maggiormente la malattia che riprende a
serpeggiare più insidiosamente, perché il nemico astuto non goda
poi dell’inganno con una esultanza tanto maggiore in quanto, ora
calpesta i colli dei suoi vincitori che prima si ergevano contro di
lui.
10 —
Come si devono ammonire i benevoli e gli invidiosi
Diverso
è il modo di ammonire i benevoli e gli invidiosi. Bisogna ammonire i
benevoli a gioire dei beni altrui così da desiderare di farli
propri. Lodino con vero amore le azioni del prossimo così da
moltiplicarle anche, imitandole; perché se nella sosta della vita
presente assistono alla gara altrui come devoti sostenitori ma
insieme come spettatori pigri, non restino, dopo la gara, senza
premio quanto pin ora, durante la gara, non hanno faticato; e,
allora, non debbano guardare afflitti alle palme di coloro davanti
alle cui fatiche, ora, persistono in ozio. Poiché pecchiamo
gravemente se non amiamo ciò che gli altri fanno di bene, ma non
traiamo motivo di ricompensa se, per quanto sta in noi, non imitiamo
ciò che amiamo. Perciò alle persone benevole bisogna dire che se
non si affrettano per nulla ad imitare il bene che approvano con la
loro lode, a loro piace la santità delle virtù come agli stolti
spettatori piace la vanità delle arti ludiche. Costoro infatti
esaltano coi loro applausi le imprese di aurighi e di attori e
tuttavia non desiderano essere tali quali vedono essere coloro che
lodano. Li ammirano per ciò che hanno compiuto di piacevole,
tuttavia evitano di piacere allo stesso modo.
Bisogna
dire ai benevoli che quando guardano alle azioni del prossimo
rientrino nel proprio cuore e non si vantino di azioni altrui; non
lodino il bene mentre rifiutano di compierlo, pöiché tanto più
gravemente devono essere colpiti dall’estremo castigo coloro a cui
è piaciuto ciò che non hanno voluto imitare. Bisogna ammonire gli
invidiosi a valutare attentamente la cecità di coloro che vengono
meno per il successo degli altri e si struggono per la gioia
altrui. Quanto grande è l’infelicità di coloro che diventano
peggiori perché vedono migliorare gli altri e, mentre guardano
aumentare la fortuna altrui, stretti dall’afflizione in se stessi,
muoiono per la peste che hanno nel loro cuore. Che cosa ci può
essere di più infelice di costoro che la pena per la constatazione
della felicità altrui rende più cattivi? Invero, se amassero i beni
degli altri che non possono avere per sé, li farebbero propri.
Poiché essi sono tutti stabiliti nella fede, come molte membra in un
solo corpo, le quali sono certo diverse per la diversità delle
funzioni, ma per il fatto stesso della loro corrispondenza reciproca
diventano una cosa sola (cf. 1 Cor. 12, 12-30). Per cui avviene che
il piede vede attraverso l’occhio e gli occhi camminano per mezzo
dei piedi, l’ascolto delle orecchie serve alla bocca e la lingua
che sta in bocca concorre con gli orecchi alla propria funzione; il
ventre sostiene l’attività delle mani e le mani lavorano per il
ventre. Pertanto, è dalla stessa condizione del corpo, che riceviamo
ciò che dobbiamo conservare nel nostro agire. E così è troppo
vergognoso non imitare ciò che siamo. È certamente nostro ciò che
amiamo negli altri anche se non possiamo imitarlo; e ciò che è
amato in noi diviene di chi l’ama. Perciò gli invidiosi misurino
quanto è grande la potenza della carità che rende nostre senza
fatica le opere della fatica altrui. E così bisogna dire agli
invidiosi che quando non si custodiscono per nulla dall’invidia,
sprofondano nella malizia antica dello scaltro nemico, perché di lui
è scritto: Per
l’invidia del diavolo la morte entrò nel mondo (Sap.
2, 24). Infatti, poiché egli aveva perduto il cielo, lo invidiò
all’uomo appena creato, ed essendosi perduto lui volle accrescere
la sua perdizione perdendo ancora altri. Bisogna ammonire gli
invidiosi a rendersi conto di quanto siano grandi le cadute per le
quali cresce la rovina sotto cui essi giacciono, poiché sé non
gettano via l’invidia dal cuore precipitano in una aperta iniquità
di opere. Se infatti Caino non avesse invidiato il sacrificio gradito
[a Dio] del fratello, non sarebbe giunto a spegnere la sua vita.
Perciò è scritto: E
il Signore riguardò ad Abele e ai suoi doni; ma
non riguardò a Caino e ai suoi doni. E
Caino si adirò fortemente e gli cadde il volto (Gen.
4, 4). E così, l’invidia per il sacrificio fu il germe del
fratricidio, ed egli tagliò via chi non sopportava fosse migliore di
lui, affinché non fosse più in alcun modo. Bisogna dire agli
invidiosi che mentre si consumano interiormente per questa peste essi
uccidono anche ogni altra cosa buona sembrino avere dentro di sé.
Perciò è scritto: La
sanità del cuore è vita della carne, l’invidia
è putredine delle ossa (Prov.
14, 30). Che cosa si intende per carne se
non le azioni molli e deboli, e per ossa se
non quelle forti? Eppure accade spesso che alcuni i quali appaiono
deboli in alcune loro azioni, hanno l’innocenza del cuore e altri
invece si comportino in maniera forte agli occhi degli uomini e
tuttavia nei confronti del bene altrui si consumino nell’intimo,
per la peste dell’invidia. Pertanto è ben detto: La
sanità del cuore è vita della carne, perché
se si custodisce l’innocenza del cuore, anche se l’agire esterno
talvolta è debole, prima o poi si irrobustisce. E si aggiunge
correttamente: L’invidia
è putredine delle ossa, perché
per il vizio dell’invidia, agli occhi di Dio vanno perdute anche
quelle azioni che agli occhi degli uomini sembrano da forti; infatti
l’imputridire delle ossa per l’invidia significa il deperire di
certe cose anche forti.
11 —
Come si devono ammonire i semplici e gli insinceri
Diverso
è il modo di ammonire i semplici e gli insinceri.
I
semplici bisogna lodarli perché si studino di non dire mai il falso,
ma bisogna ammonirli che sappiano ogni tanto tacere il vero. Come il
falso nuoce sempre a chi lo dice, così talvolta ad alcuni nuoce
ascoltare la verità. Perciò il Signore, temperando il suo discorso
col silenzio, davanti ai discepoli, dice: Ho molte cose da
dirvi ma ora non potete portarle (Gv. 16, 12). Pertanto
bisogna ammonire i semplici a dire la verità badando sempre
all’utilità allo stesso modo che sempre utilmente evitano
l’inganno. Bisogna ammonirli ad aggiungere al bene della semplicità
quello della prudenza, affinché abbiano quella sicurezza che viene
dalla semplicità senza perdere quell’attenzione propria della
prudenza. Perciò infatti dice il dottore delle genti: Voglio
che voi siate sapienti nel bene ma semplici nel male (Rom.
16, 19). Perciò la Verità stessa ammonisce i suoi eletti
dicendo: Siate prudenti come serpenti e semplici come
colombe (Mt. 10, 16). Perché evidentemente nel cuore
degli eletti l’astuzia del serpente deve rendere acuta la
semplicità della colomba, e insieme la semplicità della colomba
deve temperare l’astuzia del serpente, affinché essi non si
lascino sedurre ad eccedere nell’esercizio della prudenza né, per
la semplicità, divengano torpidi nell’uso dell’intelligenza.
Al
contrario, bisogna ammonire gli insinceri a riconoscere quanto sia
grave colpa la fatica di quella doppiezza, che essi sostengono.
Infatti, per il timore di essere scoperti cercano sempre
giustificazioni cattive e sono sempre agitati da sospetti che li
rendono paurosi. Ma niente è più sicuro della purezza, a propria
difesa; niente più facile a dirsi della verità. Infatti il cuore
costretto a proteggere la propria falsità dura una pesante fatica, e
perciò è scritto: La
fatica delle loro labbra li ricoprirà (Sal.
139, 10). La fatica, che ora riempie e soddisfa,
allora ricoprirà perché
opprimerà con atroce retribuzione l’animo di colui che ora tira
fuori d’impaccio a prezzo di una leggera inquietudine. Perciò si
dice in Geremia: Hanno
insegnato alla loro lingua a dire la menzogna, si
sono affaticati per commettere l’iniquità (Ger.
9, 5), come se dicesse apertamente: Coloro che potevano essere amici
della verità senza fatica, si affaticano per peccare e mentre
rifiutano di vivere semplicemente, si adoperano con tutte le loro
forze per morire. Infatti, non di rado, se sono colti in fallo,
mentre rifuggono dal farsi riconoscere quali sono, si nascondono
sotto il velo della falsità e si affaccendano per giustificare ciò
in cui stanno peccando e che è già apertamente visibile; così che
spesso colui che ha cura di correggere le loro colpe, ingannato dalle
nebbie di questa aspersione di falsità, ha quasi l’impressione di
aver perduto di vista ciò che ormai teneva per certo a loro
riguardo. Perciò all’anima che pecca e si giustifica si dice, per
mezzo del profeta che rettamente la rappresenta nella Giudea: Là
ebbe la sua tana il riccio (Is.
34, 15). Col nome di riccio si indica la doppiezza di una mente
impura che si difende con astuzia, e ciò chiaramente perché il
riccio, nel momento in cui viene preso, mostra tutto intero il corpo
e si vedono capo e piedi, ma appena è stato preso si raccoglie tutto
in una palla, tira dentro i piedi, nasconde il capo e di colpo
scompare tutto nella mano di chi lo tiene, mentre appena prima si
mostrava tutto intero. Così certamente sono le anime insincere
quando vengono sorprese nelle loro prevaricazioni. Infatti si vede il
capo del riccio perché si vede quando il peccatore incomincia ad
accostarsi alla colpa; si vedono i piedi del riccio perché si
conoscono le tracce del peccato commesso. E tuttavia, con l’addurre
subito le sue giustificazioni, l’anima insincera tira dentro i
piedi, cioè nasconde tutte le tracce della sua iniquità; sottrae il
capo, perché con le sue mirabili difese dimostra di non avere
neppure dato inizio a qualcosa di male, e resta come una palla in
mano di chi lo tiene. Il quale improvvisamente non si ritrova più
tutto quanto aveva già compreso di lui poiché ha di fronte un
peccatore avvolto e chiuso nel segreto della sua coscienza; e lui
stesso, che lo aveva veduto tutto intero nel coglierlo sul fatto,
tratto in inganno dai raggiri di una maliziosa difesa, ancora tutto
intero lo ignora. Il riccio dunque ha una tana nei reprobi, esso che
raccogliendosi in se stesso nasconde le doppiezze di un animo
malizioso nelle tenebre della giustificazione. Ascoltino gli
insinceri ciò che è scritto: Chi
cammina nella semplicità, cammina
con fiducia (Prov.
10.9); poiché la semplicità dell’azione è fiducia di una
grande sicurezza. Ascoltino ciò che è detto dalla bocca del
sapiente: Lo
Spirito Santo fugge una dottrina di falsità (Sap.
1, 5). Ascoltino ciò che ancora è offerto dalla testimonianza della
Scrittura: La
sua conversazione è coi semplici (Prov.
3, 32). Infatti il conversare di Dio è il rivelare i suoi
misteri ai cuori degli uomini attraverso l’illuminazione della sua
presenza. Pertanto si dice che conversa coi semplici perché col
raggio della sua visita illumina sui misteri celesti i loro cuori che
non sono oscurati da alcun’ombra di doppiezza. Il peccato delle
persone doppie, poi, è un peccato speciale, perché esse ingannano
gli altri con l’azione doppia e perversa e insieme si gloriano come
fossero più astuti di loro; e poiché non considerano la severità
della retribuzione che riceveranno, esultano miseramente del proprio
danno. Ma ascoltino come sopra di loro il profeta Sofonia stenda la
forza della punizione divina, dicendo: Ecco, viene il giorno del
Signore, grande e terribile, giorno d’ira quel giorno, giorno di
tenebre e di caligine, giorno di nebbia e di turbine, giorno di suono
di tromba su tutte le città fortificate e su tutti gli angoli
elevati (cf. Sof. 1, 15-16; Gioe. 2, 2). Infatti, che cosa si intende
per città fortificate se non gli animi sospettosi e sempre
circondati di false giustificazioni, i quali ogni volta che viene
rimproverata la loro colpa respingono da sé i dardi della verità? E
che cosa è indicato con angoli elevati (poiché negli angoli c’è
sempre una doppia parete) se non i cuori insinceri? I quali mentre
fuggono la semplicità della verità, per la stessa perversità della
loro doppiezza, in qualche modo si ripiegano e, quel che è peggio,
per la loro stessa colpa di insincerità si esaltano nei loro
pensieri come avessero raggiunto l’apice della astuzia. Dunque il
giorno del Signore, pieno di vendetta e di castigo, verrà sulle
città fortificate e sugli angoli elevati, perché l’ira
dell’ultimo giudizio distruggerà i cuori umani chiusi dalle difese
contro la verità, e scioglierà le pieghe della loro doppiezza.
Allora infatti cadranno le città fortificate perché saranno
condannati gli animi che non si sono lasciati penetrare da Dio.
Allora crolleranno gli angoli elevati perché i cuori che si
edificano, attraverso l’astuzia della falsità, saranno atterrati
dalla sentenza di giustizia.
12
— Come si devono ammonire i sani e i malati
Diverso
è il modo di ammonire i sani e i malati. Bisogna ammonire i sani a
esercitare la salute del corpo a vantaggio della salute dello spirito
perché, se piegano ad un uso malizioso la grazia della buona salute
che hanno ricevuto, proprio per questo dono non diventino peggiori e
meritino poi supplizi tanto più gravi quanto più ora essi non
temono di usare male dei più larghi beni di Dio. Bisogna ammonire i
sani che non disprezzino l’occasione di una salute da meritare per
l’eternità, poiché è scritto: Ecco, ora
è il tempo gradito, ecco
ora il tempo della salvezza (2
Cor. 6, 2). Bisogna ammonirli che, se non vogliono piacere a Dio
quando possono, può accadere che non lo possano quando lo vorranno
troppo tardi. Da ciò infatti viene che poi la Sapienza abbandona
coloro che prima ha chiamato a lungo nel loro rifiuto, dicendo: Vi
ho chiamato e avete detto di no; ho
teso la mia mano e nessuno ha guardato; avete
disprezzato ogni mio consiglio e avete trascurato i miei
rimproveri; anch’io
riderò nella vostra fine e vi schernirò quando vi accadrà ciò che
temevate (Prov.
1, 24 ss.). E ancora: Allora
mi invocheranno e non ascolterò; si
leveranno la mattina e non mi troveranno (Prov.
1, 28). Pertanto, quando si disprezzala salute del corpo ricevuta per
operare il bene, ci si rende conto di quale grande dono fosse, quando
la si è perduta; e alla fine si cerca senza frutto ciò che,
concesso al momento adatto, non è stato utilmente posseduto. Perciò
è ben detto ancora, per mezzo di Salomone: Non
consegnare ad altri il tuo onore e i tuoi anni al crudele, perché
non si riempiano gli stranieri con la tua forza e il frutto delle tue
fatiche finisca in casa altrui, e
negli ultimi giorni tu pianga, quando
avrai consumato le tue carni e il tuo corpo (Prov.
5, 9 ss.). Chi sono infatti gli stranieri, per noi, se non gli
spiriti maligni separati dalla sorte della patria celeste? E qual
è il nostro onore se non l’essere creati a immagine e
somiglianza del nostro Creatore, nonostante che siamo fatti di corpo
e di fango? O chi altri è il crudele se non quell’angelo apostata,
il quale con la sua superbia colpi se stesso con la pena di morte e,
ormai perduto, non volle risparmiare la morte al genere umano? E
così, consegna il suo onore agli stranieri colui che, fatto a
immagine e somiglianza di Dio, amministra il tempo della sua vita coi
piaceri che sono propri degli spiriti maligni. Consegna i suoi anni
al crudele, chi dissipa il tempo di vita ricevuto, secondo la volontà
dell’avversario signore del male. E qui bene si aggiunge: Perché
non si riempiano gli stranieri della tua forza, e
il frutto delle tue fatiche finisca in casa altrui. Infatti
chiunque si affatica, con la forza del corpo che ha ricevuto e la
sapienza della mente che gli è stata assegnata, non a esercitare la
virtù, ma a soddisfare i vizi, non accresce la propria casa con le
sue forze, ma certamente — praticando sia la lussuria sia la
superbia così da accrescere, con l’aggiunta di se stesso, il
numero dei perduti — moltiplica le dimore degli stranieri, cioè le
azioni degli spiriti immondi. E poi opportunamente si aggiunge: E
tu pianga, negli
ultimi giorni, quando
avrai consumato le tue carni e il tuo corpo. Spesso,
infatti, la salute del corpo che si è ricevuta viene dissipata
coi vizi; ma quando improvvisamente è sottratta, quando la carne
viene afflitta da tormenti, quando l’anima già è incalzata ad
uscire, si ricerca, quasi per vivere bene, quella salute perduta che
si è goduta a lungo, male. E allora si lamentano gli uomini di non
aver voluto servire Dio, quando ormai non possono più servire, per
rimediare ai danni della propria negligenza. Per cui altrove è
detto: Quando
li uccideva, allora
lo cercavano (Sal.
77, 34). Al contrario, bisogna ammonire i malati a sentirsi
tanto più figli di Dio quanto più li castigano i colpi della
correzione. Infatti, se Egli non avesse disposto di dare l’eredità
a coloro che corregge, non si curerebbe di istruirli attraverso le
sofferenze. Perciò il Signore dice a Giovanni per mezzo
dell’angelo: Io
rimprovero e castigo quelli che amo (Ap.
3, 19). Perciò ancora è scritto: Figlio
mio, non
trascurare la correzione del Signore, non
stancarti di essere rimproverato da lui. Poiché
Dio castiga chi ama e colpisce ogni figlio che accoglie (Ebr.
12, 5-6). Perciò il salmista dice: Molte
sono le tribolazioni dei giusti, ma
da tutte li ha liberati il Signore (Sal.
33, 20). Perciò pure il santo Giobbe dice, gridando nel dolore: Se
sarò giusto non leverò la testa, sazio
di tribolazione e di miseria (Giob.
10, 15). Bisogna dire ai malati che, se credono che sia loro la
patria celeste, è necessario che patiscano fatiche in questa come in
terra straniera. È per questo infatti che, per essere poste senza
rumore di martelli nella costruzione del tempio del Signore, le
pietre vennero squadrate di fuori; per significare cioè che ora noi
siamo percossi dalle sferze di fuori, per essere poi posti dentro,
nel tempio di Dio, senza i colpi della correzione, affinché tutto
ciò che in noi è superfluo ora, lo tagli via la battitura, e
allora, nell’edificio, ci tenga uniti la sola concordia della
carità.
Bisogna
ammonire i malati a considerare la durezza dei colpi con cui vengono
castigati i figli carnali, e solamente in vista di eredità terrene.
E perché allora ci è pesante la pena della correzione divina, per
la quale si riceve una eredità che non andrà mai perduta e si
evitano supplizi che dureranno sempre? Perciò infatti dice
Paolo: Del
resto, noi
abbiamo avuto come educatori i nostri padri secondo la carne, e
rispettavamo; non
obbediremo molto di pia al padre degli spiriti e vivremo? Quelli
invero ci educavano secondo la loro volontà e per un tempo breve, ma
questo ci educa per ciò che è utile a ricevere la sua
santificazione (Ebr.
12, 9-10). Bisogna ammonire i malati a considerare quanta salute
del cuore sia la sofferenza del corpo, la quale richiama la mente
alla conoscenza di sé e restituisce il ricordo della propria
debolezza, che spesso la salute rigetta; e così lo spirito, portato
fuori di sé a gonfiarsi di orgoglio, si ricorda a quale condizione è
soggetto proprio per quella carne colpita che deve sostenere. E ciò
è rettamente rappresentato da Balaam (se effettivamente avesse
voluto seguire obbediente la voce di Dio) proprio in quell’essere
ritardato nel suo cammino. Infatti Balaam vuole giungere alla mèta
che si è prefisso ma l’animale che egli guida ostacola il suo
desiderio (cf. Num. 22, 23 ss.). In effetti, l’asina trattenuta
dalla proibizione dell’angelo vede ciò che lo spirito dell’uomo
non riesce a vedere, poiché spesso la carne resa tarda dalla
sofferenza, con la percossa che patisce indica Dio allo spirito,
mentre lo stesso spirito che governa la carne non lo vedeva; e così
la carne [sofferente] trattiene l’ansietà dello spirito di colui
che brama di progredire in questo modo, come di chi sta percorrendo
un cammino, finché gli illumina l’invisibile che gli si oppone.
Per ciò anche, per mezzo di Pietro, è ben detto: Ricevette
la correzione della sua follia: un
muto giumento parlando con voce umana impedì la stoltezza del
profeta (2 Pt.
2, 15). E avviene che un uomo folle sia corretto da un giumento
muto, quando una mente esaltata, si ricorda per l’afflizione della
carne di quel bene dell’umiltà che avrebbe dovuto custodire. Ma
Balaam non ottenne il dono di questa correzione proprio perché,
andando per maledire, mutò le parole ma non la mente. Bisogna
ammonire i malati a considerare quale grande dono sia la sofferenza
del corpo, che scioglie i peccati commessi e impedisce quelli che si
sarebbero potuti compiere e, prodotta da piaghe esterne, infligge
ferite di penitenza all’animo colpito. Perciò è scritto: Il
livido della ferita porta via il male, e
così le piaghe nei recessi del ventre (Prov.
20, 30). Infatti il livido della ferita porta via il male perché
il dolore delle percosse scioglie i pensieri e le azioni inique. Con
la parola ventre si
suole intendere la mente perché, come il ventre consuma i cibi, la
mente meditando scioglie le preoccupazioni. E che la mente sia detta
ventre, lo insegna il proverbio: Lo
spirito dell’uomo è lampada del Signore, che
scruta tutti i recessi del ventre (Prov.
20, 27); come se dicesse: l’illuminazione del soffio divino, quando
viene nella mente dell’uomo, illuminandola, la mostra a se stessa,
essa che prima della venuta dello Spirito Santo poteva portare
pensieri cattivi e non sapeva pensare. Pertanto, il livido della
ferita porta via il male e così pure le piaghe nei recessi del
ventre, perché quando siamo percossi all’esterno, veniamo
richiamati, silenziosi e afflitti, al ricordo dei nostri peccati, e
riportiamo davanti ai nostri occhi tutto quanto abbiamo compiuto di
male; e ciò che patiamo di fuori ci procura maggiormente dolore
nell’intimo per ciò che abbiamo fatto. Quindi avviene che più
abbondantemente che le ferite aperte del corpo, ci lavi la piaga
nascosta del ventre, perché la ferita nascosta del dolore sana la
malizia del cattivo operare. Bisogna ammonire gli ammalati a
conservare la virtù della pazienza, a considerare incessantemente
quanto grandi mali il nostro Redentore sopportò da coloro che aveva
creato. Egli sostenne i tanto volgari oltraggi della derisione e
degli schemi, lui che rapisce ogni giorno le anime dei prigionieri
dalla mano dell’antico nemico, ricevette gli schiaffi degli
insultatori; lui che ci lava con l’acqua della salvezza non
ritrasse la faccia dagli sputi dei perfidi; lui che con la sua
intercessione ci libera dagli eterni supplizi, tollerò in silenzio
le battiture; lui che ci assegna eterni onori tra i cori degli
angeli, sopportò i pugni; lui che ci salva dalle punture dei
peccati, non rifiutò di sottoporre il capo alle spine; lui che ci
inebria in eterno di dolcezza, ricevette l’amarezza del fiele nella
sua sete; lui — che pure essendo uguale al Padre per la divinità,
lo adorò per noi — adorato per irrisione, tacque; lui che prepara
la vita ai morti, essendo lui stesso la vita, giunse fino a morire.
Perché allora si giudica crudele che l’uomo sopporti castighi di
Dio in cambio dei suoi mali, quando Dio ha sopportato mali tanto
grandi dagli uomini in cambio dei suoi beni? O chi può esserci che,
sano di mente, sia ingrato per essere stato colpito, se colui che
visse in questo mondo, senza peccato, non se ne andò da questo mondo
senza castigo?
13
— Come si devono ammonire coloro che temono i castighi e
coloro che li disprezzano
Diverso
è il modo di ammonire coloro che temono i castighi, e perciò
conducono una vita innocente, e coloro tanto induriti nell’iniquità
che neppure i castighi li correggono. A coloro che temono i castighi
bisogna dire che né desiderino come gran cosa i beni temporali dei
quali vedono godere anche i cattivi; né fuggano come intollerabili i
mali presenti, poiché non ignorano che in questo mondo spesso essi
colpiscono anche i buoni. Bisogna ammonirli, se desiderano veramente
essere privi di mali, ad avere orrore degli eterni supplizi; non
restino però in questo timore dei supplizi, ma nutrendosi di carità
crescano fino alla grazia dell’amore, poiché sta scritto: La
carità perfetta caccia il timore (1
Gv. 4, 18). Ed è ancora scritto: Non
avete ricevuto spirito di servitù ancora per il timore, ma
spirito di adozione a figli nel quale gridiamo: Abbà, Padre (Rom.
8, 15). Perciò il medesimo maestro dice ancora: Dove
è lo Spirito del Signore, là
c’è la libertà (2
Cor. 3, 17). Dunque, se è il terrore della pena che trattiene dal
commettere il male, non è certo la libertà di spirito a possedere
l’animo di colui che è atterrito. Infatti, se non temesse la pena
non c’è dubbio che commetterebbe la colpa. E così il cuore,
legato dalla schiavitù della paura, ignora la grazia della libertà,
poiché il bene si deve amare per se stesso e non sono le pene che
devono spingere a compierlo. Infatti, chi fa il bene perché teme il
male dei castighi, vorrebbe solo che non esistesse ciò che teme per
potere osare di compiere ciò che è lecito. Da cui risulta più
chiaramente che si perde l’innocenza davanti a Dio poiché si pecca
di desiderio davanti ai suoi occhi. Al contrario, coloro che neppure
i castighi trattengono dall’iniquità, vanno colpiti con rimprovero
tanto più aspro quanto maggiore è l’insensibilità del loro
indurimento. Spesso infatti occorre respingerli, pur senza disprezzo,
e lasciare che la disperazione incuta il terrore e quindi subito
l’ammonizione li riporti alla speranza. Così, bisogna pronunciare
severamente contro di loro le sentenze divine, perché siano
richiamati alla coscienza di sé dalla considerazione del supplizio
eterno. Ascoltino che si è compiuto contro di loro ciò che sta
scritto: Se
pestassi lo stolto nel mortaio come grani d’orzo sotto i colpi del
pestello, non
verrebbe tolta da lui la sua stoltezza (Prov.
27, 22). Contro costoro il profeta si volge con lamenti al
Signore, dicendo: Li
hai stritolati ed hanno rifiutato di accogliere la correzione (Ger.
5, 3). Ed è ciò che dice il Signore: Ho
ucciso e distrutto questo popolo e tuttavia non si sono ritratti
dalle loro vie (Ger.
15, 7). E
poi di nuovo dice: Il
popolo non è ritornato a colui che lo percuote (Is.
9, 13). Quindi, con la voce dei castigatori, il profeta si lamenta
dicendo: Abbiamo
curato Babilonia ma non è guarita (Ger.
51, 9). Si intende che Babilonia viene curata e tuttavia non
guarisce, quando il cuore turbato dal cattivo operare ode le parole
della correzione, ne riceve i castighi e tuttavia trascura di
ritornare al retto cammino della salvezza. Perciò il Signore
rimprovera il popolo di Israele prigioniero e tuttavia non convertito
dalla sua iniquità, dicendo: La
casa di Israele si è mutata per me in scoria: tutti
costoro sono rame stagno ferro e piombo dentro la fornace (Ez.
22, 18). Come se dicesse apertamente: Volli purificarli col
fuoco della tribolazione e cercai di farli diventare oro e argento,
ma mi sono riusciti rame stagno ferro e piombo, perché anche nella
tribolazione si sono buttati nei vizi e non nella virtù. Rame,
perché quando lo si percuote dà suono più ampio degli altri
metalli; pertanto colui che sotto i colpi che riceve rompe nel suono
della mormorazione risulta rame dentro la fornace. Lo stagno, invece,
trattato con arte, prende l’aspetto dell’argento e pertanto, chi
nella tribolazione non si astiene dal vizio della simulazione diventa
stagno nella fornace. Chi insidia alla vita del prossimo si serve del
ferro, e così è ferro nella fornace chi, pure nella tribolazione,
non perde la malizia di nuocere. E c’è anche il piombo che è il
più pesante degli altri metalli; e nella fornace si rivela piombo
colui che è tanto oppresso dal peso del suo peccato che, anche posto
nella tribolazione non si solleva dai suoi desideri terreni.
Perciò ancora è scritto: Con
molta fatica si sudò e non usci da essa tutta la sua
ruggine, neppure
col fuoco (Ez.
24, 12). Cioè, ci invia il fuoco della tribolazione per purgarci
dalla ruggine dei vizi, che è in noi; ma non perdiamo la
ruggine neppure col fuoco quando, pure tra i castighi, non ci
asteniamo dal vizio. Perciò il profeta dice ancora: Invano
li ha fusi il fonditore: le
loro malizie non si sono consumate (Ger.
6, 29). Ma bisogna anche sapere che spesso, quando persistono a
non correggersi nella durezza dei castighi, bisogna blandirli con una
dolce ammonizione, perché non di rado sono le parole miti e le
carezze che trattengono dalle azioni inique quelli che non si
lasciano correggere dalle punizioni, come anche spesso certi malati,
che una forte bevanda medicinale non riesce a curare, vengono
risanati da acqua tiepida; e alcune ferite che non possono curarsi
incidendo, guariscono con impacchi di olio. Così il duro diamante
che non resta minimamente scalfito dal ferro, diviene molle nel
leggero sangue di capri.
14
— Come
bisogna ammonire i taciturni e i chiacchieroni
Diverso
è il modo di ammonire coloro che tacciono troppo e coloro che sono
sempre pronti a parlare molto. Bisogna suggerire a coloro che parlano
troppo poco che, mentre vogliono fuggire — in modo poco avvertito —
certi vizi, restano nascostamente implicati in vizi peggiori. Spesso
infatti, frenando la lingua oltre misura, devono portare in cuore un
eccessivo peso di parole, e così, tanto più i pensieri ribollono
nella mente quanto più li costringe la custodia forzata di un
silenzio privo di discernimento, e si espandono tanto più ampiamente
quanto più si giudicano al sicuro perché non si mostrano fuori, a
chi potrebbe riprenderli. Perciò spesso la mente monta in superbia e
disprezza come deboli coloro che sente parlare; ma mentre chiude la
bocca del suo corpo, non si rende conto di quanto si apre ai vizi col
suo insuperbire. Infatti comprime la lingua e innalza il pensiero e
mentre non considera affatto la sua malizia, dentro di sé accusa
tutti tanto più liberamente quanto più lo fa in segreto. Perciò
bisogna ammonire coloro che tacciono troppo, ad adoperarsi con
sollecitudine a conoscere non solo come si debbano mostrare al di
fuori, ma anche come si debbano disporre interiormente così da
temere di più l’occulto giudizio divino in seguito ai loro
pensieri che il rimprovero del prossimo in seguito ai loro discorsi.
Infatti è scritto: Figlio
mio, fa’
attenzione alla mia sapienza e piega l’orecchio alla mia prudenza
per custodire i pensieri (Prov.
5, 1). Poiché niente in noi è più instabile del cuore, che si
allontana da noi ogni qual volta è trascinato via sull’onda dei
cattivi pensieri. Perciò infatti il salmista dice: Il
mio cuore mi ha abbandonato (Sal.
39, 13). E perciò, ritornando in se stesso dice: Il
tuo servo ha trovato il suo cuore per pregarti (2
Sam. 7, 27). Pertanto, il cuore solito a disperdersi, si ritrova
quando il pensiero è frenato dalla vigilanza. Spesso poi, quando
coloro che tacciono troppo patiscono qualche ingiustizia, cadono in
un dolore tanto più aspro quanto meno parlano del dolore che devono
sopportare; perché se dicessero tranquillamente la sofferenza che è
stata loro inflitta, il dolore uscirebbe dalla coscienza. Infatti le
ferite chiuse fanno soffrire di più e quando il pus che infiamma
dentro viene espulso, il dolore si apre alla guarigione. Pertanto,
coloro che tacciono più del conveniente devono sapere che non è
bene aumentare la forza del dolore tra le sofferenze che sopportano,
per il fatto di trattenersi dal parlare. Bisogna ammonirli a non
tacere al prossimo, se lo amano come se stessi, ciò di cui
giustamente lo rimproverano, giacché con la medicina della parola si
concorre alla salute di ambedue: si frena dalla cattiva azione colui
che la compie (cf. Lev. 19, 17), e con l’apertura della ferita si
allevia la fiamma del dolore di colui che la sostiene. Infatti,
coloro che si volgono a guardare i peccati del prossimo e poi
trattengono la lingua nel silenzio, è come se, viste delle ferite,
sottraessero ad esse il medicamento, e divengono doppiamente causa di
morte in quanto non hanno voluto curare l’infezione come avrebbero
potuto. Dunque, bisogna frenare la lingua con discrezione e non
legarla indissolubilmente, poiché sta scritto: Il
sapiente tacerà fino al tempo opportuno (Sir.
20, 7); nel senso cioè che, quando vede l’opportunità,
tralasciata la censura del silenzio, dicendo quanto è conveniente si
adopera per l’utilità. E ancora sta scritto: C’è
un tempo per tacere e un tempo per parlare (Qo.
3, 7). Cioè bisogna calcolare con discrezione l’alternarsi dei
momenti diversi, perché la lingua non scorra inutilmente sulle
parole quando dovrebbe invece trattenersi; o non si trattenga
pigramente quando potrebbe utilmente parlare. Ciò che ben considera
il salmista dicendo: Poni, Signore, una
custodia alla mia bocca e una porta intorno alle mie labbra (Sal.
140, 3). Infatti non chiede che gli sia posta una parete davanti
alla bocca, ma una porta che, evidentemente, si apre e si chiude;
perciò anche noi dobbiamo imparare con prudenza il momento opportuno
perché la voce apra la bocca con discrezione, e ancora il momento
opportuno perché il silenzio la chiuda. Al contrario, bisogna
ammonire coloro che sono sempre pronti a parlare molto, che siano
pronti a rendersi conto di quanto vengon meno alla loro rettitudine
col diffondersi in tante parole. Giacché la mente umana è come
l’acqua, che quando è trattenuta si raccoglie verso l’alto
poiché tende a risalire là di dove è scesa, ma lasciata andare
viene meno perché si sparge inutilmente nei luoghi più bassi.
Infatti, ogni volta che la mente si dissipa in vane parole fuori
dalla censura del proprio silenzio, è condotta fuori di sé come per
tanti rivoletti. Perciò non è più capace di rientrare in se
stessa, alla conoscenza di sé, perché dispersa nelle molte parole
si chiude fuori dal nascondimento dell’intima meditazione; e si
scopre tutta alle ferite del nemico insidioso perché nessuna
protezione la circonda e la custodisce. Perciò è scritto: Come
una città aperta e senza giro di mura, così
è l’uomo che non può trattenere il suo animo quando parla (Prov.
25, 28); giacché la città della mente non possiede il muro del
silenzio ed è aperta alle frecce del nemico, e quando si butta fuori
di se stessa attraverso le parole, si mostra tutta all’avversario.
Ed egli la espugna senza fatica tanto più in quanto anche lei
stessa, che viene vinta, combatte contro di sé col suo continuo
parlare. Ma per lo più, poiché la mente negligente è spinta a
cadere per gradi, se trascuriamo di guardarci dalle parole oziose,
giungiamo a quelle dannose; così che, prima si gode a parlare degli
altri, poi si morde la vita di coloro di cui si parla, con la
detrazione, e infine la lingua rompe fino alle aperte offese. E di
qui si seminano le provocazioni, nascono le risse, si accendono le
fiamme dell’odio, si estingue la pace dei cuori. Perciò, bene è
detto per mezzo di Salomone: Chi
lascia andare l’acqua, dà
principio alle contese (Prov.
17, 14). Lasciare andare l’acqua significa abbandonare la
lingua allo sproloquio. Al contrario, è detto ancora in senso
buono: Le
parole che procedono dalla bocca dell’uomo sono
acque profonde (Prov.
18, 4). Pertanto, chi lascia andare l’acqua dà principio alle
contese perché chi non frena la lingua dissipa la concordia. E
perciò in senso inverso è detto: Chi
impone silenzio allo stolto, mitiga
le ire (Prov.
26, 10). Che poi colui il quale è dedito alle chiacchiere non
possa mantenere la rettitudine della giustizia, lo attesta il profeta
che dice: L’uomo
linguacciuto non va diritto sulla terra (Sal.
139, 12). Perciò, pure Salomone dice ancora: Nel
molto parlare non mancherà il peccato (Prov.
10, 19). Perciò Isaia dice: Il
silenzio è coltivazione della giustizia (Is.
32, 17), significando chiaramente che la giustizia dell’animo
resta desolata se non la risparmia il parlare smodato. Perciò
Giacomo dice: Se
qualcuno pensa di essere religioso e non tiene a freno la sua lingua
ma seduce il suo cuore, la
sua religione è vana (Giac.
1, 26). Perciò dice ancora: Ognuno
sia pronto ad ascoltare ma lento a parlare (Giac.
1, 19). E di nuovo, definendo la potenza della lingua, dice: È
un male irrefrenabile, piena
di veleno mortifero (Giac.
3, 8). Perciò la Verità stessa ci ammonisce dicendo: Di
ogni parola oziosa che avranno detto, gli
uomini dovranno rendere conto il giorno del giudizio (Mt.
12, 36). Ed è oziosa ogni parola che non sia giustificata da
una ragionevole necessità o dall’intenzione di una pia utilità.
Se dunque si esige il rendiconto di una parola oziosa, pensiamo quale
pena attenda il molto parlare in cui si pecca anche con parole che
arrecano danno.
15
— Come si devono ammonire i pigri e i precipitosi
Diverso
è il modo di ammonire i pigri e i precipitosi. I primi bisogna
persuaderli a non perdere quei beni di cui differiscono
l’adempimento; gli altri invece bisogna ammonirli che, col
prevenire incautamente, per la loro fretta, il tempo di fare certe
opere buone, rischiano di mutarne i meriti. E così bisogna inculcare
nei pigri che ciò che speso non vogliamo fare al momento opportuno
mentre lo possiamo, poco dopo, quando lo vorremmo, non ne siamo più
in grado; poiché la stessa pigrizia della mente, se non viene accesa
e stimolata da un ardore appropriato, viene uccisa del tutto, quanto
al desiderio delle buone opere, da un torpore sotterraneo e
crescente. Perciò è detto apertamente per mezzo di Salomone: La
pigrizia fa venire sonno (Prov.
19, 15). Il pigro infatti, nella rettitudine del suo sentire, si
può dire che veglia, nonostante il torpore del suo non far nulla; ma
si dice che la pigrizia fa venire sonno, perché, se si cessa dalla
pratica del bene operare a poco a poco si perde anche la vigilanza
del retto sentire. Perciò giustamente prosegue: E
l’anima indolente soffrirà la fame (Prov.
19, 15). Infatti, poiché non si dirige verso l’alto col suo
sforzo, con la trascuratezza di sé, si espande verso il basso, nei
suoi desideri; e non essendo costretta dal vigore di interessi
elevati, è ferita dalla fame di una bassa cupidigia, così che
quanto più trascura di legarsi alla disciplina tanto più si
dissipa, affamata, nei desideri dei piaceri. Perciò ancora dal
medesimo Salomone è scritto: Ogni ozioso vive nei desideri (cf.
Prov. 21, 26). Perciò la Verità stessa ci annuncia che quando uno
spirito immondo è uscito da una casa questa è pura, ma se quando
quello ritorna essa è vuota, viene poi occupata da spiriti tanto più
numerosi (cf. Mt. 12, 44). Spesso il pigro, mentre trascura di fare
le cose necessarie, alcune se le immagina difficili e altre le teme
infondatamente; e trovata la scusa con cui giustificare il suo
timore, pretende di dimostrare che il suo dormire in ozio non è
ingiustificato. A lui bene viene detto per mezzo di Salomone: Il
pigro non ha voluto arare per il freddo; dunque
in estate andrà a mendicare, e
non gliene daranno (Prov.
20, 4). Il pigro non ara per il freddo quando, costretto dal
sonno della pigrizia, trascura di fare le opere buone che deve; non
ara per il freddo quando tralascia di fare cose importanti per timore
di piccoli mali in contrario. Ed è ben detto: In
estate andrà a mendicare e non gliene daranno, infatti
chi ora non fatica nelle buone opere, quando il sole del giudizio
apparirà più bruciante, in quella estate, mendicherà senza
ricevere nulla perché invano andrà a questuare all’ingresso
del Regno. E di nuovo per mezzo del medesimo Salomone si dice
giustamente a costui: Chi
bada al vento non semina; e
chi considera le nubi non miete (Qo.
11, 4). Che cosa si esprime col vento se non la tentazione degli
spiriti maligni? E che cosa con le nubi, che sono mosse dal vento, se
non le ostilità di uomini iniqui? Evidentemente, le nubi sono spinte
dai venti perché gli uomini iniqui sono eccitati dal soffio degli
spiriti immondi; pertanto, chi bada al vento non semina, e chi
considera le nubi non miete mai, perché chi teme la tentazione degli
spiriti maligni e chi teme la persecuzione di uomini iniqui né
semina il grano delle buone opere né taglia i covoni della santa
retribuzione. Al contrario, i precipitosi che prevengono il tempo
delle buone azioni, ne pervertono il merito e spesso cadono nel male
perché non hanno alcun discernimento del bene. Essi non indagano
quale sia il momento giusto di compiere qualcosa, ma per lo più se
ne rendono conto solo quando l’hanno fatta, con l’accorgersi che
così non avrebbero dovuto farla. Ad essi, come a chi ascolta, viene
detto da Salomone: Figlio, non
fare nulla senza consiglio, e
dopo che l’hai fatto non ti pentirai (Sir.
32, 24). E ancora: Le
tue palpebre precedano i tuoi passi (Prov.
4, 25). Le palpebre precedono i passi quando retti consigli
prevengono il nostro agire. Chi infatti trascura di considerare in
precedenza ciò che prevede di fare, drizza i suoi passi, chiude gli
occhi e giunge al termine del suo cammino, ma non si fa precedere
dalle sue stesse previsioni e perciò cade a terra più rapidamente,
perché non fa attenzione, attraverso la palpebra del consiglio, a
dove deve mettere il piede dell’opera.
16
— Come si devono ammonire i mansueti e gli iracondi
Diverso
è il modo di ammonire i mansueti e gli iracondi. Spesso infatti,
quando i mansueti hanno qualche responsabilità di guida, soffrono di
una certa lentezza di decisione unita alla loro mitezza; e per lo
più, per via di una pacatezza eccessivamente rilassata, addolciscono
oltre il necessario il vigore della severità. Al contrario, gli
iracondi, quando ricevono posti di governo, quanto più si lasciano
travolgere dall’impeto dell’ira all’esagitazione della mente,
tanto più turbano anche la vita dei sudditi disperdendone la
tranquillità e la pace. Quando il furore li spinge a trascendere
inconsideratamente, ignorano ciò che fanno nell’impeto dell’ira
e anche il male che nell’impeto dell’ira ricevono da se stessi.
Spesso però, ciò che è più grave, giudicano lo stimolo della
propria ira zelo di giustizia; e quando il vizio passa per una virtù,
senza timore si accumula colpa su colpa. Infatti, spesso, i mansueti
intorpidiscono per la noia della rilassatezza; e gli iracondi peccano
per zelo di rettitudine. Pertanto, per i primi, si tratta di un vizio
che nascostamente si aggiunge a una virtù; agli altri invece, il
proprio vizio appare come virtù ardente. Dunque, bisogna ammonire
quelli a fuggire ciò che hanno presso di sé, e questi a badare a
ciò che hanno in sé; quelli discernano ciò che non hanno, questi
ciò che hanno: i mansueti abbraccino la sollecitudine; gli iracondi
bandiscano l’agitazione. Bisogna ammonire i mansueti che si studino
di avere spirito di emulazione per la giustizia; e gli iracondi ad
aggiungere la mansuetudine a questo medesimo spirito che essi credono
di possedere. Perciò infatti lo Spirito Santo ci si è mostrato come
colomba e come fuoco, per presentarci tutti quelli che riempie,
mansueti per la semplicità della colomba e ardenti per il fuoco
dello zelo. Pertanto, non è pieno dello Spirito Santo né colui che,
tranquillo della sua mansuetudine, tralascia il fervore dello zelo,
né colui che ancora per l’ardore dello zelo, perde la virtù della
mansuetudine. Ma forse ci spieghiamo meglio se portiamo come esempio
il magistero di Paolo, il quale, a due discepoli, forniti di non
diversa carità, dà tuttavia consigli diversi, per la predicazione.
Infatti, ammonendo Timoteo dice: Confuta, esorta
e rimprovera con ogni pazienza e dottrina (2
Tim. 4, 2); ammonisce anche Tito dicendo: Di’
queste cose ed esorta e confuta con ogni autorità (Tit.
2, 15). A che cosa si deve che egli applichi tanto sapientemente
la sua dottrina che, nel proporla, ad uno consiglia l’autorità e
all’altro la pazienza, se non al fatto che conosceva lo spirito più
mansueto di Tito e quello un poco più fervido di Timoteo? Perciò
infiamma quello, con l’amore dello zelo e modera questo, con la
dolcezza della pazienza: aggiunge ciò che manca all’uno e toglie
ciò che è di troppo nell’altro; si sforza di stimolare il primo e
di frenare il secondo, e come grande agricoltore della Chiesa che ha
ricevuto, annaffia alcuni rami perché crescano, e altri che vede
crescere più del normale li pota affinché non accada che, o non
crescendo non portino frutto o crescendo eccessivamente perdano
quello che hanno già dato. Ma è molto diversa l’ira che
accompagna l’emulazione per la giustizia, dall’ira che turba un
cuore agitato e senza pretesto di giustizia. Nel primo caso, infatti,
essa si estende disordinatamente a ciò che è doveroso, nell’altro
invece si accende sempre indebitamente. Perciò bisogna sapere che
gli impazienti differiscono dagli iracondi in ciò, che quelli non
sopportano ciò che viene loro imposto da altri; questi invece sono
loro a provocare ciò che gli altri devono sopportare. Infatti gli
iracondi, spesso, assalgono anche coloro che si ritirano, provocano
occasioni di risse, godono di affaticarsi in contese. Costoro
tuttavia si correggono meglio se ci si tira indietro nell’eccitazione
della loro ira, perché in quel momento ignorano ciò che viene detto
loro, ma ritornati in sé, accolgono tanto più liberamente le parole
di esortazione quanto più arrossiscono di essere stati sopportati in
pace. Giacché, qualunque cosa giusta si dica a una mente ebbra di
furore, le parrà sempre sbagliata. Perciò anche, a Nabal ubriaco,
Abigail tacque lodevolmente la sua colpa che, altrettanto
lodevolmente, gli disse solo quando egli ebbe smaltito il vino (cf. 1
Sam. 25, 37); e perciò egli poté conoscere il male che aveva
compiuto e che non gli fu detto quando era ubriaco. Quando però gli
iracondi assalgono gli altri in modo che essi non possano in alcuna
maniera ritirarsi, bisogna affrontarli non con aperto rimprovero ma
usando verso di loro il riguardo di un certo cauto rispetto. Cosa che
si intende meglio con l’esempio di Abner. Di lui, quando Asael lo
inseguiva con violenza precipitosa e incauta, è scritto: Abner
parlò ad Asael dicendo: Ritirati, non
inseguirmi che io non sia costretto a trafiggerti in terra. Ma
quello disprezzò l’avvertimento e non volle ritirarsi. Allora
Abner lo colpi con la parte posteriore della lancia, nell’inguine, e
lo trafisse e mori (2
Sam. 2, 22-23). E di chi è figura Asael se non di coloro che
quando il furore li coglie con violenza, li trascina a precipizio?
Costoro sono da evitare tanto più cautamente nell’impeto dell’ira
in quanto ne sono anche trascinati come folli; perciò anche Abner —
che nella nostra lingua significa lucerna del padre — fugge; perché
la lingua dei maestri, che indica la luce celeste di Dio, quando vede
la mente di qualcuno portata per i precipizi del furore, e trascura
di restituire le frecce delle sue parole contro l’irato, è come
chi non vuol ferire il suo persecutore.
Ma
quando gli iracondi non si acquietano con alcun ragionamento e, come
Asael non cessano di perseguitare e comportarsi da pazzi, è
necessario che coloro i quali cercano di trattenere i furiosi, non si
erigano anch’essi con furore, ma mostrino tutta la possibile
tranquillità; facciano cioè qualche sottile osservazione che
colpisca indirettamente l’animo di colui che infuria. Perciò anche
Abner, quando ristette contro colui che lo inseguiva, non lo trapassò
con la lancia diritta ma rovesciata; poiché percuotere con la punta
corrisponde ad affrontare d’impeto con un aperto rimprovero;
invece, ferire con la parte posteriore della lancia vale toccare
tranquillamente il furioso con qualche argomento e vincerlo quasi
risparmiandolo. Asael tuttavia cadde subito perché le menti
eccitate, mentre sentono che si ha riguardo per loro, toccate con
tranquillità nell’intimo dalla ragionevolezza delle risposte,
cadono improvvisamente da quello stato di esaltazione a cui si erano
innalzati. Così, coloro che sotto un leggero colpo piombano
dall’impeto del loro ardore, sono come chi muore quasi senza
ricevere ferita di spada.
17
— Come si devono ammonire gli umili e gli orgogliosi
Diverso
è il modo di ammonire gli umili e gli orgogliosi. Ai primi bisogna
suggerire quanto sia vera quella superiorità che possiedono nella
speranza; gli altri bisogna persuaderli quanto nulla valga la gloria
temporale che essi, pur tenendola stretta, non possiedono. Ascoltino
gli umili quanto è eterno ciò a cui aspirano e quanto è
transitorio ciò che trascurano; e gli orgogliosi ascoltino quanto è
passeggero ciò che ambiscono ed eterno ciò che perdono. Ascoltino
gli umili, dalla maestra voce della Verità: Chi
si umilia sarà esaltato (Lc.
18, 14); ascoltino gli orgogliosi: Chi
si esalta sarà umiliato (Lc.
18, 14). Ascoltino gli umili: L’umiltà
precede la gloria (Prov.
15, 33); ascoltino gli orgogliosi: Lo
spirito si esalta prima della rovina (Prov.
16, 18). Ascoltino gli umili: A chi
volgerò lo sguardo se non all’umile e tranquillo e che teme le mie
parole? (Is.
66, 2); ascoltino gli orgogliosi: Perché
insuperbisce la terra e la cenere? (Sir.
10, 9). Ascoltino gli umili: Dio
volge lo sguardo alle cose umili (Sal.
137, 6); ascoltino gli orgogliosi: e
conosce da lontano le alte (Sal.
137, 6). Ascoltino gli umili: Poiché
il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per
servire (Mt.
20, 28); ascoltino gli orgogliosi: poiché
la superbia è l’inizio di ogni peccato (Sir.
10, 15). Ascoltino gli umili: poiché il nostro Redentore umiliò
se stesso fatto obbediente fino alla morte (Fil.
2, 8); ascoltino gli orgogliosi ciò che è scritto del loro
capo: Egli è
re sopra tutti i figli della superbia (Giob.
41, 25). Dunque, la superbia del diavolo fu l’occasione della
nostra perdizione, e l’umiltà di Dio fu trovata argomento della
nostra redenzione. Infatti il nostro nemico, creatura come tutte,
volle apparire innalzata su tutte; ma il nostro Redentore, pur
rimanendo grande su tutte,. si degnò di diventare piccolo fra tutte.
Si dica dunque agli umili che nel loro abbassarsi si elevano alla
somiglianza di Dio; si dica agli orgogliosi che con il loro
innalzarsi cadono ad imitazione dell’angelo apostata. Perciò, che
cosa c’è di più basso dell’orgoglio, che nel tendersi al di
sopra di sé si allontana dalla misura della vera altezza? E che cosa
è più sublime dell’umiltà che nell’abbassarsi fino al fondo si
unisce al suo Creatore, il quale rimane al di sopra dell’altezza
più eccelsa? C’è tuttavia dell’altro che in essi si deve
valutare con prudenza, poiché spesso alcuni restano ingannati dalla
apparenza di umiltà e altri peccano per ignoranza del proprio
orgoglio. Spesso infatti ad alcuni che si stimano umili si unisce un
timore che non deve essere portato a uomini; mentre non di rado
l’affermazione di una propria franchezza accompagna gli orgogliosi;
e così, quando bisogna rimproverare certi vizi altrui, i primi
tacciono per timore, e tuttavia pensano di tacere per umiltà; i
secondi invece parlano con l’impazienza dell’orgoglio e si
immaginano di parlare mossi da una libera rettitudine. Dunque, la
colpa della paura, sotto l’apparenza dell’umiltà, trattiene
quelli dal rimproverare i vizi altrui; mentre, sotto l’immagine di
uno spirito libero, la sfrenatezza dell’orgoglio spinge questi a
fare rimproveri che non devono, o a fare più rimproveri di quel che
devono. Perciò gli orgogliosi vanno ammoniti a non essere franchi di
quanto è conveniente; e gli umili a non stare sottomessi più di
quanto è opportuno, affinché i primi non voltino in difesa della
giustizia l’esercizio della superbia, e i secondi, quando si
applicano a sottomettersi agli uomini più del necessario, non siano
spinti a rispettare anche i loro vizi. Bisogna però considerare che
spesso si correggono più utilmente gli orgogliosi, se mescoliamo le
correzioni con qualche incoraggiamento di lode. Infatti, bisogna
riconoscere altre cose buone che sono in loro o, se non ci sono, dire
almeno quelle che potrebbero esserci; solo allora si deve togliere
quanto c’è in loro di male che a noi dispiace, quando cioè è
stato fatto precedere il ricordo delle loro cose buone e che ci
piacciono, con cui il loro cuore si è disposto a un ascolto placato.
Infatti, anche i cavalli irrequieti li tocchiamo prima con mano
leggera, per sottometterceli poi più pienamente anche con le
frustate; e a un bicchiere di amara medicina si aggiunge la dolcezza
del miele perché ciò che deve giovare alla salute non debba essere
gustato proprio col sapore di un’aspra amarezza; e invece, mentre
il gusto resta ingannato dalla dolcezza, l’umore mortifero viene
espulso con l’amarezza. Pertanto, nell’accusa rivolta agli
orgogliosi, l’inizio deve essere temperato con la lode, affinché
con l’accoglimento degli elogi che amano, essi accettino insieme le
correzioni che odiano. Ma spesso possiamo persuadere meglio e più
utilmente gli orgogliosi, se facciamo passare il loro progresso
piuttosto come pin vantaggioso per noi che per loro, se chiediamo che
il loro miglioramento si compia più per noi che per loro stessi.
Poiché è facile che l’orgoglio si pieghi al bene se crede che la
propria condiscendenza giovi ad altri. Perciò Mosé che aveva Dio
come guida e attraversava il deserto dietro la nuvola d’aria,
volendo allontanare il suo parente Hobab dalla consuetudine pagana e
sottometterlo alla signoria di Dio onnipotente, [lo pregò
dicendo]: Noi
partiamo per il luogo che il Signore ci darà; vieni
con noi affinché ti facciamo del bene perché il Signore ha promesso
dei beni a Israele. Ma
poiché quello gli rispose: Non
verrò con te ma ritornerò alla terra dove sono nato, aggiunse
subito: Non ci
abbandonare, perché
tu conosci in quali luoghi attraverso il deserto, dobbiamo
porre l’accampamento e sarai nostra guida (Num.
10, 29 ss.). Certo l’ignoranza riguardo al viaggio non
angustiava l’animo di Mosé, lui che la conoscenza della divinità
aveva dilatato alla scienza della profezia; che la colonna precedeva
all’esterno, e che il colloquio familiare della conversazione
assidua con Dio istruiva, all’interno, su ogni cosa. Ma
evidentemente, da uomo avveduto, che stava trattando con un
ascoltatore orgoglioso, lo pregò di un aiuto per poterglielo dare:
cercava in lui una guida per il viaggio, per potergli essere guida
alla vita. E agi in modo che l’ascoltatore superbo tanto più si
offrisse alla voce che lo attirava verso beni migliori quanto più si
sentiva considerato necessario; ma proprio nello stimarsi come colui
che precede chi lo esorta, di fatto obbediva alle sue parole.
18
— Come si devono ammonire gli ostinati e gli incostanti
Diverso
è il modo di ammonire gli ostinati e gli incostanti. Ai primi
bisogna dire che essi si stimano più di quello che sono e perciò
non acconsentono ai consigli altrui; i secondi bisogna convincerli
che poiché si disprezzano e non hanno alcuna considerazione di sé,
i loro pensieri mancano di fermezza e così mutano il loro giudizio a
seconda dei momenti. A quelli bisogna dire che se non si stimassero
migliori degli altri, non posporrebbero i consigli di tutti alla
propria decisione; a questi bisogna dire che se fissassero comunque
l’attenzione del proprio animo a ciò che sono, il vento
dell’instabilità non li trascinerebbe per tanta diversità di
posizioni. A quelli è detto per mezzo di Paolo: Non
siate prudenti presso voi stessi (Rom.
12, 6). Al contrario, questi si sentono dire: Non
facciamoci portare in giro da ogni vento di dottrina (Ef.
4, 14). Di quelli, per mezzo di Salomone è detto: Mangeranno
il frutto della loro via e si sazieranno dei loro consigli (Prov.
1, 31). Di questi, ancora lo stesso scrive: Il
cuore degli stolti sarà mutevole (Prov.
15, 7). Infatti il cuore dei sapienti è sempre uguale a se
stesso, perché mentre riposa su persuasioni rette è costante nel
bene operare. Ma il cuore degli stolti è mutevole perché
mostrandosi vario nell’instabilità, non rimane mai ciò che è
stato prima. E poiché certi vizi, come ne generano altri da se
stessi così da altri nascono, è importantissimo sapere che tanto
più riusciamo a toglierli, attraverso la correzione, quanto più
asciughiamo la fonte stessa della loro amarezza. E in effetti,
l’ostinazione è generata dalla superbia, l’incostanza dalla
leggerezza. Perciò bisogna ammonire gli ostinati a riconoscere
l’orgoglio del proprio pensiero e ad applicarsi per vincere se
stessi, perché mentre all’esterno rifiutano con disprezzo di
lasciarsi vincere dai giusti consigli di altri, interiormente non
siano tenuti prigionieri dalla superbia. Bisogna ammonirli a
considerare che il Figlio dell’uomo, che ha sempre una sola volontà
col Padre, per offrirci l’esempio di come spezzare la nostra
volontà, dice: Non
cerco la mia volontà ma la volontà del Padre che mi ha mandato (Gv.
5, 30). Egli che, per meglio raccomandare la grazia di questa
virtù, affermò che l’avrebbe conservata nell’ultimo giudizio,
dicendo: Io non
posso fare nulla da me stesso, ma
come ascolto giudico (Gv.
5, 30). Dunque, con quale coscienza l’uomo disdegna di
sottostare alla volontà altrui, quando il Figlio di Dio, e
dell’uomo, venuto a manifestare la gloria della sua potenza,
afferma di non giudicare da se stesso? Al contrario, bisogna ammonire
gli incostanti a rafforzare la loro mente con la fermezza Infatti
essi inaridiscono in sé i frutti della mutevolezza, se prima
strappano dal cuore la radice della leggerezza, perché si costruisce
un edificio stabile quando si provvede prima un luogo solido in cui
porre le fondamenta. Pertanto, se prima non si provvede a togliere la
leggerezza dalla mente, non si vince per nulla l’incostanza del
pensiero. Paolo mostra di essere stato alieno da costoro, quando
dice: Ho forse
usato della leggerezza? Oppure penso secondo la carne così che in me
ci siano il si e il no? (2
Cor. 1, 17). Come se dicesse apertamente: Non sono mosso dal
vento della instabilità perché non soggiaccio al vizio della
leggerezza.
19
— Come si devono ammonire gli intemperanti nel cibo e i
parchi
Diverso
è il modo di ammonire i golosi e i temperanti. Infatti nei primi il
vizio è accompagnato dall’eccesso del parlare, dalla leggerezza
dell’operare e dalla lussuria; agli altri si unisce spesso
l’impazienza e spesso anche la superbia. Infatti, se la loquacità
smodata non rapisse i golosi, quel ricco di cui si dice che
banchettava splendidamente ogni giorno non sarebbe stato arso più
gravemente nella lingua. Infatti dice: Padre
Abramo, abbi
pietà di me e manda Lazzaro a bagnare la punta del suo dito
nell’acqua, per
dare sollievo alla mia lingua, perché
sono tormentato in questa fiamma (Lc.
16, 24). Con queste parole, certamente si mostra che banchettando
ogni giorno, aveva peccato più frequentemente con la lingua, egli
che pur ardendo tutto cercava refrigerio soprattutto per essa. E
ancora l’autorità della Sacra Scrittura attesta che la leggerezza
dell’operare segue immediatamente i golosi, dicendo: Il
popolo si sedette per mangiare e bere, e
si alzò per divertirsi (Es.
32, 6). E spesso la voracità trascina costoro fino alla lussuria,
perché quando il ventre si distende nella sazietà, si eccitano gli
stimoli della libidine. Perciò all’astuto nemico, che apri la
sensualità del primo uomo alla bramosia del frutto e la strinse poi
col laccio del peccato, è detto dalla voce divina: Striscerai sul
petto e sul ventre (cf. Gen. 3, 14), come se gli venisse
detto apertamente: dominerai suoi cuori umani coi pensieri
cattivi e la golosità. Che poi la lussuria tenga dietro ai golosi,
lo attesta il profeta, che mentre racconta ciò che è manifesto
denuncia ciò che è nascosto, dicendo: Il principe dei cuochi
distrusse le mura di Gerusalemme (cf. 2 Re, 25, 10. LXX). Infatti il
principe dei cuochi è il ventre, al quale si presta gran cura da
parte dei cuochi, perché possa riempirsi di cibi nel piacere. Le
mura di Gerusalemme poi, sono le virtù dell’anima innalzate verso
il desiderio della pace celeste. Pertanto il principe dei cuochi
abbatte le mura di Gerusalemme, perché mentre il ventre si distende
per la ingordigia, le virtù dell’anima vengono distrutte dalla
lussuria. Al contrario, se per lo più, la impazienza non scuotesse
le menti dei temperanti dalla loro tranquillità, Pietro non
direbbe: Sforzatevi
di unire la virtù alla vostra fede, e
alla virtù la scienza e alla scienza la temperanza; per
aggiungere subito oculatamente: e
alla temperanza la pazienza (2
Pt. 1, 5). Ammoni cioè i temperanti ad avere quella pazienza
che sapeva mancare loro. E ancora: se la colpa della superbia non
trapassasse i pensieri dei temperanti, Paolo non avrebbe detto
affatto: Chi
non mangia non giudichi chi mangia (Rom.
14, 3). E poi, parlando ad altri nel restringere il campo dei
precetti per coloro che si gloriavano per la virtù dell’astinenza,
aggiunse: Tutte
cose che possiedono certo un aspetto di sapienza nella loro
religiosità umiltà e austerità del corpo, ma
non hanno alcun valore contro la soddisfazione della carne (Col.
2, 23). In
ciò va notato che nella sua argomentazione, il predicatore egregio
accosta alla scrupolosità un certo aspetto di umiltà, poiché
quando il corpo viene indebolito più del necessario dall’astinenza,
si manifesta esteriormente umiltà, ma proprio per questa umiltà si
insuperbisce gravemente nell’intimo. E se non fosse vero che
l’animo talvolta si gonfia d’orgoglio per la virtù
dell’astinenza, il fariseo non avrebbe enumerato con diligente
presunzione questa virtù fra i suoi grandi meriti, dicendo: Digiuno
due volte la settimana (Lc.
18, 12). Pertanto bisogna ammonire i golosi che, mentre sono dediti
al piacere dei cibi, non si facciano trafiggere dalla spada della
lussuria, e vedano con quanta forza, attraverso il mangiare, li
insidiano la loquacità e la leggerezza della mente, affinché mentre
servono con la mollezza il ventre non si trovino crudelmente stretti
nei lacci dei vizi. Infatti, tanto più ci si allontana dal secondo
genitore quanto più, col tendere la mano ad uso smodato del cibo, si
ripete la caduta del primo genitore. Ma al contrario, bisogna
ammonire i temperanti a fare molta attenzione che, mentre fuggono il
vizio della gola, non si generino, quasi dalla stessa virtù, vizi
ancora peggiori; così che mentre macerano la carne, lo spirito
erompa nell’impazienza. Poiché la vittoria sulla carne non
costituisce più una virtù, se lo spirito si lascia vincere
dall’ira. Ma talvolta, quando il cuore dei temperanti riesce a
trattenersi dall’ira, lo coglie come una gioia insolita che lo
corrompe, e il bene della astinenza si perde quanto meno si
custodisce dai vizi spirituali. Perciò giustamente è detto per
mezzo del profeta: Nei giorni dei vostri digiuni si manifestano le
vostre volontà (cf. Is. 58, 3 - LXX). E poco dopo: Voi digiunate
nelle liti e nelle risse e fate a pugni (cf. Is. 58, 4). La
volontà si riferisce alla gioia e il pugno all’ira. Invano
dunque si prostra il corpo con l’astinenza, se il cuore,
abbandonato a moti disordinati, si dissipa nei vizi. E ancora,
bisogna ammonire i temperanti a custodire la loro astinenza sempre
intatta, senza credere mai che essa rappresenti una virtù eccelsa
presso il Giudice occulto, perché se si dovesse credere che in essa
ci sia gran merito, il cuore non si esalti nell’orgoglio. Perciò
infatti è detto per mezzo del profeta: È
forse questo il digiuno che ho scelto? Spezza invece il tuo pane a
chi ha fame e conduci a casa tua i pellegrini bisognosi (Is.
58, 5.7). In ciò dunque bisogna considerare come viene stimata
piccola la virtù dell’astinenza, che non si raccomanda se non per
la presenza di altre virtù. Perciò Gioele dice: Santificate
il digiuno (Gioe.
1, 14). Infatti, santificare il digiuno significa mostrare a Dio
una astinenza del corpo resa degna per l’aggiunta di altre virtù.
Bisogna ammonire i temperanti a tenere presente che essi offrono
un’astinenza gradita a Dio solo quando i cibi che sottraggono al
proprio nutrimento li distribuiscono ai bisognosi. Bisogna
sapientemente ascoltare ciò che il Signore rimprovera, per mezzo del
profeta, dicendo: Quando
digiunavate e piangevate, il
quinto e il settimo mese, per
questi settant’anni, forse
facevate un digiuno per me? E quando avete mangiato e bevuto, non
avete mangiato forse per voi stessi e bevuto per voi stessi? (Zac.
7, 5 s.). Infatti non si digiuna per Dio ma per sé, quando ciò
che in certi tempi si sottrae al ventre, non lo si distribuisce ai
bisognosi, ma lo si custodisce per offrirlo di nuovo al ventre in
altri momenti. E così, affinché la golosità non faccia decadere
gli uni dalla stabilità dello spirito, e la mortificazione della
carne non faccia inciampare gli altri con l’orgoglio, ascoltino i
golosi dalla bocca della Verità: Badate
a voi stessi, che
i vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell’ubriachezza
e nelle preoccupazioni di questo mondo (Lc.
21, 34). E quindi aggiunge a ciò l’utile timore: E
sopravvenga improvviso su di voi quel giorno. Infatti
sopravverrà come un laccio su tutti coloro che siedono sulla faccia
di tutta la terra (Lc.
21, 35). E i temperanti ascoltino: Non
ciò che entra nella bocca corrompe l’uomo, ma
ciò che esce dalla bocca corrompe l’uomo (Mt.
15, 11). Ascoltino i golosi: Il
cibo è per il ventre e il ventre è per i cibi: ma
Dio distruggerà questi e quello (1
Cor. 6, 13). E ancora: Non
in gozzoviglie e ubriachezze (Rom.
13, 13). E ancora: Il
cibo non ci raccomanda a Dio (1
Cor. 8, 8). Ascoltino i temperanti: Perché
tutto è puro per i puri; ma
per i corrotti e gli infedeli niente è puro (Tit.
1, 15). Ascoltino i golosi: Loro
dio è il ventre e la loro gloria in ciò che è la loro
vergogna (Fil.
3, 19). Ascoltino i temperanti: Alcuni
si allontaneranno dalla fede (1
Tim. 4, 1); e poco dopo: Alcuni
proibiscono di sposarsi, vogliono
che ci si astenga dai cibi, che
Dio ha creato perché siano presi con rendimento di grazie dai fedeli
e da coloro che hanno conosciuto la verità (1
Tim. 4, 3). Ascoltino i golosi: È
bene non mangiare carne e non bere vino, né
ciò, per
cui il tuo fratello si scandalizza (Rom.
14, 21). Ascoltino i temperanti: Prendi
un poco di vino per via dello stomaco e delle tue frequenti
debolezze (1
Tim. 5, 23). Ciò perché gli uni non imparino a non desiderare
disordinatamente i cibi della carne e gli altri non osino condannare
ciò che essi non desiderano e tuttavia è stato creato da Dio.
20
— Come si devono ammonire coloro che distribuiscono i
propri beni e coloro che rapiscono quelli altrui
Diverso
è il modo di ammonire coloro che già elargiscono i propri beni con
misericordia, e coloro che ancora si danno da fare per rapire i beni
degli altri. I primi infatti bisogna ammonirli a non innalzarsi con
pensiero superbo su coloro a cui elargiscono i beni terreni, e non si
stimino migliori perché vedono gli altri sostenuti coi loro mezzi.
Infatti il padrone di una casa terrena, nel distribuire i ruoli e i
servizi dei servi, stabilisce questi a governare e quelli a essere
governati dagli altri. Ordina ai primi di provvedere il necessario ai
secondi, e a questi di prendere ciò che hanno ricevuto da quelli. E
tuttavia spesso coloro che governano, dispiacciono al padrone di
casa, e restano invece nella sua grazia coloro che sono governati.
Coloro che sono dispensatori si trovano a meritare la sua ira; gli
altri, che sottostanno alla distribuzione fatta dai primi, restano
senza ricevere danno. Dunque, bisogna ammonire coloro che già
dispensano con misericordia ciò che possiedono, a riconoscersi come
posti dal Padrone celeste a dispensare aiuti temporali, e a offrirli
tanto più umilmente quanto più capiscono che quel che dispensano è
roba altrui. E quando considerano di essere stati costituiti nel
servizio di coloro cui elargiscono i beni ricevuti, la superbia non
esalti il loro animo, ma lo trattenga invece il timore. Perciò è
necessario che badino con grande cura a non distribuire in modo
indegno i beni che gli sono stati affidati, e a darne così a chi non
devono darne, o a non darne affatto a chi devono qualcosa; a dare
molto a chi devono dar poco, o a darne poco a chi devono dar molto; a
disperdere inutilmente, per precipitazione, ciò che distribuiscono o
a tardare a dare a chi chiede, affliggendolo così in modo colpevole.
Non si insinui qui l’intenzione di ricevere gratitudine; e il
desiderio di una lode passeggera non estingua lo splendore del
donare. L’offerta del dono non sia accompagnata da una opprimente
tristezza, ma neppure l’animo di chi offre si rallegri più del
conveniente; e quando avranno compiuto tutto per bene, non
attribuiscano nessun merito a se stessi così da perdere, tutto in
una volta, quanto di bene hanno compiuto. Infatti, per non attribuire
a sé la virtù della propria liberalità, ascoltino ciò che è
scritto: Se
qualcuno esercita un ufficio, lo
faccia secondo la capacità che Dio gli comunica (1
Pt. 4, 11). Per non gioire smodatamente delle proprie
beneficenze, ascoltino ciò che è scritto: Quando
avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo
servi inutili, abbiamo
fatto quello che dovevamo fare (Lc.
17, 10). E perché la tristezza non guasti la liberalità,
ascoltino ciò che è scritto: Dio
ama chi dà con gioia (2
Cor. 9, 7). Affinché non cerchino una lode passeggera in cambio
del dono, ascoltino ciò che è scritto: Non
sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra (Mt.
6, 3), cioè: a un dono fatto con intenzione pia, non si mescoli la
gloria della vita presente, e il desiderio della lode non tocchi
un’azione giusta. Affinché non cerchino il contraccambio della
grazia fatta, ascoltino ciò che è scritto: Quando
fai un pranzo o una cena, non
invitare i tuoi amici o i tuoi fratelli o i parenti o i vicini
ricchi, perché
non avvenga che essi ti ricambino l’invito e tu ne abbia il
compenso; invece, quando
fai un pranzo, invita
i poveri, i
malati, gli
zoppi, i
ciechi; e
sarai beato perché loro non hanno da restituirti (Lc.
14, 12 ss.). E affinché non si tardi a dare ciò che va dato in
fretta, ascoltino ciò che è scritto: Non
dire al tuo amico: Va’
e ritorna e domani ti darò, quando
puoi dare subito (Prov.
3, 28). Affinché, sotto il pretesto della liberalità, non dissipino
inutilmente ciò che possiedono, ascoltino ciò che è
scritto: Sudi, l’elemosina
nella tua mano[1]. E
perché non diano poco là dove è necessario molto, ascoltino ciò
che è scritto: Chi
semina con parsimonia, mieterà
pure con parsimonia (2
Cor. 9, 6). Affinché, dove basta poco non offrano molto, e poi
loro stessi, non potendo in alcun modo sopportare l’indigenza,
erompano nell’impazienza, ascoltino ciò che è scritto: Non
perché ci sia sollievo per gli altri e tribolazione per voi, ma
perché nell’uguaglianza, la
vostra abbondanza supplisca la loro indigenza, e
la loro abbondanza venga a supplire la vostra indigenza (2
Cor. 8, 13-14). Infatti, quando l’animo di chi dà non sa
sopportare l’indigenza, se si priva di molto cerca un’occasione
di impazienza contro se stesso. Poiché prima bisogna predisporre
l’animo alla pazienza e solo allora distribuire molto o anche
tutto, perché non vada perduta la mercede della liberalità
prestata; e la mormorazione che inoltre si aggiungerebbe non faccia
perire più gravemente l’anima per il fatto che non si riesce a
sopportare in pace l’improvviso bisogno. Affinché non avvenga che
non diano nulla affatto a coloro cui qualcosa, anche poco, bisogna
dare, ascoltino ciò che è scritto: Da’
a chiunque ti chiede (Lc.
6, 30). Ma affinché non diano, anche poco, a chi non debbono
assolutamente nulla, ascoltino ciò che è scritto: Da’
al buono e non accogliere il peccatore: fa’
il bene all’umile e non dare all’empio (Sir.
12, 5-6). E ancora: Poni
il tuo pane e il tuo vino sul sepolcro del giusto, e
non mangiarne né berne insieme con i peccatori (Tob.
4, 18). Infatti offre ai peccatori il suo pane e il suo vino colui
che dà sussidi agli iniqui perché sono iniqui; perciò anche
parecchi ricchi di questo mondo, mentre i poveri di Cristo sono
afflitti dalla fame, mantengono con effusa liberalità gli istrioni.
Chi invece dà il suo pane a un povero, anche peccatore, non perché
è peccatore ma perché è uomo, evidentemente non mantiene un
peccatore ma un povero giusto, poiché in lui non ama la colpa ma la.
natura. Bisogna ammonire coloro che già distribuiscono i propri beni
con misericordia, ad attendere con gran cura, mentre le elemosine
redimono i peccati commessi, a non commetterne degli altri; e non
stimino venale la giustizia di Dio così da pensare di poter peccare
impunemente proprio mentre si preoccupano di distribuire denari per i
peccati. Infatti l’anima
vale più del cibo e il corpo più del vestito (Mt.
6, 25); chi allora dà cibo o vestito ai poveri, ma si macchia
con l’iniquità dell’anima o del corpo, ha offerto ciò che vale
di meno alla giustizia e ciò che vale di più al peccato; infatti, a
Dio ha dato i suoi beni, e al diavolo se stesso. Al contrario,
bisogna ammonire coloro che ancora si danno da fare per rapire i beni
degli altri, ad ascoltare con sollecitudine quanto dice il Signore
venendo al giudizio. Infatti dice: Ho
avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho
avuto sete e non mi avete dato da bere; ero
pellegrino e non mi avete accolto, nudo
e non mi avete coperto, infermo
e in carcere e non mi avete visitato (Mt.
25, 42-43). E ad essi, subito prima dice: Allontanatevi
da me, maledetti, nel
fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e i suoi
angeli (Mt.
25, 41). Ecco, quelli non ascoltano affatto questa sentenza
perché abbiano commesso rapine e ogni genere di violenze, ma
tuttavia vengono abbandonati al fuoco dell’eterna geenna. Da ciò
bisogna dedurre quanto sarà grande la pena che colpirà coloro che
rapiscono i beni altrui, se vengono colpiti con una punizione tanto
grande coloro che semplicemente conservano troppo gelosamente i
propri. Valutino con quale peccato li avvince il bene rapito se
quello che non è stato semplicemente partecipato sottopone a una
tale pena. Valutino che cosa meriti una ingiustizia inferta, se è
degno di così grande castigo l’avere mancato di offrire pietà.
Quando si propongono di rubare i beni altrui, ascoltino ciò che è
scritto: Guai
a colui che moltiplica i beni non propri: fino
a quando accumula contro di sé denso fango? (Ab.
2, 6). Per un avaro, cioè, accumulare il peso di denso fango
significa accumulare guadagni terrestri col peso del peccato. Quando
bramano di dilatare sempre più l’ampiezza della loro abitazione,
ascoltino ciò che è scritto: Guai
a voi
che aggiungete casa a casa e unite campi a campi fino ai confini del
paese. Forse
abitate solo voi in mezzo alla terra? (Is.
5, 8). Come se dicesse apertamente: Fin dove volete estendervi,
voi che, in questo mondo che è di tutti, non potete avere altri
partecipi della vostra fortuna? In effetti voi opprimete i vostri
vicini, ma trovate sempre contro chi farvi valere per estendervi.
Quando anelano ad aumentare il loro denaro, ascoltino ciò che è
scritto: L’avaro
non si riempie col denaro e chi ama le ricchezze non trarrà frutto
da esse (Qo.
5, 9). Certo ne trarrebbe frutto se volesse distribuirle bene senza
amarle, ma chi le conserva con amore le abbandonerà assolutamente
senza frutto. Quando ardono di riempirsi di tutte le ricchezze
insieme, ascoltino ciò che è scritto: Chi
ha fretta di arricchirsi non sarà senza colpa (Prov.
28, 20); infatti è certo, che chi aspira ad aumentare le sue
ricchezze, trascura di evitare il peccato e, catturato come un
uccello, mentre fissa avidamente l’esca di beni terreni, non si
accorge da quale laccio di peccato resta strangolato. Quando
desiderano guadagni di qualsiasi genere, del mondo presente, e
ignorano i danni che dovranno patire in quello futuro, ascoltino ciò
che è scritto: L’eredità
per la quale ci si affretta in principio, alla
fine non avrà benedizione (Prov.
20, 21). Cioè, da questa vita noi traiamo inizio per giungere a
ottenere benedizione alla fine; pertanto, chi ha fretta di ereditare
in principio, taglia via da sé la sorte della benedizione alla fine.
Poiché, mentre per il peccato di avarizia bramano di moltiplicare
qui i loro beni, là resteranno diseredati del patrimonio eterno.
Quando o ambiscono a molti beni o possono raggiungere tutto quanto
hanno ambito, ascoltino ciò che è scritto: Che
cosa giova all’uomo se guadagna tutto il mondo ma reca danno alla
sua anima? (Mt.
16, 26). È come se la Verità dicesse apertamente: Che cosa
giova all’uomo raccogliere tutto quello che esiste fuori di lui, se
danna questa sola cosa che è lui stesso? Tuttavia spesso si corregge
più rapidamente l’avarizia degli uomini rapaci, se nelle parole di
chi li ammonisce si dimostra quanto sia fugace la vita presente; se
si richiama la memoria di coloro che a lungo hanno cercato di
arricchire in questa vita e tuttavia non poterono restare a lungo a
godere delle ricchezze ottenute, poiché la morte improvvisa, di
colpo e tutto in una volta, ha portato via tutto ciò che, non di
colpo né tutto in una volta, la loro iniquità aveva messo insieme;
ed essi non solamente lasciarono qui le ricchezze rubate, ma
condussero con sé, al giudizio, le accuse di rapina. Ascoltino
dunque gli esempi offerti da costoro, che senza dubbio loro stessi
condannano a parole, affinché quando queste parole di condanna
rientrano nel loro cuore, arrossiscano almeno di imitare coloro che
giudicano.
21
— Come bisogna ammonire coloro che non bramano i beni
altrui, ma si tengono i propri e coloro che pur
distribuendo i propri, rapiscono tuttavia quelli degli
altri
Diverso
è il modo di ammonire coloro che né bramano i beni altrui né
elargiscono i propri; e coloro che distribuiscono i beni che hanno e
tuttavia non desistono di rapire quelli altrui. Bisogna ammonire
coloro che né bramano i beni altrui né elargiscono i propri, a
sapere che quella terra dalla quale sono stati presi è comune a
tutti gli uomini e perciò produce anche i mezzi di sopravvivenza a
tutti allo stesso modo. Pertanto vanamente si considerano innocenti
coloro che rivendicano ad uso privato il dono comune di Dio; i quali,
quando non distribuiscono ciò che hanno ricevuto, operano in qualche
modo l’assassinio del prossimo; perché quasi ogni giorno ne
uccidono tanti, quanti sono i poveri che muoiono mentre essi
nascondono presso di sé quegli aiuti che erano loro. Infatti, quando
distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra
ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene; e assolviamo
piuttosto a un debito di giustizia più che compiere opere di
misericordia. Perciò la Verità stessa parlando di nome non bisogna
ostentare la misericordia, dice: Badate
di non fare la vostra giustizia davanti agli uomini (Mt.
6, 1). E a ciò si accorda pure il salmista che
dice: Disperse, diede
ai poveri, la
sua giustizia rimane in eterno (Sal.
111, 9). Infatti, dopo avere nominato la liberalità esercitata
verso i poveri, preferisce chiamarla giustizia e non misericordia,
poiché è certamente giusto che quanto viene distribuito dal comune
Signore, chiunque ne riceve lo usi a vantaggio comune. Perciò anche
Salomone dice: Chi
è giusto darà e non cesserà (Prov.
21, 26). Bisogna anche ammonirli a stare molto attenti che
l’agricoltore esigente si lamenta contro il fico che non dà frutto
perché, oltre a ciò, tiene occupato il terreno. Il fico, cioè,
tiene il terreno occupato senza frutto quando l’animo degli avari
conserva inutilmente ciò che avrebbe potuto giovare a molti. Il fico
occupa senza frutto il terreno quando lo stolto opprime con l’ombra
della pigrizia un luogo che un altro sarebbe stato in grado di
sfruttare col sole delle buone opere. Costoro tuttavia spesso
sogliono dire: Usiamo ciò che ci è stato dato e non cerchiamo la
roba d’altri, e se non agiamo in modo degno di una ricompensa di
misericordia, tuttavia non commettiamo nulla di male. E pensano così
perché evidentemente chiudono l’orecchio del cuore alle parole
celesti; infatti neppure il ricco dell’Evangelo, che vestiva di
porpora e di bisso e banchettava splendidamente ogni giorno (cf. Lc.
16, 19 ss.), aveva rapito i beni altrui, ma è dimostrato che egli
aveva usato dei propri senza frutto; e dopo questa vita lo accolse la
geenna vendicatrice, non perché aveva compiuto qualcosa di illecito,
ma perché si era dato tutto alle cose lecite con uso smodato.
Bisogna ammonire questi avari a rendersi conto che la prima offesa la
fanno a Dio, poiché a colui che dà loro tutto, essi non rendono
alcun sacrificio di misericordia. Perciò il salmista dice: Non
darà a Dio la sua espiazione né il prezzo del riscatto della sua
anima (Sal.
48, 8-9). Infatti dare il prezzo del riscatto è rendere una
buona opera alla grazia che ci previene. Perciò Giovanni esclama: La
scure è ormai alla radice dell’albero. Ogni
albero che non fa buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco (Lc.
3, 9). Dunque, coloro che si giudicano innocenti perché non
rubano i beni altrui, faranno bene a prevedere il colpo della scure
vicina e a rigettare il torpore di una improvvida sicurezza,
affinché, mentre trascurano di portare il frutto di buone opere, non
vengano tagliati via del tutto dalla presente vita, come da una
rigogliosa radice. Al contrario, bisogna ammonire coloro che
distribuiscono ciò che hanno e poi non cessano di rapire i beni
altrui, a non aspirare di apparire sommamente munifici e così
divenire peggiori sotto l’apparenza del bene. Costoro infatti,
distribuendo senza discrezione i propri beni, non solo, come abbiamo
già detto, cadono nella mormorazione dell’impazienza, ma poi,
costretti dal bisogno, ripiegano fino all’avarizia. Che cosa c’è
dunque di più infelice dell’animo di coloro per i quali l’avarizia
nasce dalla liberalità e la messe dei peccati è come avesse il suo
seme nella virtù? Così bisogna innanzi tutto ammonirli a sapere
conservare con raziocinio i propri beni e quindi a non ambire a
quelli degli altri; se infatti la colpa non viene bruciata alla
radice proprio nel suo stesso espandersi, la spina dell’avarizia,
diffondendosi per i rami, non si secca mai. Pertanto si toglie
l’occasione di rubare, se in precedenza si stabiliscono con
chiarezza i limiti del diritto di possedere. Allora solo, coloro che
sono stati così ammoniti, ascoltino in che modo devono distribuire,
secondo misericordia, ciò che possiedono; cioè, quando avranno
imparato a non mescolare il bene della misericordia con la malizia
del furto, giacché essi ricercano poi, con la violenza, ciò che
hanno elargito con la misericordia. Ma altra cosa è fare
misericordia per i peccati e altra peccare per fare misericordia;
che, fra l’altro, non si può nemmeno più chiamare misericordia,
poiché non può dare dolce frutto l’albero che diviene amaro per
il veleno di una radice pestifera. È perciò, infatti, che per mezzo
del profeta il Signore rimprovera gli stessi sacrifici
dicendo: Io, il
Signore, che
ama la giustizia e odia la rapina nel sacrificio (Is.
61, 8). Perciò ancora disse: Abominevoli
sono i sacrifici degli empi, che
vengono offerti dal delitto (Prov.
21, 27). Poiché essi spesso sottraggono anche ai poveri ciò
che offrono a Dio. Ma con quanto biasimo li rifiuti, il Signore lo
dimostra dicendo, per mezzo di un sapiente: Chi
offre un sacrificio con le sostanze dei poveri è come uno che immola
un figlio alla vista di suo padre (Sir.
34, 24). Infatti, che cosa può esserci di pila insopportabile
che la morte del figlio davanti agli occhi del padre? Si manifesta
così con quanta ira sia riguardato questo sacrificio che viene
paragonato al dolore di un padre privato del figlio. E tuttavia
spesso pesano quel che danno, ma omettono di considerare quel che
rubano. Contano quel che danno come fosse una paga, ma rifiutano di
pesare attentamente le colpe. Ascoltino pertanto ciò che è
scritto: Chi ha
raccolto le paghe le ha messe in un sacchetto bucato (Ag.
1, 6), poiché si vede, quando si mette il denaro in un
sacchetto bucato, ma non si vede quando lo si perde. Pertanto, coloro
che guardano a quanto elargiscono, ma non considerano quanto
rapiscono, mettono le paghe in un sacchetto bucato, perché
certamente le accumulano guardando alla speranza di ricompensa cui si
affidano; ma senza guardare le perdono.
22
— Come bisogna ammonire i litigiosi e i pacifici
Diverso
è il modo di ammonire i litigiosi e i pacifici. Infatti, i litigiosi
bisogna ammonirli a sapere con assoluta certezza che, per quanto
grandi siano le virtù di cui abbondano, non di meno non possono
diventare spirituali, se trascurano di restare uniti al prossimo
nella concordia. Poiché è scritto: Frutto, poi, dello
spirito è carità, gioia, pace (Gal.
5, 22). Dunque, chi non ha cura di conservare la pace, rifiuta
di portare il frutto dello spirito. Perciò Paolo dice: Dal
momento che ci sono fra voi gelosie e contese, non siete
carnali? (1 Cor. 3, 3). Perciò di nuovo dice
pure: Cercate la pace con tutti e una vita santa senza la
quale nessuno vedrà Dio (Ebr. 12, 14). Perciò ancora
ammonisce dicendo: Solleciti a conservare l’unità dello
spirito: nel vincolo della pace: un solo
corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati ad una
sola speranza della vostra chiamata (Ef. 4, 3-4). Dunque,
non si giunge all’unica speranza della chiamata se non si corre
verso di essa con l’animo unito al prossimo. Ma spesso ci sono
alcuni che, quanto più sono i doni particolari che ricevono, tanto
più insuperbiscono perdendo il dono più grande che è quello della
concordia; come sarebbe uno che soggioga la propria carne più degli
altri, frenando la gola, e trascuri di andare d’accordo con coloro
a cui è superiore nell’astinenza. Ma chi separa l’astinenza
dalla concordia, consideri ciò che dice il salmista: Lodatelo
col timpano e il coro (Sal. 150, 4). Infatti il
timpano suona per la percussione di una pelle secca, invece nel coro
le voci concordano tutte insieme; e così chi affligge il corpo ma
abbandona la concordia, loda certo Dio col timpano, ma non lo loda
col coro. Spesso, poi, una maggiore scienza, mentre innalza certuni,
li divide dalla comunione con gli altri, e in un certo senso, quanto
più sanno, tanto più diventano incapaci della virtù della
concordia.
Dunque,
costoro ascoltino che cosa dice la Verità in persona: Abbiate
sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc.
9, 49). La sapienza, cioè, non è un dono di virtù, ma
causa di condanna. Infatti, quanto più uno è sapiente, tanto più
gravemente pecca, e perciò meriterà il supplizio senza possibilità
di scusa, perché, se avesse voluto, con la sua prudenza avrebbe
potuto evitare il peccato. A costoro è detto giustamente per mezzo
di Giacomo: Che
se avete zelo amaro e ci sono contese nel vostro cuore, non
gloriatevi e non dite menzogne contro la verità. Questa
non è sapienza che scende dall’alto, ma
è sapienza terrena, animale, diabolica. Invece, la
sapienza che è dall’alto, innanzitutto
è pudica, quindi
pacifica (Giac.
3, 14-15.17). Pudica, cioè, perché è casta nell’intendere,
e pacifica perché non si separa affatto con l’esaltazione dalla
comunione col prossimo. Bisogna ammonire i litigiosi a conoscere che
non immolano alcun sacrificio di opere buone a Dio, per tutto il
tempo in cui non concordano nella carità col prossimo. Infatti, è
scritto: Se
mentre offri il tuo dono all’altare ti ricordi che il tuo fratello
ha qualche cosa contro di te, lascia
là il tuo dono e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello e poi
vieni a offrire il tuo dono (Mt.
5, 23-24). Da questo precetto, bisogna considerare di chi sia la
offerta che viene respinta e quanto sia intollerabile la colpa che
viene così indicata. Infatti, se tutti i peccati vengono cancellati
per il bene compiuto in seguito, consideriamo quanto sia grande il
peccato della discordia, che se non viene distrutto radicalmente non
permette al bene di seguirlo. Bisogna ammonire i litigiosi, se
distolgono gli orecchi dai precetti celesti, ad aprire gli occhi del
cuore a considerare come si comportano le creature degli ordini più
bassi; come gli uccelli di una stessa specie, volando tutti insieme
non si lasciano, gli uni con gli altri; e come gli animali, che pure
sono senza intelligenza, pascolano a gruppi. Poiché, se guardiamo
con attenzione, la natura irrazionale nell’accordo con se stessa
indica quanto sia grande il peccato che la natura razionale commette
con la discordia; poiché questa, con l’applicazione della ragione,
ha perduto ciò che quella custodisce per istinto naturale. Bisogna,
al contrario, ammonire i pacifici, a non amare più del necessario la
pace che possiedono, così da non aspirare a raggiungere quella
eterna. Spesso infatti la tranquillità esteriore tenta più
gravemente l’attenzione degli animi così che quanto meno moleste
sono le condizioni in cui essi si trovano, tanto meno amabili
divengono quelle cui sono chiamati; e quanto più dilettano le
presenti, tanto meno si ricercano le eterne. Per cui, la Verità
stessa, distinguendo la pace terrena da quella celeste e volendo
eccitare i discepoli, dalla pace presente a quella eterna,
dice: Lascio a
voi la pace, vi
do la mia pace (Gv.
14, 27). Lascio, cioè, la pace transitoria e do quella
durevole. Se dunque il cuore si fissa in quella pace che è stata
lasciata, non perviene mai a quella che deve essere data. Pertanto
bisogna conservare la pace presente in modo da amarla e insieme
disprezzarla, affinché, se la si ama smodatamente, l’animo
dell’amante non sia colto in peccato. Perciò bisogna anche
ammonire i pacifici, a non rinunciare a rimproverare i cattivi
costumi degli uomini, per un eccessivo desiderio di assicurarsi una
pace umana, così che, consentendo ai peccatori, non si distacchino
dalla pace del loro Creatore; e mentre temono all’esterno gli
improperi degli uomini, non siano colpiti dalla rottura dell’alleanza
interiore. Che cos’è infatti una pace passeggera se non
un’impronta della pace eterna? Che cosa ci può essere di più
stolto che amare delle impronte sulla polvere e non amare la persona
che ve le ha impresse? Perciò David, stringendosi tutto alla
alleanza della pace interiore, afferma di non conservare la concordia
coi malvagi dicendo: Non
odio forse, Dio, quelli
che ti odiano, e
non mi struggo sopra i tuoi nemici? Li odio di un odio perfetto, sono
divenuti miei nemici (Sal.
138, 21-22). Infatti, odiare i nemici di Dio con odio perfetto
significa amare che essi esistano e rimproverare ciò che essi fanno;
perseguire i costumi dei cattivi e giovare alla loro vita. Bisogna
dunque considerare con quanta colpa si conserva la pace coi malvagi,
se ci si acquieta nella rinuncia a riprenderli, dal momento che un
profeta così grande offre come un sacrificio a Dio il fatto di avere
eccitato contro di sé, per Dio, l’inimicizia degli empi. Perciò
si dice che la tribù di Levi, impugnate le spade, percorrendo tutto
l’accampamento, poiché non volle risparmiare i peccatori che
meritavano di essere colpiti, consacrò la mano di Dio (cf. Es. 32,
27 ss.). Perciò Finees, disprezzando il favore di uomini peccatori,
colpi coloro che si univano con le madianite e con la sua ira placò
l’ira del Signore (cf. Num. 25, 9). Perciò la Verità stessa
dice: Non
pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra. Non
sono venuto a portare la pace ma la spada (Mt.
10, 34). Infatti, quando incautamente stringiamo amicizia coi
malvagi, ci leghiamo alle loro colpe. Perciò Giosafat che è
esaltato con tanti elogi riguardo alla sua vita passata, quasi in
punto di morte viene rimproverato per la sua amicizia col re Achab; a
lui infatti è detto dal Signore, per mezzo del profeta: Hai
portato aiuto all’empio e ti sei unito, per
l’amicizia, con
coloro che odiano il Signore; perciò
meriteresti l’ira del Signore, ma
in te sono state trovate opere buone perché hai tolto i boschi sacri
dalla terra di Giuda (2
Cr. 19, 2-3). Quanto più la nostra vita concorda per l’amicizia
coi perversi tanto phi, solo per questo, essa si distingue ormai da
colui che è sommamente giusto. Bisogna ammonire i pacifici di non
temere di turbare la propria pace temporale, se ricorrono a parole di
correzione. E ancora bisogna ammonirli a conservare interiormente con
intatto amore la medesima pace che esteriormente si turba per la voce
alzata nell’invettiva. David mostra di avere saggiamente conservato
ambedue quando dice: Con
coloro che odiano la pace ero pacifico, quando
parlavo con loro mi facevano guerra senza motivo (Sal.
119, 7). Ecco, quando parlava gli facevano guerra; e tuttavia
anche così era pacifico, perché né cessava di rimproverare coloro
che infuriavano né tralasciava di amare coloro che rimproverava.
Perciò anche Paolo dice: Se
è possibile, per
quanto sta in voi, abbiate
pace con tutti gli uomini (Rom.
12, 18). Volendo esortare i discepoli ad avere pace con tutti,
premise: Se è
possibile, e
aggiunse: per
quanto sta in voi. Poiché
era difficile che potessero essere in pace con tutti se avessero
dovuto rimproverare delle cattive azioni. Ma quando, per il nostro
rimprovero, la pace esteriore resta turbata nei cuori dei malvagi, è
necessario che essa si conservi inviolata nel nostro cuore. Perciò
dice giustamente: per
quanto sta in voi, come
se dicesse: Poiché la pace consiste nel consenso di due parti, se
essa viene cacciata da coloro che sono rimproverati, sia conservata
tuttavia integra nel cuore di voi che rimproverate. Perciò
lo stesso, di nuovo, ammonisce i discepoli dicendo: Se
qualcuno non ubbidisce a quanto diciamo con questa
lettera, notatelo, e
non mescolatevi con lui, affinché
resti confuso (2
Tess. 3, 14). E subito aggiunge: E
non consideratelo come nemico ma correggetelo come un fratello (2
Tess. 3, 15); come se dicesse: Sciogliete la pace esterna con
lui, ma quella interiore riguardo a lui custoditela nel fondo del
cuore, affinché il vostro dissenso ferisca il cuore del peccatore in
modo che, tuttavia, non si allontani dai vostri cuori la pace che non
avrete rinnegato.
23
— Come si devono ammonire i seminatori di discordie e gli
operatori di pace
Diverso
è il modo di ammonire i seminatori di discordie e gli operatori di
pace. I primi bisogna ammonirli a riconoscere di chi sono seguaci,
poiché è dell’angelo apostata che sta scritto, quando fu seminata
la zizzania tra il buon seme: Un
nemico ha fatto questo (Mt.
13, 28). E di un suo membro è anche detto, per mezzo di
Salomone: L’apostata, uomo
inutile, avanza
con volto maligno, fa
cenno con gli occhi, stropiccia
col piede, parla
col dito, con
cuore malvagio concepisce il male, e
in ogni tempo semina discordie (Prov.
6, 12). Ecco, chiama prima apostata colui che vuole chiamare
seminatore di discordie, perché, se per la perversione del cuore non
fosse caduto prima, interiormente, dal cospetto del Creatore — allo
stesso modo dell’angelo insuperbito — non sarebbe poi uscito a
seminare discordie all’esterno, lui che bene viene descritto come
chi fa cenno con gli occhi, parla con le dita e stropiccia col piede.
Poiché è all’interno, la custodia che conserva l’ordinato
comportamento esterno delle membra. Ma chi ha perduto l’equilibrio
dell’animo si abbandona, al di fuori, a movimenti scomposti, e con
la mobilità esteriore indica come nessuna radice lo tenga saldo
interiormente. Ascoltino i seminatori di discordie ciò che è
scritto: Beati
gli operatori di pace poiché saranno chiamati figli di Dio (Mt.
5, 9), e traggano da ciò, inversamente, la conclusione che, se
saranno chiamati figli di Dio coloro che operano la pace, sono senza
dubbio figli di Satana coloro che la turbano. Ma tutti coloro che, a
causa della discordia, si separano dalla pianta verde dell’amore,
inaridiscono. E quantunque essi producano frutti di buone opere nelle
loro azioni, questi non valgono assolutamente nulla perché non
nascono dall’unità della carità. Perciò considerino, i
seminatori di discordie, in quanti molteplici modi peccano, loro che,
nel commettere una sola azione malvagia, di fatto sradicano dai cuori
umani tutte insieme le virtù. Ma poiché nulla è più prezioso per
Dio della virtù dell’amore, niente è più desiderabile dal
diavolo che la distruzione della carità. Dunque, chiunque seminando
discordie uccide l’amore del prossimo, serve come familiare al
nemico di Dio perché, sottraendo ai cuori feriti la virtù, per la
cui perdita egli cadde, taglia ad essi la via dell’ascesi
spirituale. Al contrario, bisogna ammonire gli operatori di pace a
non trarre con leggerezza il peso di un’azione così importante,
quando non conoscano le persone tra cui debbono stabilire la pace.
Infatti, come è molto dannoso che non ci sia pace tra i buoni, cos’
è dannosissimo che ci sia pace tra i cattivi. Pertanto, se la
malizia dei malvagi li unisce nella pace, certo la loro forza si
accresce di cattive azioni, perché quanto più concordano nel male
tanto più vigorosamente si buttano ad affliggere i buoni. Perciò
infatti la voce divina parlando contro gli strumenti di quel dannato,
cioè contro i predicatori dell’Anticristo, dice al beato
Giobbe: Le
membra della sua carne congiunte fra loro (Giob.
41, 14). Perciò dei suoi satelliti si dice, sotto l’immagine
delle squame: Una
si congiunge all’altra e neppure un soffio passa fra di esse (Giob.
41, 7). Poiché i seguaci di quello, quanto meno sono divisi tra
di loro dall’ostilità, frutto della discordia, tanto più
gravemente si uniscono per la strage dei buoni. Dunque, colui che
unisce gli iniqui, facendo pace fra loro, dispensa forze
all’iniquità, poiché perseguitando i buoni unanimemente, li
affliggono ancor peggio. Perciò l’egregio predicatore, prigioniero
per la grave persecuzione di Farisei e Sadducei, vedendoli
pericolosamente uniti contro di sé, curò di dividerli fra di loro,
quando gridò dicendo: Fratelli, io
sono Fariseo figlio di Farisei e vengo giudicato riguardo alla
speranza nella risurrezione dei morti (Atti,
23, 6). E poiché i Sadducei negavano la risurrezione dei morti
e la speranza in essa, mentre i Farisei ci credevano, secondo i
precetti della parola divina, si creò una divisione nell’unanimità
dei persecutori, e per questa Paolo usci illeso da quella turba che
prima, unita, lo aveva ferocemente stretto. Pertanto bisogna ammonire
coloro che si applicano a ristabilire la pace, ad infondere
innanzitutto nei cuori dei malvagi l’amore della pace interiore,
perché poi la pace esteriore possa giovare a loro, così che il
riceverla, mentre il loro cuore è intento alla esperienza della pace
intima, valga a non trascinarli al male; e mentre guardano avanti,
verso la pace celeste non si servano in alcun modo di quella terrena
per divenire peggiori. Ma quando i malvagi sono tali che non sono
capaci di nuocere ai buoni, anche se lo desiderano, è certo che tra
costoro occorre stabilire la pace terrena anche prima che essi siano
in grado di conoscere quella celeste, affinché coloro che la malizia
della propria empietà esaspera contro l’amore di Dio, divengano
mansueti almeno per l’amore del prossimo; e passino, come partendo
da ciò che è vicino, a qualcosa di migliore, cioè ascendano a
quella pace del Creatore che è loro lontana.
24
— Come si devono ammonire gli ignoranti nella dottrina
sacra e i dotti che però non sono umili
Diverso
è il modo di ammonire coloro che non intendono rettamente le parole
della legge sacra e coloro che certo le intendono rettamente ma non
ne parlano umilmente. I primi vanno ammoniti a considerare che essi
mutano, per sé, un sanissimo bicchiere di vino in un bicchiere di
veleno, e con un ferro da chirurgo, si feriscono con una ferita
mortale, quando con esso uccidono ciò che in loro è sano, mentre
avrebbero dovuto tagliare ciò che è malato. Bisogna ammonirli a
considerare come la Sacra Scrittura sia per noi quale lampada posta
nella notte della vita presente (cf. Sal. 118, 105), ma se essi non
intendono rettamente le sue parole è come se quelle si oscurassero
perdendo la loro luce. Certo non sarebbe un errore intenzionale a
trascinarli a una comprensione distorta, se prima non li avesse
gonfiati la superbia. Infatti, considerandosi più sapienti degli
altri, rifiutano con disprezzo di seguirli sulla via di una migliore
comprensione, e per estorcere, all’autorità dell’opinione del
volgo, il nome di scienza per il proprio insegnamento, si danno un
gran daffare a demolire le rette interpretazioni di altri e a
rafforzare i propri errori.
Perciò
giustamente si dice per mezzo del profeta: Sventrarono
le donne incinte in Galaad per allargare i loro territori (Am.
1, 13). Infatti con Galaad si intende il «cumulo della
testimonianza», e poiché tutta insieme, la congregazione della
Chiesa, attraverso la confessione [dei suoi membri], serve alla
testimonianza della verità, non è senza senso che per Galaad si
intenda la Chiesa che, per bocca di tutti i fedeli, attesta ciò che
è vero riguardo a Dio. Per donne incinte si intendono le anime che
in virtù dell’amore divino, concepiscono la comprensione della
Parola e giungono al compimento del tempo sono pronte a partorire,
con la manifestazione delle opere, quella comprensione che avevano
concepita. E dilatare il proprio territorio significa estendere la
fama della propria opinione. Dunque, sventrarono le donne incinte in
Galaad per allargare il proprio territorio, poiché evidentemente gli
eretici uccidono, con una predicazione perversa, i cuori dei fedeli
che già avevano concepito una qualche comprensione della verità, e
diffondono la fama di una loro scienza. Con la spada dell’errore
squarciano i cuori dei piccoli, già gravidi della concezione della
Parola, e creano, per il proprio errore, la opinione di dottrina.
Dunque, quando ci sforziamo di istruire costoro perché non errino
col pensiero, è necessario che prima li ammoniamo a non cercare una
gloria vana. Infatti, se si strappa la radice dell’esaltazione, di
conseguenza i rami della dottrina depravata inaridiscono. Bisogna
ammonirli anche che, col generare errori e discordie, non mutino in
sacrificio a Satana proprio quella legge di Dio data precisamente per
impedire sacrifici a Satana. Perciò attraverso il profeta il Signore
si lamenta dicendo: Ho
dato loro frumento, vino
e olio, e
per loro ho moltiplicato argento e oro che hanno usato per Baal (Os.
2, 8).
Dunque,
riceviamo frumento dal Signore quando in espressioni oscure, tolta la
copertura della lettera, attraverso il midollo dello spirito,
cogliamo l’intimo della legge. Il Signore poi ci offre il suo vino
quando ci inebria con l’alta predicazione della sua Scrittura. E ci
dà pure il suo olio quando, con precetti più aperti, dispone con
dolce leggerezza la nostra vita. Moltiplica l’argento, quando ci
amministra parole piene della luce della verità. E ci arricchisce
pure d’oro quando irraggia il nostro cuore con la percezione del
sommo fulgore. Tutte queste cose gli eretici le offrono a Baal,
poiché, con la comprensione corrotta, pervertono ogni cosa nei cuori
dei loro ascoltatori. E col frumento di Dio, col vino e l’olio e
ugualmente l’argento e l’oro, immolano un sacrificio a Satana,
poiché piegano parole di pace all’errore che genera discordia.
Perciò bisogna ammonirli a considerare che quando, con animo
perverso, creano discordia, per giusto giudizio di Dio, sono loro
stessi a morire uccisi da parole di vita. Al contrario, bisogna
ammonire coloro che intendono, certo rettamente, le parole della
legge, ma non ne parlano umilmente, ad esaminare se stessi alla luce
dei discorsi sacri, prima di proporli agli altri, perché non accada
che nel perseguire le azioni altrui, trascurino se stessi; e mentre
intendono rettamente ogni cosa della Sacra Scrittura non tralascino
di fare attenzione solamente a ciò che in essa si dice contro coloro
che si esaltano. Poiché è disonesto e ignorante, il medico che
desidera curare la ferita altrui e ignora quella di cui egli stesso
soffre. Pertanto, coloro che non predicano umilmente le parole di
Dio, bisogna certamente ammonirli — quando si applicano a medicare
i malati — a esaminare anzitutto il veleno della peste che portano
addosso, affinché mentre curano gli altri non muoiano loro. Bisogna
ammonirli a considerare che lo spirito con cui parlano non contrasti
con la santità della Parola, e non accada che nella loro
predicazione dicano una cosa e ne mostrino un’altra. Ascoltino
dunque ciò che è scritto: Se
uno parla, siano
come discorsi di Dio (1
Pt. 4,11). Pertanto perché coloro che pronunciano parole che
non sono loro proprie, se ne vantano come se fossero loro? Ascoltino
ciò che sta scritto: Parliamo
come da Dio, di
fronte a Dio, in
Cristo (2 Cor.
2, 17). Infatti parla da Dio, di fronte a Dio, colui che capisce di
avere ricevuto da Dio la parola della predicazione e cerca, con essa,
di piacere a Dio e non agli uomini. Ascoltino ciò che è scritto: È
abominazione del Signore ogni arrogante (Prov.
16, 5). Poiché, evidentemente, mentre cerca la propria gloria nella
parola di Dio, usurpa il diritto di colui che la dà, e non teme di
posporre alla lode di sé colui dal quale ha ricevuto proprio ciò
che viene lodato. Ascoltino ciò che viene detto al predicatore per
mezzo di Salomone: Bevi
l’acqua della tua cisterna e quella che sgorga dal tuo pozzo; le
tue sorgenti scorrano al di fuori e dividi le acque nelle
piazze. Abbile
tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te (Prov.
5, 15-17). Dunque, il predicatore beve acqua dalla sua cisterna,
quando rientrando nel suo cuore ascolta, lui per primo, ciò che
dice. Beve l’acqua che scorre dal suo pozzo, se viene irrigato
dalla sua parola. Ed è ben detto ciò che si aggiunge: Le
tue sorgenti scorrano al di fuori e dividi le acque nelle
piazze (Prov.
5, 16); poiché è giusto che beva lui, prima, e poi predicando
faccia rifluire sugli altri. Infatti, fare scorrere le fonti al di
fuori significa infondere esteriormente agli altri la forza della
predicazione. Dividere poi le acque nelle piazze corrisponde a
dispensare il divino discorso ad un grande numero di ascoltatori a
seconda della qualità di ciascuno. E poiché per lo più, mentre la
parola di Dio si diffonde e giunge a conoscenza di molti, si insinua
il desiderio di una gloria vana, dopo che è stato detto: Dividi
le acque sulle piazze, giustamente
si soggiunge: abbila
tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te. Chiama
cioè stranieri gli spiriti maligni dei quali, per mezzo del profeta
si dice, con la voce di un uomo nella tentazione: Stranieri
sono insorti contro di me e dei forti hanno cercato la mia vita (Sal.
53, 5). Dice dunque: Dividi le acque nelle piazze e tuttavia abbile
tu solo; come se dicesse apertamente: È necessario che tu serva
esteriormente la predicazione in modo da non unirti, attraverso
l’esaltazione, agli spiriti iniqui e da non ammettere, nel
ministero della parola divina, i tuoi nemici coane tuoi partecipi.
Pertanto, dividiamo l’acqua nelle piazze e tuttavia la possediamo
da soli, quando esteriormente diffondiamo ampiamente la predicazione
e tuttavia non aspiriamo affatto ad ottenere la lode degli uomini
attraverso di essa.
25
— Come bisogna ammonire coloro che rifiutano l’ufficio
della predicazione per eccessiva umiltà e coloro che se ne
impadroniscono con fretta precipitosa
Diverso
è il modo di ammonire coloro che, pur essendo in grado di predicare
degnamente, temono di farlo per eccessiva umiltà, e quelli a cui
sarebbe proibito da qualche difetto o dall’età e tuttavia
l’irruenza li spinge a farlo. Infatti, coloro che potrebbero
predicare utilmente ma ne rifuggono per umiltà eccessiva bisogna
ammonirli, a dedurre da esempi di minor conto, l’entità di quel
che essi trascurano affatto in cose di maggior conto. Se infatti essi
nascondessero, a dei prossimi bisognosi, del denaro in loro possesso,
ne faciliterebbero senz’altro la rovina. Vedano allora con quale
colpa si legano, dal momento che, sottraendo a dei fratelli peccatori
la parola della predicazione, nascondono medicine di vita ad anime
che stanno morendo. Perciò dice bene un sapiente: Sapienza
nascosta e tesoro non visto, quale utilità in
ambedue? (Sir. 20, 32). Se la fame sfinisse la
popolazione ed essi custodissero nascosto del frumento, sarebbero
senza dubbio autori di morte. Considerino dunque con che pena
meritano di essere colpiti loro, che, mentre le anime muoiono di fame
della Parola, non distribuiscono il pane della grazia ricevuta.
Perciò bene è detto per mezzo di Salomone: Chi nasconde il
grano sarà maledetto tra i popoli (Prov. 11, 26); poiché
nascondere il grano significa trattenere presso di sé le parole
della predicazione santa. Una tale persona viene maledetta tra i
popoli perché per la ‘sola colpa del silenzio, viene condannata in
proporzione a quella che sarà la pena di molti, che avrebbe potuto
correggere.
Se
ci fosse chi conosce bene l’arte medica e vedesse una ferita da
incidere e tuttavia ricusasse di farlo, peccherebbe certamente come
responsabile della morte del fratello solo per pigrizia. Vedano
dunque quanto sia grande la colpa in cui si avvolgono, coloro che
mentre riconoscono le ferite dei cuori trascurano di curarle col
taglio delle parole. Perciò è anche ben detto per mezzo del
profeta: Maledetto
chi tiene lontano la sua spada dal sangue (Ger.
48, 10), poiché tener lontano la spada dal sangue corrisponde a
trattenere la parola della predicazione dall’uccidere la vita
carnale. E di questa spada di nuovo è detto: E
la mia spada mangerà le carni (Deut.
32, 42). Costoro dunque, quando nascondono presso chi sé la parola
della predicazione, ascoltino con terrore le divine. sentenze
pronunciate contro di loro. Ascoltino che colui, il quale non volle
commerciare il talento, lo perdette insieme con la sentenza di
condanna (cf. Mt. 25, 24 ss.). Ascoltino come Paolo tanto più si
considerò puro del sangue dei suoi prossimi, quanto più non li
risparmiò dal colpire i loro vizi dicendo: Affermo
davanti a voi, oggi, che
sono puro del sangue di tutti: infatti
non mi sottrassi dall’annunziarvi ogni consigliò di Dio (Atti,
20, 26-27). Ascoltino ciò che Giovanni ammonisce con voce angelica,
quando è detto: Chi
ascolta dica: Vieni (Ap.
22, 17); certo, perché colui nel quale si insinua una voce interiore
chiami altri e trascini là, dove egli stesso è rapito, affinché
non trovi le porte chiuse, nonostante sia stato invitato, se si
avvicina a mani vuote a colui che lo chiama. Ascoltino Isaia, il
quale, poiché aveva taciuto dal ministero della parola, illuminato
dalla luce celeste, con grande voce di pentimento, rimprovera se
stesso dicendo: Guai
a me, perché
ho taciuto (Is.
5, 5). Ascoltino ciò che è promesso per mezzo di Salomone, cioè
che sarà moltiplicata la scienza della predicazione in colui che
avendola già ottenuta non si trattiene da essa per il vizio della
indolenza. Dice infatti: L’anima
che benedice sarà impinguata e chi inebria è lui pure
inebriato (Prov.
11, 25). Infatti, chi benedice esteriormente predicando,
accoglie la pinguedine della crescita interiore; e mentre non cessa
di inebriare l’animo degli ascoltatori col vino della Parola,
cresce a sua volta inebriato dalla bevanda del dono così
moltiplicato. Ascoltino ciò che David offri in dono a Dio, poiché
non nascose la grazia della predicazione che aveva ricevuto,
dicendo: Ecco, non
terrò chiuse le mie labbra, Signore, tu
lo sai: non
ho nascosto nel mio cuore la tua giustizia, la
tua verità e la tua salvezza ho proclamato (Sal.
39, 10-11). Ascoltino ciò che si dice nel colloquio dello sposo con
la sposa: Tu
che abiti nei giardini, gli
amici [ti] ascoltano; fammi
udire la tua voce (Cant.
8, 13). È la Chiesa che abita nei giardini, e conserva le
pianticelle ben coltivate delle virtù per un rigoglio interiore. E
gli amici che ascoltano la sua voce sono gli eletti e coloro che
desiderano la parola della sua predicazione. Ed anche lo sposo
desidera di udire quella voce, poiché anch’egli anela alla sua
predicazione attraverso le anime dei suoi eletti. Ascoltino come
Mosé, vedendo che Dio era adirato col popolo e ordinando di dare il
via alla vendetta, con la spada, dichiarò che erano dalla parte di
Dio coloro che senza esitazione avrebbero colpito il delitto dei
peccatori, dicendo: Se
uno è del Signore, si
unisca a me; ponga
ogni uomo la spada sulla sua coscia: andate
e tornate da porta a porta attraversando l’accampamento nel mezzo e
ciascuno uccida il fratello e l’amico e il suo prossimo (Es.
32, 27). Porre la spada sulla coscia è anteporre l’amore
della predicazione ai piaceri della carne, poiché, quando uno
desidera di parlare di cose sante, bisogna che abbia cura di
sottomettere le suggestioni illecite. Andare, poi, da una porta
all’altra è passare col rimprovero da un vizio all’altro, poiché
da essi entra la morte per l’anima. Attraversare il campo nel mezzo
significa vivere nella Chiesa con tanto disinteresse che colui il
quale rimprovera le colpe dei peccatori non si deve piegare a
favorire alcuno. Perciò giustamente si aggiunge: L’uomo
forte uccida il fratello, l’amico
e il suo prossimo. Cioè,
uccide il fratello, l’amico, il prossimo, colui che quando scopre
qualcosa degno di punizione, non risparmia dalla spada del rimprovero
neppure coloro che ama per legame di parentela. Se dunque è detto
appartenente a Dio colui che è eccitato dallo zelo dell’amore
divino a colpire i vizi, negano certamente di essere di Dio coloro
che rifiutano di rimproverare, in quanto possono, la vita di uomini
carnali. Al contrario, coloro ai quali, o una imperfezione naturale o
l’età proibisce l’ufficio della predicazione e tuttavia vi sono
spinti dall’irruenza, bisogna ammonirli a non tagliarsi la via di
un miglioramento successivo coll’arrogarsi, nella loro irruenza, il
peso di un ufficio così grave; e a non perdere anche ciò che
avrebbero potuto compiere, prima o poi ma al tempo giusto,
coll’impadronirsi, fuori tempo, di ciò di cui non sono capaci; e
quindi di non mostrare di avere giustamente perduto questa scienza
della predicazione, perché si sono sforzati a ostentarla
impropriamente. Bisogna ammonirli a considerare che, se i piccoli
degli uccelli vogliono volare prima di avere tutte le penne, dal
luogo che abbandonano, nella brama di salire in alto, precipitano nel
profondo. Bisogna ammonirli a considerare che, se si pone il peso di
una travatura sopra strutture recenti e non ancora consolidate, non
si fabbrica una abitazione ma un crollo. Bisogna ammonirli a
considerare che se le donne partorissero i figli concepiti prima che
fossero pienamente formati, non riempirebbero le case, ma le tombe. È
perciò, infatti, che la Verità stessa, che pure avrebbe potuto dare
subito una tale forza a chi voleva, per lasciare un esempio a quelli
che sarebbero venuti in seguito, perché non avessero la presunzione
di predicare quando non fossero ancora in grado di farlo, dopo avere
pienamente istruito i discepoli sulla virtù della predicazione,
aggiunse immediatamente: Voi
però rimanete nella città finché siate rivestiti della virtù
dall’alto (Lc.
24, 49). Dunque noi restiamo in città se ci chiudiamo nel
chiostro del nostro animo per non andare vagando coi discorsi
all’esterno; e usciamo invece fuori di noi stessi per istruire
anche gli altri, solo allora quando ci siamo rivestiti pienamente
della virtù divina. Perciò è detto per mezzo di un
sapiente: Giovane, parla
solo se ti è proprio necessario, e
se sei interrogato due volte, allora
incomincia a parlare (Sir.
32, 10). È perciò che il medesimo nostro Redentore, pur essendo
creatore e sempre, nella manifestazione della sua potenza, dottore
degli angeli, nei cieli; in terra, non volle essere maestro degli
uomini prima dei trent’anni; ciò evidentemente per infondere nei
precipitosi la forza di un sanissimo timore, in quanto anch’egli
stesso che non avrebbe potuto cadere, non predicava la grazia di una
vita perfetta se non dopo avere compiuto l’età; poiché sta
scritto: Quando
ebbe dodici anni, il
bambino Gesù rimase a Gerusalemme (Lc.
2, 42), e poco dopo si aggiunge di lui, il quale era stato
ricercato dai genitori: Lo
trovarono nel Tempio che sedeva in mezzo ai dottori, li
ascoltava e interrogava (Lc.
2, 46). Dunque, bisogna considerare attentamente che, quando si parla
di Gesù dodicenne che sedeva in mezzo ai dottori, si dice che viene
trovato a interrogare, non a insegnare. Con questi esempi,
evidentemente, si vuole dimostrare che nessuno, che non ne abbia la
forza, deve osare insegnare, se quel bambino, con le sue domande,
volle essere istruito; lui, che per la potenza della sua divinità
aveva dispensato la parola della scienza ai suoi stessi dottori. Ma
quando per mezzo di Paolo si dice al discepolo: Ordina
queste cose e insegna; nessuno
disprezzi la tua adolescenza (1
Tim. 4, 11-12), dobbiamo intendere che, nel discorso sacro, talvolta
la giovinezza è chiamata adolescenza. E ciò si dimostra subito
citando ad esempio le parole di Salomone: Gioisci
giovane, nella
tua adolescenza (Qo.
11, 9). Infatti se non avesse inteso l’una e l’altra come
una cosa sola, non avrebbe chiamato giovane colui che ammoniva nella
sua adolescenza.
26
— Come bisogna ammonire coloro a cui tutto, e
coloro a cui nulla accade secondo la loro volontà
Diverso
è il modo di ammonire coloro che prosperano nei beni temporali, in
tutto quanto desiderano, e coloro che, pure accesi di desiderio delle
cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa.
Infatti, i primi bisogna ammonirli a non trascurare di cercare colui
che dà, dal momento che hanno tutto quanto basta al loro desiderio;
e a non fissare il proprio animo nelle cose che sono loro date, così
da amare il cammino verso la patria, invece che la patria stessa; a
non mutare gli aiuti ricevuti per il viaggio in ostacoli al
raggiungimento della meta e, dilettati dalla luce notturna della
luna, a non rifuggire dalla vista luminosa del sole. Così, bisogna
ammonirli a non credere che tutti quanti i beni che conseguono in
questo mondo siano il premio di quel che hanno meritato, e non,
invece, sollievo dalla sventura; levino la mente contro i favori del
mondo, per non soccombere in essi col cuore tutto preso dal loro
diletto. Infatti, chiunque nella considerazione del suo cuore non
reprime la prosperità di cui gode con l’amore di una migliore
vita, rende i vantaggi di una vita che passa occasione di una morte
perpetua. È perciò infatti che coloro i quali si rallegrano dei
successi di questo mondo vengono rimproverati, in persona degli
Idumei che si lasciarono vincere dalla loro prosperità, quando è
detto: Si
presero la mia terra in eredità con gioia, con
tutto il cuore, con
tutta l’anima (Ez.
36, 5). E da queste parole si può considerare che non è solamente
perché godono, ma è perché godono con tutto il cuore e con tutta
l’anima che vengono colpiti con un severo rimprovero. Perciò dice
Salomone: Il
rifiuto dei piccoli li ucciderà e la prosperità degli stolti li
perderà (Prov.
1, 32). Perciò Paolo ammonisce dicendo: Chi
compra come se non possedesse, chi
usa di questo mondo come se non ne usasse (1
Cor. 7, 30). Ciò, per dire che quanto abbiamo in abbondanza
deve servirci esteriormente così da non distoglierci l’animo
dall’amore della gioia celeste. Le cose che ci offrono un aiuto,
finché siamo nell’esilio, non indeboliscano in noi il lutto
dell’intimo stato di pellegrini; e non godiamo, come gente felice,
di beni passeggeri, noi che ora ci vediamo infelici, lontano da
quelli eterni. È perciò infatti che la Chiesa dice, con la voce
degli eletti: La
sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia (Cant.
2, 6). Dio ha posto la sua sinistra, cioè la prosperità della
vita presente, sotto il capo, e la preme la tensione verso l’amore
sommo; ma la destra di Dio l’abbraccia poiché la Chiesa nella
offerta di sé è tutta contenuta nella sua eterna beatitudine.
Perciò ancora è detto per mezzo di Salomone: Lunghezza
di giorni nella sua destra, e
nella sua sinistra le sue ricchezze e la sua gloria (Prov.
3, 16). E insegna, così, come si debbano usare ricchezze e gloria
che egli pone nella mano sinistra. Perciò dice il salmista: La tua
destra mi fa salvo (Sal. 107, 7). Infatti non dice mano, ma destra,
evidentemente per indicare, dicendo destra, che era la salvezza
eterna che egli cercava. Perciò ancora è scritto: La
tua destra Signore ha infranto i nemici (Es.
15, 6. LXX); infatti i nemici di Dio, quantunque nella sua
sinistra si avvantaggino, dalla destra sono infranti, poiché per lo
pin la vita presente innalza i malvagi, ma l’avvento della felicità
eterna li condanna. Bisogna ammonire coloro che godono della
prosperità in questo mondo, a considerare accortamente che la
prosperità di questa vita talvolta è data proprio per incitare ad
una vita migliore e altra volta invece per una più piena dannazione
eterna. È perciò infatti che viene promessa al popolo
israelita la terra di Canaan, perché prima o poi sia incitato alle
speranze eterne. Né d’altra parte quel rozzo popolo avrebbe
creduto alle promesse di Dio,. riguardanti il futuro, se non avesse
ricevuto, da colui che le aveva fatte, qualcosa anche al presente.
Dunque, per dare una più solida certezza alla [sua] fede nei beni
eterni, non è solo con la speranza che lo si attira a quei beni, ma
è pure coi beni temporali che lo si conduce a sperare. E ciò è
chiaramente attestato dal salmista che dice: Diede
ad essi i territori delle genti e possedettero il frutto delle
fatiche di quei popoli, perché
custodissero i suoi decreti e ricercassero la sua legge (Sal.
104, 44). Ma quando l’anima dell’uomo non corrisponde con le
buone opere a Dio, che è largo verso di essa, proprio a causa di
quei beni che si crede le siano alimento alla pietà, essa viene più
giustamente condannata. Perciò, infatti, si dice ancora per mezzo
del salmista: Li
hai abbattuti mentre si consolavano (Sal.
72, 18). Poiché, quando i reprobi non corrispondono ai doni di Dio
con opere di giustizia, quando abbandonano completamente se stessi in
questa vita e si lasciano andare alla sovrabbondanza del benessere,
ciò per cui esteriormente hanno successo è la causa della loro
caduta spirituale. Ed è perciò che al ricco tormentato nell’inferno
si dice: Hai
ricevuto beni nella tua vita (Lc.
16, 25). Infatti anche il cattivo riceve beni in questa vita, proprio
per questo, cioè per ricevere più pienamente il male nell’altra;
poiché qui non si è convertito neppure per mezzo di quei beni. Al
contrario, coloro che pure accesi di desiderio delle cose mondane,
durano la fatica di una pesante fortuna avversa, bisogna ammonirli ad
apprezzare con attenta considerazione, con quanta grazia il Creatore,
che dispone tutto, vigila su di loro, non permettendo che si lascino
andare ai loro desideri. Giacché, al malato senza speranza di
guarigione, il medico concede di prendere tutto ciò che desidera, ma
chi si crede possa guarire, si proibiscono molte cose di cui egli
sente voglia. Inoltre, non diamo soldi in mano ai bambini, ai quali
pure riserviamo tutto intero il patrimonio in quanto ne sono eredi.
Perciò dunque, gioiscano della speranza della eredità eterna,
coloro che sono umiliati dall’avversità della vita temporale,
perché, se la dispensazione divina non li riguardasse come fatti per
la salvezza eterna, non li frenerebbe sotto il governo della
disciplina. Pertanto bisogna ammonire coloro che, accesi dal
desiderio di beni temporali, durano la fatica di una pesante fortuna
avversa, a considerare con premura che spesso anche i giusti, quando
la potenza mondana li esalta, sono afferrati come in un laccio dalla
colpa. Così, come abbiamo già detto nella prima parte di
quest’opera (I, par. 3), David amato da Dio fu più giusto nel
periodo del suo servizio che quando giunse al regno. Infatti, da
servo, per amore della giustizia, ebbe timore di colpire l’avversario
che aveva nelle mani (cf. 1 Sam. 24, 18); da re, invece, indotto
dalla lussuria, uccise un soldato devoto con studiata frode (cf. 2
Sam. 11, 7). Chi, dunque, potrà cercare senza danno ricchezze,
potere e gloria se queste cose furono dannose perfino a colui che le
ebbe senza averle cercate? Chi, in mezzo ad esse, potrà salvarsi
senza correre la fatica di un grande pericolo, se colui che era stato
preparato ad esse dalla scelta di Dio rimase turbato dalla colpa
che vi si era insinuata? Bisogna ammonirli a considerare come non si
ricorda che Salomone — il quale viene descritto come chi cadde
nell’idolatria pur dopo aver ricevuto tanta sapienza (1 Re, 11, 4
ss.) — avesse avuto in questa vita alcuna avversità prima di
cadere, ma dopo che gli fu concessa la sapienza, lasciò andare
completamente il suo cuore, che nessuna tribolazione, neppure la più
piccola, aveva custodito con la sua disciplina.
27
— Come si devono ammonire i coniugati e i celibi
Diverso
è il modo di ammonire quelli che sono vincolati dal matrimonio, e
quelli che sono liberi dal vincolo matrimoniale. Bisogna ammonire i
primi, quando pensano vicendevolmente l’uno all’altro, a
studiarsi di piacere al coniuge in modo da non dispiacere al
Creatore; e trattino le cose di questo mondo così: da non
tralasciare di aspirare a quelle che sono di Dio; e godano dei beni
presenti così da temere tuttavia, con viva attenzione, i mali
eterni; e piangano i mali presenti in modo dà fissare però, con
intatta consolazione, la loro speranza nei beni eterni, dal momento
che sanno che ciò che fanno passa, e ciò cui aspirano resta; né i
mali del mondo spezzino il loro cuore; poiché la speranza dei beni
eterni lo conforta; né i beni della vita presente lo ingannino,
poiché lo rattrista il timore dei mali del giudizio futuro. E così,
l’animo degli sposi cristiani è insieme debole e fedele, tale che
non è capace di disprezzare pienamente tutti i beni temporali, e
tuttavia è capace di unirsi, nel desiderio, alle realtà eterne; e
quantunque per ora giaccia nel piacere della carne, si rinvigorisce
con l’alimento della speranza celeste. Dunque se nel viaggio usa
delle cose del mondo, spera in quelle di Dio come frutto della meta
raggiunta; e non si consegni interamente a ciò che fa per non cadere
del tutto da ciò che avrebbe dovuto sperare con forza. Paolo esprime
bene e brevemente ciò, dicendo: Chi
ha moglie sia come se non l’avesse; e
chi piange come se non piangesse; e
chi gode come se non godesse (1
Cor. 7, 29-30). Poiché ha moglie come se non l’avesse, colui che
con lei usa della consolazione della carne, in modo che mai,
tuttavia, per amore di lei, si piega, dalla rettitudine della
migliore intenzione, ad azioni depravate. Ha moglie come se non
l’avesse, colui che, vedendo come tutte le cose sono transitorie,
tollera per necessità la cura della carne, ma lo spirito attende con
tutto il desiderio le gioie eterne. Piangere non piangendo è
piangere le avversità esteriori sapendo tuttavia godere della
consolazione della speranza eterna. E, ancora, godere non godendo è
innalzare tanto l’animo dalle bassezze, che esso non cessi mai di
temere le realtà supreme. E qui, appropriatamente, poco dopo
aggiunge pure: Passa, infatti, la
figura di questo mondo (1
Cor. 7, 31). Come se dicesse apertamente: Non amate stabilmente
il mondo, dal momento che ciò stesso che amate non può rimanere;
vanamente fissate il cuore come se foste destinati a rimanere, mentre
fugge colui stesso che amate. Bisogna ammonire i coniugi a tollerare
a vicenda, con pazienza, ciò in cui talvolta l’uno dispiace
all’altro; e a salvarsi esortandosi a vicenda. Infatti è
scritto: Portate
a vicenda i vostri pesi e così adempirete la legge di Cristo (Gal.
6, 2). E la legge di Cristo è la carità; poiché per essa egli ci
ha donato largamente i suoi beni e con mitezza ha portato i
nostri mali. Dunque, adempiremo la legge di Cristo come i suoi
imitatori quando offriremo benignamente i nostri beni e sosterremo
con spirito di pietà i mali del nostro prossimo. Bisogna ammonirli
pure a badare, ciascuno di essi, non tanto a ciò che l’uno deve
sopportare dall’altro quanto a ciò che l’altro deve sopportare
di suo. Se infatti ciascuno considera i pesi che lui fa portare,
porta a sua volta più leggermente i pesi altrui che deve sostenere.
Bisogna ammonire gli sposi a ricordarsi che essi sono uniti allo
scopo di avere figli, e quando, servendo ad una unione sfrenata,
mutano il momento della propagazione in pratica del piacere,
considerino che, anche se ciò non avviene al di fuori dell’unione
matrimoniale, tuttavia nel matrimonio stesso essi oltrepassano i
diritti del matrimonio. Per cui è necessario che, con frequenti
orazioni, cancellino ciò che, per la mescolanza col piacere, macchia
la bellezza dell’atto coniugale. È perciò infatti che l’Apostolo,
esperto di medicina celeste, non ammaestrò tanto i sani, quanto
mostrò i rimedi ai malati dicendo: Quanto
a ciò che mi avete scritto: È
bene per l’uomo non toccare donna; ma
per rimedio alla fornicazione ciascuno abbia la propria moglie e
ciascuna abbia il proprio marito (1
Cor. 7, 1-2). Ma se mise avanti il timore della fornicazione,
certo non stabili il precetto per quelli che stanno saldi in piedi,
bensì mostrò un letto a coloro che cadono perché non rovinassero
in terra. Perciò ancora, ai vacillanti, aggiunse: Il
marito dia alla moglie ciò che le deve e così la moglie al
marito (1 Cor.
7, 3); ma, nel fare ad essi qualche concessione riguardo al
piacere, nell’ambito di una onestissima unione, aggiunse: Ma
questo lo dico per indulgenza, non
per comando (1
Cor. 7, 6); e accenna evidentemente che si tratta di colpa; poiché
parla di un oggetto di indulgenza, ma di colpa tale che tanto più
presto è condonata in quanto con essa non si compie qualcosa di
illecito in sé, ma piuttosto non si contiene, in un ambito di
moderazione, ciò che di per sé è lecito. Ed è ciò che Lot
esprime bene in se stesso quando fugge Sodoma in fiamme e tuttavia,
trovando Segor, non sali subito la montagna (cf. Gen. 19, 30).
Fuggire Sodoma in fiamme significa rinunciare agli incendi illeciti
della carne, e l’altezza dei monti è la purezza delle persone
continenti. Ora, sono certamente come chi sta sul monte perfino
coloro che, pur aderendo all’unione carnale, tuttavia non si
abbandonano ad alcun piacere della carne al di fuori di quell’atto
compiuto per avere figli. Stare sul monte, cioè, significa non
cercare nella carne se non il frutto della generazione. Stare sul
monte significa non aderire carnalmente alla carne. Ma poiché ci
sono molti che rinunciano ai peccati della carne e tuttavia, posti
nello stato matrimoniale; non ne osservano solamente i diritti del
suo debito uso, usci appunto Lot da Sodoma e tuttavia non giunse
subito sui monti, a indicare che quando già è abbandonata la vita
degna di condanna, l’altezza della continenza coniugale non è però
ancora raggiunta in tutta la sua perfezione. Ma c’è nel mezzo la
città di Segor, per salvare il debole che fugge, poiché
naturalmente, quando i coniugi si uniscono a causa dell’incontinenza,
fuggono la caduta del peccato e tuttavia si salvano per
condiscendenza. È come se trovassero una piccola città che li
difende dal fuoco, poiché una tale vita coniugale non è certo
mirabile per la virtù e tuttavia è sicura dal castigo. Perciò il
medesimo Lot dice all’angelo: C’è
qui vicino una piccola città in cui posso rifugiarmi e mi salverò
in essa. Non
è forse modesta, e
la mia anima vivrà in essa? (Gen.
19, 20). Dunque, è detta vicino e tuttavia è indicata come sicura
per la salvezza, poiché la vita coniugale non è separata di molto
dal mondo e tuttavia non è estranea alla gioia della salvezza. I
coniugi però, in tale stato, custodiscono la loro vita come in una
piccola città, quando intercedono per se stessi con suppliche
assidue. Perciò viene detto anche al medesimo Lot, per mezzo
dell’angelo: Ecco, ho
ascoltato le tue preghiere anche in questo: non
distruggerò la città in favore della quale hai parlato (Gen.
19, 21); poiché è chiaro che non è condannata quella vita
matrimoniale in cui i coniugi si rivolgono a Dio con la supplica,
riguardo alla quale anche Paolo ammonisce dicendo: Non
privatevi l’uno dell’altro se non d’accordo e per un tempo
stabilito, per
essere liberi per la preghiera (1
Cor. 7, 5). Al contrario, coloro che non sono legati nel
matrimonio bisogna ammonirli a servire tanto pin rettamente i
comandamenti divini quanto meno li inclina alle cure del mondo il
giogo dell’unione carnale; e poiché non sono gravati dal peso
lecito del matrimonio, non gravi su di loro il peso illecito della
preoccupazione terrena, ma l’ultimo giorno li trovi tanto più
pronti quanto più leggeri; e poiché, liberi come sono, possono
compiere opere tanto più meritorie, non le trascurino così da
meritare, per questo, supplizi tanto più gravi. Ascoltino
l’Apostolo, il quale, volendo formare alcuni alla grazia del
celibato, non disprezzò il matrimonio, ma respinse le cure mondane
che nascono da esso dicendo: Ciò
lo dico per vostra utilità, non
per gettarvi un laccio; ma
per indicarvi ciò che è onesto e offre la possibilità di servire
Dio senza impedimento (1
Cor. 7, 35). Dal matrimonio, dunque, procedono le preoccupazioni
terrene, e perciò il maestro delle genti volle persuadere i suoi
ascoltatori a cose migliori perché non si legassero alla
preoccupazione terrena. Pertanto, il celibe, trattenuto
dall’impedimento delle cure temporali, è uno che non si è
sottoposto al matrimonio e tuttavia non è sfuggito ai suoi pesi.
Bisogna ammonire i celibi a non pensare di potersi unire a donne di
liberi costumi, senza incorrere nel giudizio di condanna. Infatti,
quando Paolo inserì il vizio della fornicazione fra tanti peccati
esecrabili, indicò la sua gravità dicendo: Né
i fornicatori né gli idolatri né gli adulteri né gli effeminati né
gli omosessuali né i ladri né gli avari né gli ubriachi né i
maldicenti né i rapaci possiederanno il regno di Dio (1
Cor. 6, 9-10). E ancora: I
fornicatori e gli adulteri li giudicherà Dio (Ebr.
13, 4). Pertanto se sopportano le. tempeste delle tentazioni con
pericolo della salvezza, bisogna ammonirli a cercare il porto del
matrimonio, infatti è scritto: È meglio
sposarsi che ardere (1
Cor. 7, 9). Non è colpa se si sposano, purché in precedenza
non si siano impegnati con voti a uno stato di vita più perfetto.
Infatti, chi si era proposto un bene maggiore, rende illecito il bene
minore che prima gli sarebbe stato lecito. Perciò è
scritto: Nessuno
che mette la mano all’aratro e si volta a guardare indietro è
adatto al regno dei cieli (Lc.
9, 62). Dunque, chi si era rivolto a un interesse più forte è
convinto a guardare indietro se, abbandonati i beni maggiori, ripiega
sui minimi.
28
— Come bisogna ammonire quelli che hanno esperienza dei
peccati della carne e quelli che non l’hanno
Diverso
è il modo di ammonire coloro che conoscono i peccati della carne e
quelli che ne sono ignari. Quelli che ne hanno esperienza, bisogna
ammonirli a temere il mare, almeno dopo il naufragio, e a guardarsi
con orrore dai pericoli della loro perdizione che già conoscono; ed
essi, che sono stati salvati dalla pietà di Dio dopo avere commesso
il male, non debbano morire ripetendolo malvagiamente. Così,
all’anima che pecca e non cessa mai dal peccare è detto: Sei
divenuta sfrontata come una meretrice e non vuoi arrossire (Ger.
3, 3). Pertanto bisogna ammonirli, se non hanno voluto
conservare integri i beni naturali ricevuti, ad applicarsi, a
riparare almeno quelli infranti. È assolutamente necessario, per
loro, considerare quanti sono quelli che, in un così grande numero
di fedeli, si custodiscono illibati e convertono gli altri
dall’errore. Come pensano di difendersi costoro se, mentre altri
restano saldi nella loro integrità, essi non rinsaviscono neppure
dopo avere sentito il danno? Come pensano che potranno difendersi se,
mentre molti conducono con sé altri al Regno, essi non riconducono
neppure se stessi al Signore che li attende? Bisogna ammonirli a
considerare i peccati passati e ad evitare i futuri. Perciò, il
Signore, per mezzo del profeta, ricorda alle menti corrotte in questo
mondo — rappresentate dalla Giudea — le colpe commesse, affinché
arrossiscano di contaminarsi con colpe future, dicendo: Hanno
fornicato in Egitto, hanno
fornicato nella loro adolescenza; là
fu compresso il loro petto e furono violati i loro seni
verginali (Ez.
23, 3). In Egitto viene compresso il petto, quando la volontà
del cuore dell’uomo soggiace al turpe desiderio di questo mondo. In
Egitto vengono violati i seni verginali, quando i sensi naturali
ancora integri in se stessi, restano viziati dalla corruzione della
concupiscenza che preme. Bisogna ammonire coloro che hanno esperienza
di peccati della carne a guardare con vigile cura, con, quanta
benevolenza Dio ci allarghi il seno della sua pietà, quando dopo il
peccato ritorniamo a Lui, là dove dice, per mezzo del profeta: Se
un uomo avrà rimandato la moglie ed essa andandosene prenderà un
altro marito, forse
egli tornerà ancora da lei? Non sarà stata macchiata e contaminata
quella donna? Ma tu hai fornicato con molti amanti, tuttavia
ritorna a me, dice
il Signore (Ger.
3, 1). Ecco, una donna fornicatrice e per questo abbandonata è
proposta come un esempio di giustizia; e a noi, se dopo la caduta
ritorniamo, non viene offerta giustizia ma pietà. Da ciò possiamo
renderci conto di quanto sia grande la iniquità con cui pecchiamo se
non torniamo a lui dopo il peccato, mentre lui ci risparmia con tanta
pietà quando ancora lo stiamo compiendo; o quale sarà l’indulgenza
per gli iniqui, che egli non cessa di chiamare dopo la colpa. Questa
misericordia della chiamata è ben espressa per mezzo del profeta
quando si dice all’uomo che si è ribellato: E
i tuoi occhi vedranno il tuo maestro e le tue orecchie udranno la
parola di chi ti ammonisce dietro le spalle (Is.
30, 20). Poiché il Signore ammoni di fronte il genere umano,
quando in paradiso, all’uomo appena creato, e ancor saldo nel suo
libero arbitrio, stabili quello che avrebbe potuto fare e non fare.
Ma l’uomo voltò le spalle di fronte a Dio, quando insuperbendo
disprezzò i suoi ordini. E tuttavia il Signore non l’abbandonò
nella superbia, lui che diede la legge per richiamarlo, mandò angeli
ad esortarlo e apparve egli stesso nella nostra carne mortale.
Dunque, stando dietro le nostre spalle, ci ammonisce, lui che anche
disprezzato ci chiamò a riottenere la grazia. Ciò che dunque poté
essere detto al profeta in generale per tutti gli uomini insieme, è
necessario sentirlo in particolare dei singoli. Infatti, quando uno
conosce i precetti della volontà di Dio, prima di commettere il
peccato è come se ascoltasse le parole del suo ammonimento standogli
di fronte. Ed è ancora stare davanti al suo volto, il non
disprezzare Dio col peccato. Ma quando, abbandonato il bene
dell’innocenza, l’uomo brama e sceglie l’iniquità, ha già
voltato le spalle al suo volto. E tuttavia ancora, standogli dietro
le spalle, il Signore lo segue e lo ammonisce e vuole persuaderlo,
anche dopo la colpa, a ritornare a lui. Richiama chi si è rivolto
indietro, non riguarda le colpe commesse, dilata il seno della sua
misericordia a colui che ritorna. Ascoltiamo dunque la voce che ci
ammonisce se, almeno dopo il peccato, ritorniamo al Signore che ci
invita. Se non vogliamo temere la giustizia, dobbiamo arrossire della
pietà di chi ci chiama perché è tanto più grave l’iniquità con
cui egli è disprezzato, quanto più, pur disprezzato, egli non
disdegna di chiamare ancora. Al contrario, bisogna ammonire coloro
che non hanno esperienza di peccati della carne, a temere con tanta
maggior cura di rovinare nel precipizio, quanto più in alto stanno.
Bisogna ammonirli a sapere che quanto è più in vista il posto in
cui sono collocati, tanto più frequenti sono le frecce con cui
l’insidiatore li assale. Egli con tanto maggior ardore suole
rialzarsi, quanta più è la forza da cui si vede vinto; e tanto più
si indigna d’essere vinto, in quanto vede combattergli contro gli
integri accampamenti della carne inferma. Bisogna ammonirli a non
cessare di raccogliere i premi [della vittoria], e così, senza
dubbio, calpesteranno volentieri le fatiche delle tentazioni che
devono sopportare. Se infatti si mira alla felicità a cui si attinge
eternamente, diviene lieve ciò che si fatica ed è però passeggero.
Ascoltino ciò che è detto per mezzo del profeta: Queste
cose dice il Signore agli eunuchi che hanno osservato i miei
sabati, che
hanno scelto ciò che io voglio e hanno mantenuto il mio patto: darò
loro nella mia casa e nelle mie mura un luogo e un nome migliore che
ai figli e alle figlie (Is.
56, 4-5). Sono eunuchi coloro che, trattenuti i moti della
carne, tagliano in se stessi l’amore dell’opera iniqua. E quale
sia il posto che essi hanno presso il Padre, è manifesto, poiché
nella casa del Padre, cioè nella dimora eterna, essi sono preferiti
anche ai figli. Ascoltino ciò che è detto per mezzo di
Giovanni: Questi
sono coloro che non si sono contaminati con donne: infatti
sono vergini e seguono l’Agnello dovunque vada (Ap.
14, 4). E cantano quel cantico che nessuno può pronunciare se non
quei centoquarantaquattromila. Cantare poi, loro soli, il canto
all’Agnello è godere con lui in eterno, sopra tutti i fedeli,
anche dell’incorruzione della carne. E che tuttavia gli altri
eletti possano sentire il cantico, pur non potendo pronunciarlo, è
perché la carità li fa lieti della eccelsa beatitudine di quelli,
quantunque loro non possano raggiungerla. Ascoltino, gli ignari dei
peccati della carne, ciò che la Verità stessa dice di questa
integrità: Non
tutti comprendono questa parola (Mt.
19, 11). Accenna alla sua grandezza negando che sia di tutti; e
avvertendo che difficilmente è compresa, fa intendere a chi ascolta
con quanta cautela, quando si sia compresa, debba essere conservata.
Bisogna dunque ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati
della carne, a sapere che la verginità è superiore al matrimonio, e
tuttavia a non esaltarsi nei confronti degli sposati affinché,
scegliendo la verginità e posponendosi agli altri, non abbandonino
ciò che stimano il meglio e si custodiscano dall’esaltarsi
vanamente. Bisogna ammonirli a considerare che spesso la vita delle
persone continenti deve arrossire del confronto con l’operosità di
chi vive nel secolo, quando questi operano oltre ciò che è
richiesto dalla loro situazione, e quelli non eccitano il loro cuore
in corrispondenza al loro stato. Perciò è ben detto per mezzo del
profeta: Arrossisci, Sidone, dice
il mare (Is.
23, 4). Infatti, quando la vita di colui che appare ben difeso
e, in un certo senso, stabile, viene riprovata nel confronto con
quella di chi vive nel secolo, sbattuto dai flutti di questo mondo, è
come se Sidone fosse indotta alla vergogna dalla voce del mare.
Giacché spesso molti che, dopo aver commesso peccati della carne,
ritornano al Signore, si prestano con tanto più ardore nelle buone
opere, quanto più si vedono degni di condanna per quelle cattive. E
d’altra parte, certuni che perseverano nell’integrità del corpo,
vedendo di avere meno di che dolersi, pensano che sia pienamente
sufficiente, quanto a loro, l’innocenza della propria vita e non
infiammano il loro spirito con alcuno stimolo che ne ecciti il
fervore. Così accade per lo più che sia più gradita a Dio una vita
ardente d’amore dopo il peccato, che una innocenza giacente nel
torpore della propria sicurezza. Perciò è detto per voce del
Giudice: Le
saranno rimessi i molti peccati perché ha molto
amato (Lc. 7,
47); e: Ci sarà
più gioia in cielo per un peccatore pentito che per novantanove
giusti per i quali non c’è bisogno di penitenza (Lc.
15, 7). E lo possiamo capire facilmente dalla stessa pratica se
pensiamo a come giudichiamo noi con la nostra mente: infatti noi
apprezziamo di più una terra che arata — dopo essere stata coperta
di spine — produce ricchi frutti, di quella che non ha mai avuto
spine e tuttavia, anche coltivata, produce messe sterile. Bisogna
ammonire gli ignari del peccato carnale, a non preferirsi agli altri
per via dell’eccellenza di uno stato superiore, quando ignorano
quanto siano migliori le opere di quelli dello stato inferiore,
poiché, nell’esame del giusto Giudice, la qualità delle azioni
muta i meriti dello stato di vita. Chi infatti — per trarre esempi
dalla realtà — non sa che nella natura delle gemme il carbonchio è
più prezioso del giacinto? Ma tuttavia, il colore ceruleo del
giacinto è preferito al pallido carbonchio, poiché ciò in cui
quello è inferiore per lo stato naturale viene avvalorato dalla
bellezza dell’aspetto, e questo, che per lo stato naturale è più
prezioso, viene oscurato dalla qualità del colore. Così dunque fra
gli uomini: alcuni, posti in uno stato superiore, sono peggiori:
altri, posti in uno stato inferiore, sono migliori: perché questi,
vivendo bene, vanno oltre la sorte della condizione più bassa;
mentre quelli diminuiscono il merito della condizione superiore,
perché non le corrispondono con i costumi.
29
— Come bisogna ammonire coloro che piangono peccati di
opere e coloro che piangono peccati solo di pensiero
Diverso
è il modo di ammonire coloro che piangono peccati di opere, e coloro
che piangono peccati di pensiero. Bisogna ammonire i primi a lavare
con un pianto perfetto i peccati compiuti, per non essere
maggiormente stretti dal debito dell’azione commessa, ma diminuire
col pianto la soddisfazione dovuta. Poiché è scritto: Ci
ha dato da bere lacrime in misura (Sal.
79, 6), per dire, cioè, che l’animo di ciascuno, nel suo
pentimento, beva tante lacrime di compunzione, quanto ricorda di
essersi inaridito lontano da Dio, nelle colpe. Bisogna ammonirli a
ricondurre incessantemente davanti ai propri occhi i peccati
commessi, e ad agire nella propria vita in modo che quelli non
debbano più essere veduti dal severo Giudice. Perciò David, quando
pregava dicendo: Distogli
i tuoi occhi dai miei peccati (Sal.
50, 11), poco sopra aveva detto: Il
mio delitto mi sta sempre davanti (Sal.
50, 5); come se dicesse: Chiedo di non guardare al mio peccato perché
io stesso non cesso di guardarlo. Perciò anche, per mezzo del
profeta, il Signore dice: E
non mi ricorderò dei tuoi peccati, ma
tu ricordateli (Is.
43, 25-26. LXX). Bisogna ammonirli a considerare i peccati uno
per uno, e mentre per ciascuno piangono la sozzura del loro errore,
con le lacrime purifichino insieme sé e quelli, interamente. Perciò
è detto bene, per mezzo di Geremia, pensando ai singoli peccati
della Giudea: Il
mio occhio ha fatto scendere acque divise (Lam.
3, 48); poiché noi facciamo scendere dagli occhi corsi d’acqua
divisi, quando spargiamo per ogni singolo peccato la sua parte di
lacrime. Infatti l’animo non prova dolore nello stesso unico
momento per tutti i peccati insieme, ma mentre la memoria è toccata
più acutamente ora dall’uno ora dall’altro, commovendosi per
ciascuno singolarmente, essa si purifica di tutti insieme. Bisogna
ammonirli a confidare con certezza nella misericordia che chiedono,
per non morire sotto la forza di una eccessiva afflizione. Poiché
infatti non sarebbe pietà, nel Signore, porre davanti agli occhi dei
peccatori i peccati da piangere, se per parte sua volesse poi
colpirli severamente. È evidente infatti, che egli ha voluto
sottrarre al suo giudizio coloro che ha fatto giudici di se stessi,
prevenendoli con la sua misericordia. Perciò infatti è
scritto: Preveniamo
il volto del Signore con la confessione (Sal.
94, 2). Perciò è detto per mezzo di Paolo: Se
ci giudicassimo da noi stessi non verremmo giudicati (1
Cor. 11, 31). E ancora bisogna ammonirli ad avere così quella
fiducia che viene dalla speranza, e tuttavia a non intorpidire in una
incauta sicurezza. Spesso, infatti, l’astuto avversario, quando
vede l’animo, che egli insidia col peccato, afflitto per la propria
rovina, lo seduce con gli allettamenti di una pestifera sicurezza.
Ciò è espresso in figura dove si ricorda l’episodio di Dina. È
scritto: Dina
usci per vedere le donne di quella regione; ma
quando la vide Sichem, figlio
di Emor eveo, principe
di quel paese, si
innamorò di lei e la rapi e dormi con lei violando la sua verginità
e la sua anima si uni con lei e alleviò con le carezze la sua
tristezza (Gen.
34, 1-3). E Dina esce per vedere le donne della regione straniera,
ogni volta che un’anima, trascurando l’oggetto del suo proprio
amore e curandosi di attività che le sono estranee, vaga al di fuori
della sua condizione e del suo proprio stato. E allora Sichem,
principe del paese, la viola, ovvero il diavolo, trovatala presa da
occupazioni esterne, la corrompe; e
la sua anima si uni con lei, poiché
la vede unita a sé nell’iniquità. E quando l’anima, rientrata
in sé dalla colpa, si accusa e tenta di piangere il peccato
commesso, allora il corruttore richiama ai suoi occhi le speranze e
le sicurezze vane, per sottrarla alla utile tristezza; perciò
giustamente si aggiunge: e
alleviò con le carezze la sua tristezza. Ora,
infatti, le parla dei più gravi peccati di altri; ora le dice che
quanto ha fatto non è niente e ora che Dio è misericordioso ora le
promette che ci sarà in seguito dell’altro tempo per fare
penitenza, affinché l’anima condotta attraverso questi inganni
tenga in sospeso l’intenzione del pentimento, e poiché, ora,
nessun peccato la rattrista, non riceva, poi, alcun bene, e sia,
allora, più pienamente sommersa dai supplizi, essa che, ora, gode
perfino nei peccati. Bisogna, invece, ammonire coloro che piangono
peccati di pensiero, a considerare accuratamente tra le pieghe
misteriose dell’animo, se hanno peccato solamente col piacere o
anche col consenso. Spesso, infatti, il cuore è tentato e trae
piacere dalla malizia della carne, e tuttavia contrasta con la
ragione a quella malizia; cosicché, nel segreto del pensiero, ciò
che piace rattrista, e ciò che rattrista piace. Ma talvolta l’animo
viene talmente assorbito nel baratro della tentazione da non
resisterle affatto, e, invece, da seguirla deliberatamente dove il
piacere lo spinge; e così che, se si offre la possibilità
esteriore, è pronto a consumare gli intimi desideri, attuandoli coi
fatti. E ciò non è più colpa di pensiero, quando la colpisce la
giusta punizione del severo Giudice, ma è peccato di opera, poiché
quantunque la mancanza della possibilità di attuazione distolga
esteriormente il peccato, nell’intimo, la volontà l’ha compiuto
con l’opera del consenso. Nel progenitore abbiamo imparato che sono
tre i modi con cui perfezioniamo la malizia di ogni colpa: la
suggestione, il piacere, il consenso. La prima si compie attraverso
il nemico, il secondo attraverso la carne, il terzo con lo spirito.
Infatti, l’insidiatore suggerisce il male, la carne si sottopone al
piacere e, all’ultimo, lo spirito vinto consente ad esso. In
effetti, il serpente suggerì il male, Eva, come carne, si sottomise
al piacere; Adamo, come spirito, vinto dalla suggestione e dal
piacere, acconsenti (cf. Gen. 3, 1 ss.). E così, riconosciamo il
peccato dalla suggestione, restiamo vinti dal piacere e ci leghiamo
col consenso. Pertanto, bisogna ammonire coloro che piangono peccati
di pensiero, a considerare con cura l’entità della loro caduta nel
peccato, affinché la misura del loro pianto corrisponda alla rovina
interiore che essi avvertono in se stessi e valga a risollevarli, e
non siano indotti ad attuare, con le opere, quei cattivi pensieri che
meno li affliggono. Ma soprattutto bisogna incutere timore in loro,
non però in modo che ne restino, anche per poco, spezzati. Poiché
spesso Dio misericordioso tanto più in fretta lava i peccati del
cuore, in quanto non permette che essi sfocino nelle opere; e il male
solamente pensato è più rapidamente sciolto, poiché non si lega
così strettamente all’effetto dell’opera. Perciò è detto bene
per mezzo del salmista: Dissi: confesserò
contro di me le mie iniquità al Signore e tu hai rimesso
l’empietà (Sal.
31, 3) del mio cuore. Egli infatti ha sottoposto l’empietà del
cuore, poiché ha indicato di voler confessare i peccati di pensiero.
E mentre dice: Dissi: confesserò, e
subito aggiunse: E
tu hai rimesso, mostra
quanto sia facile su di essi il perdono: mentre ancora si ripromette
di chiedere ha già ottenuto, perché, dato che la colpa non era
pervenuta all’atto, la penitenza non dovesse giungere al grado del
supplizio, ma l’afflizione del pensiero lavasse il cuore che solo
la malizia del pensiero aveva macchiato.
30
— Come bisogna ammonire coloro che non si astengono dai
peccati che piangono, e coloro che si astengono da quelli
commessi ma non li piangono
Diverso
è il modo di ammonire coloro che piangono i peccati commessi e
tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia
non li piangono. Infatti, bisogna ammonire i primi a sapere
considerare con cura che invano si purificano piangendo, coloro che
si macchiano vivendo nel peccato, poiché si lavano con le lacrime
per poter ritornare, lavati, alla lordura. Perciò infatti è
scritto: Il
cane è ritornato al suo vomito e la scrofa lavata a rotolarsi nel
fango (2 Pt.
2, 22). Il cane, cioè, quando vomita rigetta certamente il cibo
che gli opprimeva lo stomaco, ma quando ritorna al vomito, di cui si
era alleggerito, si appesantisce di nuovo. E coloro che piangono i
peccati commessi, certamente rigettano, confessandola, la malizia con
cui si erano malamente saziati e che opprimeva l’intimo dell’animo,
ma la riprendono su di sé quando la ripetono dopo averla confessata.
E la scrofa, con l’arrotolarsi nel fango dopo essersi lavata,
ritorna più sporca di prima. E chi piange i peccati, e tuttavia non
rinuncia ad essi, si sottopone alla pena di una colpa maggiore,
poiché disprezza proprio quel perdono che poté ottenere con le
lacrime, ed è come se si rotolasse nell’acqua fangosa; poiché,
mentre sottrae al suo pianto la purezza della vita [ottenuta con
esso], davanti agli occhi di Dio rende sordide perfino quelle
lacrime. Perciò ancora è scritto: Non
dire due volte una parola nella preghiera (Sir.
7, 15); infatti, dire due volte una parola nella preghiera
corrisponde a commettere, dopo il pianto, ciò che è necessario
tornare a piangere. Perciò è detto per mezzo di
Isaia: Lavatevi, siate
puri (Is. 1,
16); infatti, chi non custodisce l’innocenza della vita dopo il
pianto, trascura di conservarsi puro dopo il lavacro. Pertanto, si
lavano e tuttavia non sono puri, coloro che non cessano di piangere i
peccati commessi, ma continuano a commettere azioni degne di pianto.
Perciò è detto, per mezzo di un sapiente: Se
uno si lava dopo aver toccato un morto e poi lo tocca di nuovo, che
cosa serve che si sia lavato? (Sir.
34, 30). Si lava, cioè, dopo aver toccato un morto, chi si
purifica col pianto dal peccato; ma tocca il morto dopo il lavacro,
colui che dopo le lacrime ripete la colpa. Bisogna ammonire coloro
che piangono i peccati commessi e tuttavia non se ne staccano, a
riconoscersi, davanti agli occhi del Giudice severo, simili a quelli
che si presentano di fronte a certi uomini e li blandiscono mostrando
grande sottomissione, ma allontanandosi procurano loro inimicizie e
danni con effetti atroci. Che cosa significa infatti piangere la
colpa se non mostrare a Dio l’umiltà della propria devozione? E
che cos’è comportarsi iniquamente dopo avere pianto il peccato, se
non praticare superba inimicizia verso colui che si era pregato? Così
attesta Giacomo che dice: Chi
vuole essere amico di questo secolo, si
costituisce nemico di Dio (Giac.
4, 4). Bisogna ammonire coloro che piangono i peccati e tuttavia
non se ne staccano, a considerare attentamente che per lo più tanto
inutilmente i cattivi si muovono a compunzione per la giustizia,
quanto spesso i buoni sono tentati al male senza danno. Avviene cioè
che, per una mirabile misura della loro disposizione interiore,
corrispondente ai loro meriti, quando quelli fanno qualcosa di buono
che tuttavia non portano a termine, assumono una superba fiducia,
perfino mentre continuano a compiere il male; e costoro — quando
vengono tentati dal male cui per altro non consentono — quanto più
la loro debolezza li fa esitanti, tanto più, attraverso l’umiltà,
puntano i passi del loro cuore, con fermezza e verità, alla
giustizia. Balaam, infatti, guardando agli attendamenti dei giusti
dice: Muoia la
mia anima la morte dei giusti e i miei ultimi momenti siano simili a
quelli di costoro (Num.
23, 10); ma quando si fu allontanato il tempo della compunzione,
offrì il suo consiglio contro la vita di coloro ai quali aveva
chiesto di divenire simile anche nella morte. E quando trovò
un’occasione per [soddisfare] la sua avarizia, subito dimenticò
tutto quanto aveva desiderato per sé nell’innocenza (cf. Ap. 2,
14). Perciò, invero, il maestro e predicatore delle genti, Paolo,
dice: Vedo
un’altra legge, nelle
mie membra, lottare
contro la legge dello spirito e condurmi prigioniero sotto la legge
del peccato che è nelle mie membra (Rom.
7, 23). Egli certamente viene tentato, proprio per essere più
fortemente consolidato nel bene dalla consapevolezza della propria
infermità. Com’è dunque che quello è portato alla compunzione e
tuttavia ciò non lo fa avvicinare alla giustizia; mentre questi è
tentato eppure la colpa non lo macchia, se non che — come
apertamente si manifesta — il bene incompiuto non giova ai cattivi
né il male non consumato non condanna i buoni? Al contrario, bisogna
ammonire coloro che si staccano dal peccato e però non lo piangono,
a non stimare perdonate quelle colpe che essi non purificano col
pianto, anche sé non le moltiplicano col loro agire. Infatti, uno
scrittore che cessa dallo scrivere non cancella ciò che ha scritto
in precedenza solo per il fatto di non aggiungervi altri scritti. Né
è sufficiente che uno che proferisce ingiurie taccia, per dare
soddisfazione, mentre è necessario che contraddica con parole di
umile sottomissione quelle pronunciate precedentemente con superbia.
Né un debitore è assolto perché non aggiunge debiti a debiti, ma
lo è se scioglie quelli con cui è legato. E cose, quando pecchiamo
nei confronti di Dio, non diamo soddisfazione solamente se cessiamo
di peccare, ma non facciano seguire anche le lacrime, di contro a
quei piaceri che abbiamo amato. Se infatti in questa vita non ci
fossimo macchiati di nessuna colpa di opere, la stessa nostra
innocenza, finché ancora siamo qui, non sarebbe sufficiente alla
nostra sicurezza, perché molte azioni illecite busserebbero alla
nostra anima; con quale pensiero, allora, si sente sicuro, uno che
per le colpe che ha commesso è testimone a se stesso di non essere
innocente? Né, d’altra parte, Dio si pasce delle nostre
sofferenze, ma invece cura le malattie dei peccati con medicamenti
contrari ad essi, affinché noi, che ci siamo allontanati, presi dal
diletto dei piaceri, ritorniamo amareggiati nel pianto e, dopo essere
caduti lasciandoci andare ad azioni illecite, ci rialziamo
trattenendoci anche da quelle lecite; e il cuore che era stato invaso
da una gioia insana, arda di una tristezza salutare: esso, che
l’esaltazione della superbia aveva ferito, sia curato
dall’abiezione di una vita umile. Perciò, infatti, è scritto: Ho
detto agli iniqui: non
agite iniquamente, e
ai peccatori: non
alzate la testa (Sal.
74, 5). E i peccatori alzano la testa se non si umiliano a penitenza
per la cognizione della propria iniquità. Perciò di nuovo è
detto: Un cuore
contrito e umiliato Dio non disprezza (Sal.
50, 19). Infatti, chi piange i peccati ma non se ne distacca,
spezza il suo cuore ma non si cura di umiliarlo; chi poi ha già
lasciato il peccato ma non lo piange, umilia già il cuore, ma
tuttavia rifiuta di spezzarlo. Perciò Paolo dice: Voi
foste tutte queste cose, ma
siete stati lavati, ma
siete stati santificati (1
Cor. 6, 11); perché, cioè, una vita più corretta santifica
coloro che l’afflizione delle lacrime, lavandoli, rende puri.
Perciò Pietro, vedendo alcuni atterriti dalla considerazione dei
loro peccati, li ammonisce dicendo: Fate
penitenza: ciascuno
di voi sia battezzato (Atti,
2, 38). Volendo parlare del Battesimo, premette il pianto della
penitenza, affinché, prima, versassero su di sé l’acqua della
propria afflizione e, quindi, si lavassero col sacramento del
Battesimo. Con quale pensiero vivono sicuri del perdono, coloro che
trascurano di piangere le colpe passate, quando lo stesso sommo
Pastore della Chiesa credette che si dovesse aggiungere anche la
penitenza al sacramento che principalmente estingue i peccati?
31
— Come bisogna ammonire coloro che lodano le azioni
illecite di cui sono consapevoli; e coloro che, pur
condannandole, tuttavia non se ne guardano
Diverso
è il modo di ammonire coloro che addirittura lodano le azioni
illecite che compiono; e quelli che accusano le loro depravazioni ma
non le evitano. Bisogna ammonire i primi, infatti, a considerare che
spesso peccano più con le parole che con le opere. Infatti, con le
opere compiono il male solo per se stessi; ma con la bocca offrono il
male a tante persone quante sono le menti di coloro che ascoltano e
che essi istruiscono con la lode dell’iniquità. Bisogna ammonirli
a temere almeno di seminare quei mali che essi trascurano di
sradicare. Bisogna ammonirli ad accontentarsi della loro personale
perdizione. E ancora — se non temono di essere malvagi —, bisogna
ammonirli ad arrossire almeno di mostrarsi ciò che sono. Spesso,
infatti, si fugge la colpa volendo nasconderla, perché se l’animo
arrossisce di apparire ciò che, tuttavia, non teme di essere,
avviene talvolta che arrossisca di essere ciò che evita di apparire.
Ma quando il peccatore si fa notare con impudenza, quanto più
liberamente compie qualsiasi mala azione, tanto più la considera
anche lecita, e quanto più la giudica lecita senza dubbio affonda in
essa maggiormente. Perciò è scritto: Hanno
reso pubblico il loro peccato, come
Sodoma, e
non l’hanno nascosto (Is.
3, 9). Infatti, se Sodoma avesse nascosto il proprio peccato, avrebbe
peccato ancora nel timore, ma aveva perduto fino in fondo i freni del
timore, essa che non andava a cercare le tenebre per commettere la
colpa. Perciò di nuovo è scritto: Il
grido di Sodoma e di Gomorra si è moltiplicato (Gen.
18, 20); poiché il peccato è detto voce quando
è azione colpevole, ma è detto anche grido quando
è commesso in libertà. Al contrario, bisogna ammonire coloro che
accusano le loro depravazioni, ma non le evitano, a considerare
prudentemente che cosa diranno a propria scusa di fronte al severo
giudizio di Dio, essi che, secondo il loro stesso giudizio, sono
inescusabili riguardo alle loro colpe. Così, che altro sono costoro,
se non accusatori di se stessi? Parlano contro le colpe, e con le
loro opere trascinano se stessi come rei. Bisogna ammonirli a vedere
che è dalla sentenza ancora nascosta del giudizio che la loro mente
è illuminata perché veda il male che commette; e tuttavia non cerca
di vincerlo. Così quanto meglio vede, tanto peggio va in rovina
perché riceve la luce dell’intelligenza e non abbandona le tenebre
dell’agire depravato. Infatti, poiché trascurano la scienza
ricevuta in aiuto, la voltano in testimonianza contro di sé; e con
quella luce di intelligenza, che certo avevano ricevuto per poter
cancellare i peccati, aumentano il castigo. La loro malizia, cioè,
quando opera quel male che pur discerne e giudica, degusta già qui
il giudizio futuro poiché, mentre si conserva colpevole per il
castigo eterno, neppure qui, intanto, è assolta dal suo stesso
esame; e tanto più gravi tormenti dovrà ricevere là, quanto più,
qui, non abbandona il male anche quando essa stessa lo condanna.
Perciò,
infatti, la Verità dice: Il servo, che conosceva
la volontà del suo Signore e non ha preparato né ha fatto secondo
la sua volontà, riceverà molte percosse (Lc.
12, 47). Perciò dice il salmista: Discendano vivi
nell’inferno (Sal. 54, 16). Perché vivi sanno e sentono
le cose che si compiono intorno a loro, i morti invece non possono
sentire nulla. Così scenderebbero morti nell’inferno se
commettessero il male senza conoscerlo, ma quando conoscono il male,
e ciononostante lo fanno, discendono nell’inferno di iniquità,
viventi, miseri e consapevoli.
32
— Come bisogna ammonire coloro che peccano per impulso e
coloro che peccano deliberatamente
Diverso
è il modo di ammonire coloro che sono vinti da una improvvisa
concupiscenza, e coloro che restano prigionieri della colpa con
deliberazione. Bisogna ammonire i primi a badare a se stessi, dovendo
affrontare quotidianamente la guerra della vita presente, e a
proteggere, con lo scudo di un pronto timore, il cuore che non è in
grado di prevedere le ferite che può ricevere; abbiano così grande
terrore dei dardi nascosti dell’insidioso nemico, e in un
combattimento tanto oscuro si trincerino negli accampamenti del
cuore, con una attenzione continua. Infatti, se il cuore è
abbandonato dalla sollecita vigilanza, resta aperto alle ferite,
poiché l’astuto nemico colpisce il petto tanto più liberamente,
quanto più lo sorprende nudo della corazza della previdenza. Bisogna
ammonire coloro che restano vinti da una improvvisa concupiscenza a
distogliersi dalla eccessiva cura delle cose terrene, poiché
mentre si coinvolgono smodatamente in realtà transitorie, ignorano
da quali dardi di colpe restano trafitti. Perciò, la voce di chi è
colpito mentre dorme viene anche espressa per mezzo di Salomone, il
quale dice: Mi
colpirono, ma
non sentii dolore; mi
trascinarono e non me ne accorsi. Quando
veglierò e ritroverò ancora il vino? (Prov.
23, 35). La mente che dorme dimentica della sua sollecitudine
viene colpita e non sente dolore, perché, come non vede i mali
incombenti, così non riconosce neppure quelli che ha commesso; viene
trascinata e non se ne accorge, perché è condotta attraverso le
seduzioni dei vizi e tuttavia non si alza per custodirsi. Essa, in
verità, desidera vegliare per ritrovare ancora il vino, perché
quantunque sia oppressa dal terrore del sonno, via dalla custodia di
se stessa, si sforza tuttavia di vegliare per le cure del secolo, per
essere sempre ebbra dai piaceri; e mentre dorme, rispetto a ciò per
cui avrebbe dovuto prudentemente vegliare, desidera di essere sveglia
per altre cose per le quali avrebbe potuto lodevolmente dormire.
Perciò più sopra, sta scritto: E
sarai come chi dorme in mezzo al mare e come un pilota assopito che
ha lasciato il timone (Prov.
23, 34). Infatti dorme in mezzo al mare, colui che, posto nelle
tentazioni di questo mondo, trascura di prevedere i moti erompenti
dei vizi, come cumuli di onde sovrastanti; ed è come un pilota che
perde il timone, la mente che perde la tensione sollecita a governare
la nave del corpo. Poiché è perdere il timone in mare il non
mantenere una attenzione previdente, tra le tempeste di questo
secolo. Infatti, se il pilota stringe con attenta cura il timone, ora
dirige la nave contro i flutti ora taglia obliquamente l’impeto dei
venti. Così, quando la mente governa l’anima con vigilanza, ora
calpesta e vince alcune passioni ora, con previdenza, ne aggira
altre, e così., con fatica sottomette quelle presenti, e con la
previdenza si rafforza contro i combattimenti futuri. Perciò ancora
si dice, dei forti combattenti, della patria celeste: La
spada di ognuno è sulla coscia per via dei timori notturni (Cant.
3, 8). Si pone la spada sulla coscia, quando con la punta della
santa predicazione si doma la malvagia suggestione della carne. Con
la notte, poi, si esprime la cecità della nostra debolezza, poiché
di notte non si vede nulla di ciò che può sovrastare ostilmente. E
la spada di ognuno è posta sulla coscia per i timori notturni,
poiché evidentemente gli uomini santi, col fatto che temono le
tentazioni che non vedono, si mantengono sempre pronti alla tensione
del combattimento. Perciò, ancora, si dice della sposa: Il
tuo naso come torre che è nel Libano (Cant.
7, 4); infatti, ciò che non vediamo con gli occhi spesso lo
prevediamo dall’odore. Col naso, poi, distinguiamo anche gli odori
buoni dai cattivi. Dunque, che cosa si designa con naso della Chiesa,
se non la previdente discrezione dei santi? E il naso è anche detto
simile a una torre che è nel Libano, poiché la previdenza discreta
dei santi è posta tanto in alto che vede le lotte delle tentazioni
prima che vengano, e quando sono venute gli sta contro ben difesa.
Infatti, le lotte future che vengono previste, quando si sono fatte
presenti hanno minor forza, poiché quando uno si fa sempre più
preparato contro i colpi, il nemico che si crede inatteso viene reso
impotente proprio perché è stato previsto. Al contrario, bisogna
ammonire coloro che si fanno prigionieri della colpa con
deliberazione, a considerare con attenta previdenza che, col compiere
il male deliberatamente, provocano contro di sé un giudizio più
severo, così che li colpisce una sentenza tanto più dura, quanto
più strettamente li legano alla colpa i vincoli della deliberazione.
Forse laverebbero più in fretta i loro peccati col pentimento, se vi
fossero caduti solamente per precipitazione; infatti il peccato
indurito dal consiglio è anche più duro da assolvere, e se la mente
non disprezzasse in ogni modo i beni eterni, non perirebbe cadendo
nella colpa deliberata. Dunque, coloro che cadono per la
precipitazione e coloro che periscono per la deliberazione
differiscono in ciò, che questi ultimi, quando peccando cadono dalla
condizione di giustizia, per lo più cadono insieme anche nel laccio
della disperazione. Perciò, per mezzo del profeta, il Signore
rimprovera non tanto i peccati di precipitazione quanto quelli dovuti
a una passione coltivata, dicendo: Che
non erompa come fuoco il mio sdegno e si accenda, e
non ci sia chi lo spegne, per
la malizia delle vostre passioni. Quindi,
una seconda volta irato, dice: Vi
visiterò secondo il frutto delle vostre passioni (Ger.
4, 4; 23, 2). Dunque, i peccati commessi con deliberazione
differiscono dagli altri, perché il Signore non persegue tanto il
fatto del peccato, quanto la premeditazione del peccato; giacché,
nel fatto, si pecca spesso per debolezza, spesso per negligenza; ma
nella premeditazione, si pecca sempre per intenzione maliziosa. Al
contrario, bene si dice, per mezzo del profeta, a proposito dell’uomo
beato: Non
siede nella cattedra di pestilenza (Sal.
1, 1). Cattedra suole essere il seggio del giudice o del
presidente, e sedere nella cattedra di pestilenza corrisponde a
compiere il peccato con giudizio deliberato: sedere nella cattedra di
pestilenza corrisponde a discernere il male con la ragione e tuttavia
commetterlo con deliberazione. È come chi siede su una cattedra di
consiglio perverso chi è innalzato da una esaltazione iniqua tanto
grande da tentare di compiere il male perfino attraverso il
consiglio. E come coloro che, sostenuti dall’autorità della
cattedra, sono superiori alle folle che li assistono, così i
peccati, ricercati con premeditazione, superano quelli di coloro che
rovinano per precipitazione. Pertanto bisogna ammonire chi si lega
alla colpa anche con la deliberazione, a dedurre da tutto ciò quale
sarà la vendetta con cui, prima o poi, dovranno essere colpiti, loro
che ora si fanno non compagni ma principi dei peccatori.
33
— Come bisogna ammonire coloro che cadono in peccati minimi
ma frequenti, e coloro che guardandosi dai minimi restano
talvolta sommersi da quelli gravi
Diverso
è il modo di ammonire coloro che commettono spesso peccati, sia pur
minimi, e coloro che si custodiscono dai piccoli, ma talvolta
affondano nei gravi. Bisogna ammonire coloro che cadono
frequentemente in colpe sia pur piccole, a non considerare quali, ma
quanti peccati, commettono. Infatti, se quando pesano le loro azioni
disdegnano di temerle, devono averne paura quando le contano. Poiché
sono profondi i gorghi dei fiumi, e sono piccole ma innumerevoli le
gocce di pioggia che li riempiono; e la sentina che cresce
nascostamente produce lo stesso effetto di una tempesta che infuria
palesemente. E sono piccolissime le ferite che si aprono nelle membra
per la scabbia, ma quando la loro quantità, divenuta innumerevole,
si estende, uccide la vita del corpo come una grave ferita inflitta
nel petto. Perciò è scritto: Chi
disprezza le cose piccole a poco a poco viene meno (Sir.
19, 1). Infatti, chi trascura di piangere e di evitare i peccati
minimi cade dalla condizione di giustizia, non di colpo, ma, poco
alla volta, tutto. Bisogna ammonire coloro che frequentemente cadono
in cose minime, a considerare con cura che spesso si pecca più
rovinosamente con una colpa piccola che con una più grande. Poiché,
la più grande, quanto prima è riconosciuta come colpa, tanto più
rapidamente viene emendata: mentre la minore, che è valutata nulla,
ha effetti tanto peggiori, quanto più tranquillamente continua a
essere praticata. Per cui avviene spesso che il cuore avvezzo a
peccati leggeri non ha in orrore neppure quelli gravi e, nutrito
dalle colpe, giunge a una certa sicurezza nel male; e tanto disdegna
di temere le colpe più gravi, quanto, nelle più piccole, ha
imparato a peccare senza timore. Al contrario, bisogna ammonire
coloro che si guardano dalle colpe piccole, ma talvolta sprofondano
nelle gravi, ad aprire gli occhi su se stessi con sollecitudine,
giacché, mentre il loro cuore si esalta perché si custodisce dalle
piccole colpe, essi vengono divorati, dallo stesso baratro della loro
esaltazione, a commettere peccati ancora più gravi; e, mentre al di
fuori dominano le piccole colpe ma dentro si gonfiano di vanagloria,
finiscono con l’abbattere anche al di fuori, con colpe più gravi,
l’animo che, dentro, è stato vinto dalla malattia della superbia.
Pertanto bisogna ammonire coloro che si custodiscono dai peccati
piccoli ma talvolta sprofondano nei gravi, a non cadere,
interiormente, là dove, esteriormente, stimano di stare in piedi;
e, nella retribuzione del Giudice severo, l’esaltazione non divenga
una via di minore giustizia, che trascini alla fossa della colpa più
grave. Infatti, coloro che, esaltatisi vanamente, attribuiscono alle
proprie forze la custodia di un bene minimo, giustamente abbandonati,
si coprono di colpe più gravi e, cadendo, imparano che il loro stare
in piedi non derivava da loro; ciò, affinché mali immensi umilino
il cuore che beni minimi esaltano. Bisogna ammonirli a considerare
che, con colpe più gravi si caricano di una grossa responsabilità,
e tuttavia spesso nelle piccole buone azioni che custodiscono,
peccano più rovinosamente perché, con le prime compiono cose
inique, ma per mezzo delle altre tengono coperta agli uomini la loro
iniquità. Per cui avviene che, quando commettono davanti a Dio i
peccati maggiori, ciò è iniquità aperta; e quando custodiscono
piccole buone azioni davanti agli uomini, è santità simulata.
Perciò infatti si dice dei Farisei: Filtrano
il moscerino e inghiottiscono il cammello (Mt.
23, 24); come se dicesse apertamente: lasciate da parte i
peccati piccoli e divorate quelli grandi. È perciò che ancora si
sentono rimproverare dalla bocca della Verità: Pagate
la decima della menta, dell’aneto, e
del cimino e trascurate ciò che è più importante nella legge: la
giustizia, la
misericordia, la
fedeltà (Mt.
23, 23). E occorre ascoltare con attenzione, perché quando
parla delle decime più piccole, ricorda intenzionalmente, fra le
erbe, le ultime ma profumate; certo per mostrare che i simulatori,
quando custodiscono le piccole buone azioni, cercano di spandere
l’odore di una santa opinione di se stessi; e quantunque tralascino
di compiere i beni più grandi, hanno cura dei piccoli che, a
giudizio umano, spandono profumo in lungo e in largo.
34
— Come bisogna ammonire coloro che non incominciano neppure
a fare il bene, e coloro che dopo averlo incominciato non
lo portano a termine
Diverso
è il modo di ammonire coloro che non incominciano neppure a fare il
bene e coloro che, dopo averlo incominciato, non lo portano a
termine. Quanto ai primi, non bisogna far loro presente,
innanzitutto, ciò che devono sanamente amare, ma distruggere ciò a
cui si applicano maliziosamente. Infatti, non vanno dietro a ciò di
cui sentono parlare senza averne l’esperienza, se prima non
comprendono quanto sia nocivo quello che hanno sperimentato; giacché
non desidera di essere rialzato, colui che ignora perfino di essere
caduto; e colui che non sente il dolore della ferita, non ricerca il
rimedio per sanarla. Dunque, bisogna prima mostrare quanto sia vano
ciò che amano, e poi con molta cautela bisogna insinuare quanto sia
utile quello che tralasciano. Vedano, prima, che quel che amano è da
fuggire, e poi, senza difficoltà, si renderanno conto che è amabile
ciò che fuggono. Accolgono meglio, infatti, ciò di cui non hanno
esperienza, se riconoscono per vero quanto è stato loro dimostrato
su ciò che conoscono per esperienza. Allora, dunque, imparano con
pieno desiderio a cercare le cose vere e buone, quando cioè abbiano
compreso con giudizio sicuro di essere stati vanamente attaccati a
cose false. Ascoltino quindi, che il piacere dei beni presenti è
destinato a passare ben presto, e tuttavia la loro causa permarrà
per una vendetta senza fine, poiché, ora, viene sottratto loro,
contro voglia, ciò che piace; e, allora, ciò che procura dolore,
sarà loro riservato come supplizio, ancora contro voglia. E così
abbiano un salutare terrore delle medesime cose da cui traggono un
piacere che li danna, affinché l’animo, che resta colpito alla
vista dei danni profondi della sua propria rovina e si accorge di
essere giunto sull’orlo del precipizio, rivolga indietro i suoi
passi e, nel vivo timore di ciò che prima amava, impari ad amare ciò
che disprezzava. Perciò viene detto a Geremia, mandato a
predicare: Ecco, oggi
ti ho costituito sopra le genti e sopra i regni, perché
tu sradichi e distrugga, disperda
e dissipi, ed
edifichi e pianti (Ger.
1, 10); perché, se prima non avesse distrutto ciò che era
perverso, non avrebbe potuto edificare utilmente ciò che era retto;
se non avesse sradicato dai cuori dei suoi ascoltatori le spine di un
amore vano, è certo che, invano, avrebbe piantato in loro le parole
della santa predicazione. Perciò Pietro, prima abbatte per poi
costruire, quando non ammoniva i Giudei riguardo a ciò che ormai
avrebbero dovuto fare, ma li rimproverava di ciò che avevano fatto,
dicendo: Gesù
Nazareno, uomo
approvato da Dio tra voi, per
i miracoli, i
prodigi, i
segni che Dio operò in mezzo a voi, attraverso
lui, come
voi sapete: quest’uomo, consegnato
per un disegno prestabilito dalla prescienza di Dio, lo
avete ucciso inchiodandolo per mano di empi, ma
Dio lo ha risuscitato, avendo
sciolto le doglie dell’inferno (Atti,
2, 22-24). Disse così, evidentemente, affinché, abbattuti
dalla consapevolezza della propria crudeltà, con quanta maggior
tensione avrebbero ricercato l’edificazione della santa
predicazione, tanto più utilmente l’ascoltassero. E quindi, subito
rispondono: Che
cosa dobbiamo fare, allora, fratelli? E
ad essi viene detto: Fate
penitenza e ciascuno di voi sia battezzato (Atti,
2, 37-38). Essi non avrebbero certamente fatto alcun conto di
queste parole di edificazione, se prima non avessero trovato la
salutare rovina della loro propria distruzione. Perciò Paolo, quando
risplendette su di lui la luce mandata dal cielo, non udì ciò che
avrebbe dovuto fare di bene, ma ciò che aveva fatto di male.
Infatti, quando prostrato chiedeva: Chi
sei, Signore? Gli
fu subito risposto: Io
sono Gesù Nazareno che tu perseguiti. E
alla sua seconda immediata richiesta: Signore, che
cosa ordini che faccia? Viene
aggiunto subito: Alzati
ed entra in città e là ti sarà detto che cosa è bene che tu
faccia (Atti,
9, 24 ss.; 22, 8 ss.). Ecco, il Signore, parlando dal cielo,
rimprovera le azioni del suo persecutore e tuttavia non mostra
immediatamente che cosa avrebbe dovuto fare. Ecco, ormai tutto
l’edificio del suo orgoglio era crollato e, divenuto umile dopo la
sua rovina, cercava di essere riedificato. Ma la superbia viene
distrutta e tuttavia le parole dell’edificazione vengono ancora
trattenute, evidentemente perché il crudele persecutore giaccia a
lungo abbattuto, e poi, tanto più solidamente risorga nel bene,
quanto più, prima, era caduto, rovesciato fin dalle fondamenta, dal
primitivo errore. Pertanto, coloro che non hanno ancora incominciato
a compiere alcun bene devono, prima, essere rovesciati dalla loro
rigida perversità, dalla mano della correzione; per essere, poi,
rialzati alla condizione di chi agisce rettamente. Poiché è come
quando tagliamo un albero per innalzarlo, poi, alla copertura di un
edificio: esso non viene impiegato immediatamente nella
costruzione, perché prima si secchi il suo umore nocivo; e
quanto più questo si asciuga nel suo interno, tanto più solidamente
può essere sollevato in alto. Al contrario, bisogna ammonire coloro
che non portano a termine il bene iniziato, a considerare con molta
attenzione che, col non adempiere quanto si sono proposti, strappano
via anche ciò a cui avevano dato inizio. Se, infatti, ciò che
sembra di dover fare non cresce per una sollecita applicazione,
diminuisce anche ciò che era stato ben compiuto. Poiché, in questo
mondo, la vita umana è come una nave che sale contro la corrente di
un fiume: non le è permesso di stare ferma in un luogo, perché
scivola di nuovo verso il basso, se non si sforza di salire verso
l’alto. Dunque, se la forte mano di chi opera non conduce a
perfezione il bene intrapreso, la stessa interruzione dell’operare
lotta contro quanto è già stato compiuto. Ed è ciò che è detto
per mezzo di Salomone: Chi
è molle e trascurato nel suo operare è fratello di chi dissipa il
proprio lavoro (Prov.
18, 9). Poiché è chiaro che, chi non esegue rigorosamente quanto ha
iniziato di buono, la trascuratezza della sua negligenza è come la
mano di un distruttore. Perciò l’angelo dice alla Chiesa di
Sardi: Sii
vigilante e consolida le altre cose che stavano per morire, infatti
non trovo complete le tue opere davanti al mio Dio (Ap.
3, 2). Dunque, poiché le sue opere non erano state trovate complete
davanti a Dio, prediceva che sarebbero morte anche quelle altre che
erano state compiute. Infatti, se ciò che in noi è morto non si
riaccende a vita, si estingue anche ciò che, in un certo senso, si
conserva ancora vivo. Bisogna ammonirli a considerare che avrebbe
potuto essere più tollerabile non intraprendere la via del giusto,
piuttosto che tornare indietro dopo averla intrapresa; infatti, se
non si voltassero a guardare indietro, non languirebbero nel torpore,
dopo l’attività iniziata. Ascoltino dunque ciò che è
scritto: Sarebbe
stato meglio non conoscere la via della giustizia che voltarsi
indietro dopo averla conosciuta (2
Pt. 2, 21). Ascoltino ciò che è scritto: Magari
fossi freddo o caldo; ma
poiché sei tiepido e né freddo né caldo, incomincerò
a vomitarti dalla mia bocca (Ap.
3, 15-16). Caldo è chi intraprende attivamente il bene e lo
porta a termine; freddo è chi non incomincia neppure ciò che
dovrebbe terminare. E come dal freddo, attraverso la tiepidezza, si
passa al calore; così dal calore, attraverso la tiepidezza si
ritorna al freddo. Dunque, chi vive avendo perduto il freddo della
incredulità ma non supera la tiepidezza e non aumenta il suo calore
così da ardere; mentre permane nella nociva tiepidezza, senza più
nessuna speranza di quel calore, non fa altro che tornare freddo. Ma,
come prima di diventare tiepido l’essere freddo conservava la
speranza, così ora, la tiepidezza, dopo essere stato freddo, è
senza speranza. Infatti, chi è ancora nel peccato, non perde la
fiducia nella conversione; ma chi, dopo la conversione, è tiepido,
si è sottratto anche quella speranza che poté avere da peccatore.
Si richiede, dunque, che uno sia o caldo o freddo, per non essere
vomitato essendo tiepido, affinché, se non è ancora convertito,
lasci una speranza di conversione riguardo a sé o, se è già
convertito, sia sempre più ardente nella pratica della virtù; e non
sia vomitato come tiepido per essere ritornato a causa della sua
inerzia, dal calore che si era proposto, al freddo dannoso.
35
— Come bisogna ammonire coloro che fanno il male di
nascosto e il bene apertamente; e quelli che agiscono
viceversa
Diverso
è il modo di ammonire coloro che fanno il male di nascosto e il bene
in pubblico, e coloro che nascondono il bene che fanno e tuttavia
lasciano che si pensi pubblicamente male di loro per certe loro
azioni pubbliche. Infatti, bisogna ammonire i primi a valutare la
rapidità con cui i giudizi umani volano via, e come, invece, restano
stabili quelli divini. Bisogna ammonirli a tenere gli occhi della
mente fissi al termine delle cose, poiché l’attestazione delle
lodi umane passa, e la sentenza divina, che penetra ciò che è
nascosto, si rafforza fino alla retribuzione eterna. Pertanto, mentre
pongono i loro peccati davanti al giudizio divino, e le loro azioni
giuste davanti agli occhi degli uomini, il bene che compiono
pubblicamente resta senza testimone, ma non senza testimone eterno
rimane ciò che di male essi compiono di nascosto. Così, nascondendo
agli uomini le proprie colpe, e manifestando le virtù, mentre
nascondono ciò per cui avrebbero dovuto essere puniti; di fatto lo
svelano; e svelando ciò per cui avrebbero potuto essere premiati, di
fatto lo nascondono. Giustamente la Verità li chiama sepolcri
imbiancati, belli all’esterno ma pieni di ossa di morti (cf. Mt.
23, 27), perché occultano all’interno i mali dei vizi, ma con la
dimostrazione di certe azioni blandiscono la vista degli uomini, con
la sola apparenza esteriore della giustizia. Pertanto, bisogna
ammonirli a non disprezzare le azioni rette che compiono, ma ad
attribuire ad esse un più grande merito; infatti, condannano
gravemente ciò che fanno di buono, coloro che stimano un
compenso sufficiente per esso il favore umano, giacché, quando per
una azione retta si cerca una lode passeggera, si vende a poco prezzo
una cosa degna di un compenso eterno. Ed è di un tale prezzo che la
Verità dice: In
verità vi dico, hanno
ricevuto la loro mercede (Mt.
6, 2). Bisogna ammonirli a considerare che mentre si mostrano
malvagi nelle azioni nascoste e tuttavia offrono di sé pubblicamente
esempi di buone opere, indicano che bisogna seguire ciò che essi
fuggono, gridano che è amabile ciò che essi odiano e, da ultimo,
vivono agli occhi degli altri, ma a se stessi muoiono. Al contrario,
bisogna ammonire coloro che fanno nascostamente il bene e tuttavia
per qualche loro azione pubblica permettono che si pensi male di
loro, a non uccidere in sé altri, con l’esempio di una cattiva
stima, mentre vivificano sé stessi, con la potenza di un retto
agire; a non amare il prossimo meno che sé stessi, e a non versare
veleno pestifero nei cuori attenti alla considerazione del loro
esempio, mentre loro stessi bevono vino salubre. Poiché, in questo
caso, non giovano alla vita del prossimo; e nell’altro la gravano
molto; applicandosi, cioè, [da un lato] ad agire rettamente di
nascosto, e [dall’altro] a seminare, per certe loro azioni, una
cattiva opinione di sé come esempio per gli altri. Infatti, chi è
già in grado di mettersi sotto i piedi la brama della lode, opera a
danno dell’edificazione se nasconde il bene che compie; e colui che
non mostra l’azione che deve essere imitata è come se, dopo aver
gettato il seme che deve germinare ne strappasse le radici. Perciò
infatti, la Verità disse, nell’Evangelo: Vedano
le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei
cieli (Mt. 5,
16). Dove pure è pronunciata quell’altra sentenza che sembra
comandare tutto il contrario dicendo: Guardate
di non compiere la vostra giustizia di fronte agli uomini per essere
visti da loro (Mt.
6, 1). Che cosa significa allora che il nostro operare deve
essere compiuto in modo da non essere visto, e tuttavia, secondo il
precetto, deve essere visto, se non che tutto ciò che facciamo deve
essere nascosto perché non siamo noi a riceverne lode, e deve essere
manifestato perché accresciamo così la lode del Padre celeste?
Infatti, quando il Signore ci proibiva di compiere la nostra
giustizia davanti agli uomini, subito aggiunse: Per
essere visti da loro. E
quando comandava che le nostre opere buone dovevano essere viste
dagli uomini, subito aggiunse: Affinché
glorifichino il Padre vostro che è nei cieli. Dunque,
alla fine delle sentenze mostrò in che senso non devono essere viste
e in che senso devono esserlo, affinché il cuore di chi la compie
non cerchi che la sua opera sia veduta, per causa sua, e tuttavia non
la nasconda, a gloria del Padre celeste. Perciò accade che per lo
più un’opera buona possa essere nascosta anche se avviene
pubblicamente e, ancora, sia come pubblica pur compiendosi di
nascosto. Infatti, chi, in un’azione compiuta in pubblico, non
cerca la propria gloria ma quella del Padre celeste, nasconde ciò
che ha fatto, poiché ha considerato come testimone solo colui a cui
si è preoccupato di piacere. E colui che nel suo segreto brama di
essere scoperto e lodato nella sua opera buona, anche se nessuno ha
veduto ciò che egli ha compiuto, egli ha tuttavia fatto ciò davanti
agli uomini, poiché ha condotto con sé, nella sua buona opera,
tanti testimoni quante sono le lodi umane che ha ricercato nel suo
cuore. E quando una cattiva stima, che ha valore anche se non
nasconde un peccato, non viene cancellata dalla mente di chi la
considera, per l’esempio che essa rappresenta è come una colpa
offerta all’imitazione di tutti quelli che vi prestano fede. Perciò
spesso accade che coloro i quali, con negligenza, permettono che si
pensi male di loro, non compiono per se stessi alcuna iniquità e
tuttavia, attraverso tutti coloro che li avranno imitati, peccano
ripetutamente. Perciò, a coloro che mangiano cibi immondi senza
contaminarsi, quanto a sé, ma scandalizzano i deboli con questo modo
di cibarsi, inducendoli in tentazione, Paolo dice: Guardate
che la vostra libertà non diventi inciampo per i deboli (1
Cor. 8, 9). E ancora: E
per la tua coscienza perirà il fratello debole per il quale Cristo è
morto. E
così, peccando
contro i fratelli e colpendo la loro debole coscienza, peccate
contro Cristo (1
Cor. 8, 11-12). Perciò Mosé, dopo aver detto: Non
dirai male di un sordo, aggiunse: Né
porrai un inciampo davanti a un cieco (Lev.
19, 14). Dire male di un sordo equivale a criticare un assente
che non può ascoltare; e porre un inciampo davanti a un cieco
corrisponde ad agire con discernimento e tuttavia offrire occasione
di scandalo a chi non ha la luce della discrezione.
36
— Dell’esortazione che bisogna prestare a molti, tale
da aiutare le virtù dei singoli, così che per essa non
aumentino i vizi contrari a quelle virtù
Queste
sono le avvertenze che il Pastore d’anime deve osservare nella
diversità della predicazione, per contrapporre con sollecitudine
medicine adatte alle ferite dei singoli. Ma se è di grande impegno
il servire alle situazioni individuali, nell’esortazione dei
singoli, se è molto faticoso istruire ciascuno, in quanto lo può
direttamente riguardare, con la dovuta considerazione, tuttavia è di
gran lunga più faticoso farlo, nello stesso tempo e con il medesimo
discorso, nei. confronti di ascoltatori numerosi e sottoposti a
passioni diverse; e il discorso deve essere regolato con tanta arte
da adattarsi ai singoli ascoltatori coi loro diversi vizi, e insieme
da non contraddirsi; da passare tra le passioni seguendo un solo
tracciato, ma come una spada a due tagli, incidendo i tumori dei
pensieri carnali da parti opposte, così che si predichi l’umiltà
ai superbi in modo che però ai timidi non aumenti il timore; ai
timidi si infonda sicurezza, in modo che però non cresca la
sfrenatezza dei superbi. Si predichi agli oziosi e ai torpidi la
sollecitudine del bene operare in modo che però non si accresca la
licenza di una attività smodata negli inquieti. Si ponga una misura
agli inquieti in modo che però il torpore degli oziosi non si senta
sicuro. Si spenga l’ira degli impazienti in modo che però, ai
remissivi e ai tranquilli non aumenti la negligenza. I tranquilli
siano eccitati allo zelo, in modo che però non si aggiunga fuoco
agli iracondi. Si infonda spirito di larghezza nel dare agli avari in
modo che però non si allentino i freni della liberalità smodata ai
prodighi; e si predichi ai prodighi la parsimonia in modo che però
negli avari non aumenti la custodia dei beni destinati a perire. Si
lodi il matrimonio agli incontinenti, in modo che però coloro che
già sono continenti non siano richiamati alla lussuria. Ai
continenti poi si lodi la verginità del corpo in modo che però i
coniugi non siano indotti a disprezzare la fecondità della carne.
Bisogna predicare i beni in modo che d’altro canto non ne traggano
giovamento i mali. Bisogna lodare i beni più alti in modo che non
restino disprezzati i minori; e bisogna alimentare i minori perché
se si pensa che siano per sé sufficienti, non si sia trattenuti
dall’aspirare ai sommi.
37
— Dell’esortazione
che si deve a una persona soggetta a passioni contrarie
È
certo grave fatica per un predicatore essere attento, in un discorso
rivolto a pin persone, ai moti nascosti dei singoli e alle loro cause
e, come avviene negli esercizi in palestra, destreggiarsi nell’arte
di volgersi in diverse direzioni; tuttavia egli si sottopone a una
fatica molto maggiore quando è costretto a predicare a una sola
persona soggetta a vizi opposti. Spesso infatti si dà il caso di
qualcuno di carattere gaio che poi di colpo si deprime terribilmente
per il sopraggiungere di una improvvisa tristezza. Il predicatore
deve allora fare si che venga tolta la tristezza improvvisa ma in
modo che non cresca la gaiezza prodotta dal temperamento; e sia
frenata la gaiezza del temperamento in modo che però non aumenti la
tristezza che viene all’improvviso. Uno è gravato da una abituale
smodata precipitazione, però, ogni tanto, la forza di una improvvisa
paura lo trattiene da qualcosa ché bisogna eseguire con fretta. Un
altro è gravato da una abituale smisurata paura, però ogni tanto è
spinto da una precipitazione temeraria in qualcosa che desidera. E
allora, nel primo, bisogna reprimere la paura sorta improvvisamente
in modo che però non aumenti la precipitazione coltivata a lungo; e
nel secondo bisogna reprimere la precipitazione improvvisa, in modo
che però non si rafforzi la paura dovuta al temperamento. Quale
meraviglia che i medici delle anime abbiano tanta cura di queste
cose, se coloro che non curano i cuori ma i corpi si regolano con una
discrezione cos’ sapiente? Spesso infatti una terribile malattia
opprime un debole corpo e ad essa si deve venire in aiuto con rimedi
vigorosi, ma tuttavia il corpo debole non sostiene il rimedio forte;
allora il medico deve studiare in che modo togliere la malattia
sopravvenuta senza aumentare la sottostante debolezza del corpo,
perché insieme con la malattia non venga meno la vita. Perciò mette
insieme il rimedio con tanta discrezione da ovviare alla malattia e
nello stesso tempo aiutare il malato. Dunque, se la medicina del
corpo, applicata in modo unitario, può agire in sensi opposti (la
medicina infatti è veramente tale quando con essa si rimedia alla
malattia sopravvenuta e si viene in aiuto anche al temperamento che
vi è sottoposto), perché la medicina dell’animo applicata da una
sola e medesima predicazione non dovrebbe essere in grado di ovviare
a malattie morali di diverso ordine, essa che è tanto più
sottilmente praticata, in quanto si tratta di condizioni spirituali?
38
— Talvolta
occorre lasciare sopravvivere vizi più leggeri per togliere i più
gravi
Ma
poiché spesso irrompe una malattia dovuta al concorrere di due vizi,
dei quali forse uno preme in modo più grave dell’altro, più
leggero; è senza subbio più giusto venire in fretta in aiuto contro
quel vizio per cui si corre rapidamente alla morte. E se per evitare
una morte prossima, non si può contenere questo, senza che cresca il
coesistente vizio contrario, occorre che il predicatore tolleri che
attraverso la sua esortazione, questo ultimo, per un artificioso
accomodamento, subisca una crescita, pur di poter trattenere l’altro
dalla vicina morte. Ciò che egli opera non aumenta la malattia del
suo ferito, cui egli applica il rimedio, ma gli conserva la vita
finché trovi il momento adatto per ricercare la sua salvezza. Spesso
avviene che qualcuno, per non sapersi affatto trattenere
dall’ingordigia dei cibi, viene assalito dagli stimoli della
lussuria che ormai sta per vincerlo ed egli, atterrito dal timore di
soccombere in questa lotta, mentre si sforza di contenersi con
l’astinenza, è travagliato dalla tentazione della vanagloria. In
questa situazione non è possibile che si estingua un vizio senza che
se ne alimenti un altro. Dunque, quale peste occorre combattere con
più ardore se non quella che preme con maggiore pericolo? Allora
bisogna tollerare che, provvisoriamente, in chi esercita la virtù
dell’astinenza cresca un po’ di orgoglio purché egli viva,
piuttosto che lo uccida del tutto la lussuria generata
dall’ingordigia. Perciò Paolo, considerando il suo debole
ascoltatore esposto all’alternativa, o di un agire ancora perverso
o di compiacersi per il compenso della lode degli uomini, per il suo
agire retto, dice: Vuoi
non temere l’autorità? Fa’ il bene e riceverai lode da
essa (Rom. 13,
3). Infatti, né il bene va fatto per non dovere temere chi ha
il potere in questo mondo né per ricever con esso la gloria di una
lode passeggera. Ma considerando che un cuore debole non può
giungere a tanta fortezza da voler sfuggire insieme al male e alla
lode, il gran dottore, nella sua ammonizione, mentre gli toglie una
cosa gli concede l’altra; infatti, concedendogli ciò che è più
leggero, gli tolse il più grave, in modo che non essendo in grado di
abbandonare tutto in una sola volta, l’animo veniva lasciato alla
consuetudine di un certo suo vizio per essere liberato senza fatica
da un certo altro.
39
— Non bisogna assolutamente predicare cose troppo alte alle
menti deboli
Occorre
che il predicatore non attiri l’animo del suo ascoltatore al di là
delle sue forze, affinché la corda della mente non si spezzi mentre
viene tesa, per cosa dire, oltre il suo potere. Infatti, quando sono
molti ad ascoltare, i discorsi troppo elevati si devono contenere e
riservare solo per pochi. Perciò la Verità in persona dice: Chi
credi che sia il dispensatore fedele e prudente che il padrone ha
stabilito sulla sua famiglia perché dia a ciascuno a suo tempo la
misura di grano? (Lc.
12, 42). E la misura di grano esprime lo stile del discorso perché
non accada che si dia a un cuore angusto qualcosa che esso non può
contenere e questo si versi al di fuori. Perciò Paolo dice: Non
ho potuto parlarvi come a spirituali, ma
come a carnali. Come
a bambini in Cristo, vi
ho dato da bere latte e non cibo solido (1
Cor. 3, 1). Perciò Mosé, uscendo dall’intimità con Dio,
vela, davanti al popolo, il volto ancora raggiante (cf. Es. 34, 31);
certo perché, alle turbe, esso non parla dei misteri della luce
interiore. Perciò, attraverso di lui, viene prescritto dalla parola
divina che se qualcuno ha scavato una cisterna e ha trascurato di
ricoprirla, deve pagare il prezzo di un bue o di un asino che vi sia
caduto dentro (cf. Es. 21, 33-34). Poiché, se i rozzi cuori dei suoi
ascoltatori non possono contenere le acque correnti della profonda
dottrina cui egli è pervenuto, è considerato reo meritevole di pena
qualora, per le sue parole, una mente, sia pura sia impura, resta
presa nello scandalo. Perciò viene detto al beato Giobbe: Chi
ha dato l’intelligenza al gallo? (Giob.
38, 36). Infatti, il predicatore santo che grida in questo tempo
oscuro è come il gallo che canta nella notte, quando dice: È
ormai ora di sorgere dal sonno (Rom.
13, 11); e ancora: Vegliate, giusti, e
non peccate (1
Cor. 15, 34). Ma il gallo è solito emettere un alto canto nelle ore
più profonde della notte, e invece, quando l’ora del mattino è
più vicina, produce suoni più tenui e leggeri, poiché chi predica
opportunamente grida in modo chiaro ai cuori ancora ottenebrati e non
fa alcun accenno ai misteri nascosti, affinché siano in grado di
ascoltare discorsi più sottili sulle cose celesti quando si
avvicinano alla luce della verità.
40
— La predicazione nelle opere e nelle parole
Ma
ritorniamo soprattutto con ardore di carità a quanto abbiamo già
detto sopra, che cioè ogni predicatore si faccia sentire più con i
fatti che con le parole, e imprima le sue orme per chi lo segue,
attraverso una buona vita, piuttosto che mostrare con le parole la
mèta verso cui essi devono camminare. Poiché anche questo gallo,
che il Signore prende come esempio nelle sue parole, per indicare il
tipo del buon predicatore, quando già si prepara a cantare, prima
scuote le ali e percuotendosi da solo si fa più sveglio; chiaramente
perché è necessario che coloro, i quali si accingono alla santa
predicazione, siano prima vigilanti e dediti al bene operare, perché
non pretendano di scuotere gli altri con le parole, mentre in se
stessi dormono nell’inerzia: scuotano se stessi, prima, con azioni
elevate, e solo allora rendano gli altri solleciti del ben vivere;
prima colpiscano sé con le ali della meditazione e con attento esame
colgano ciò che in loro giace nell’inutile torpore e lo correggano
con severa riprensione; e solo allora regolino con le parole la vita
degli altri. Prima abbiano cura di punire i propri peccati con pianto
e poi denuncino ciò che è degno di punizione negli altri; e prima
di fare risuonare parole di esortazione, gridino con le opere tutto
ciò che hanno intenzione di dire.
PARTE
QUARTA
COME
IL PREDICATORE,
COMPIUTA
OGNI COSA NEL MODO DOVUTO,
DEVE
RITORNARE IN SE STESSO,
PERCHÉ
LA VITA O LA PREDICAZIONE
NON
LO ESALTI
Ma
poiché spesso, quando la predicazione scorre copiosamente nei modi
convenienti, l’animo di chi parla si esalta in se stesso per la
gioia nascosta di questa dimostrazione di sé, è necessaria una
grande cura perché esso si lasci ferire dai morsi del timore e non
accada che colui il quale, curando le loro ferite, richiama gli altri
alla salvezza, si inorgoglisca lui per negligenza della salvezza sua
propria; e mentre giova al prossimo, abbandoni se stesso e cada,
mentre fa rialzare gli altri. Spesso, infatti, la grandezza della
virtù fu occasione di perdizione per alcuni, perché per la
confidenza nelle proprie forze acquistano una disordinata sicurezza,
così che poi, per negligenza, in modo imprevisto muoiono. Infatti,
quando la virtù resiste ai vizi, per un certo piacere di essa,
l’animo ne resta lusingato, e avviene che la mente di chi opera
bene rigetti il timore che la fa essere attenta ai vizi; riposi
sicura nella confidenza di sé; e quando essa è presa nel torpore,
l’astuto seduttore le enumera tutte le sue buone opere e la esalta
nel pensiero orgoglioso di essere superiore agli altri. Quindi, agli
occhi del giusto Giudice, il ricordo della virtù diviene una fossa
per la mente, perché ricordando ciò che ha compiuto, mentre si
innalza in se stessa, cade di fronte all’autore dell’umiltà.
Perciò è detto all’anima che insuperbisce: Quanto
pia sei bella, scendi
e dormi con gli incirconcisi (Ez.
32, 9); come se dicesse apertamente: Poiché ti elevi per la
bellezza della virtù, dalla tua stessa bellezza sei spinta a cadere.
Perciò, l’anima che insuperbisce per la virtù, viene riprovata —
personificata in Gerusalemme — quando è detto: Eri
perfetta nella mia bellezza, che
io avevo posto su di te, dice
il Signore; ma
fidando nella tua bellezza, hai
fornicato nel tuo nome (Ez.
16, 14-15). Giacché l’animo si esalta, per la fiducia nella
propria bellezza, quando lieto per i meriti delle sue virtù, si
gloria ai suoi occhi nella propria sicurezza. Ma attraverso questa
medesima fiducia è condotto alla fornicazione, perché quando i suoi
stessi pensieri illudono la mente prigioniera, gli spiriti maligni la
corrompono, seducendola attraverso innumerevoli vizi. Si noti che è
detto: Hai
fornicato nel tuo nome, perché
quando il cuore abbandona il rispetto della guida celeste, cerca
subito una lode personale, e incomincia ad attribuirsi ogni bene che
ha ricevuto per servire all’annuncio di colui che gliel’ha
donato; desidera dilatare la gloria della sua fama; fa di tutto per
apparire degna di ammirazione a tutti. Pertanto fornica in suo nome,
colei che abbandonando il talamo legale giace sotto lo spirito
corruttore per la brama della lode. Perciò David dice: Ha
consegnato alla prigionia la loro virtù e la loro bellezza in mano
al nemico (Sal.
77, 61). Giacché la virtù è consegnata alla prigionia e la
bellezza in mano all’avversario, quando l’antico nemico domina un
cuore illuso dall’esaltazione per una buona opera; e tuttavia
questa esaltazione della virtù, sebbene non vinca completamente,
tenta spesso, comunque, anche l’animo degli eletti; ma quando, dopo
essersi esaltato, viene abbandonato, allora è richiamato al timore.
Perciò David ancora dice: lo
dissi nel mio benessere: Non
sarò scosso in eterno (Sal.
29, 7). Ma poiché si gonfiò nella confidenza nella propria
virtù, poco dopo aggiunge che cosa dovette sopportare: Hai
distolto il tuo volto e sono stato turbato (Sal.
29, 8); come se dicesse apertamente: Mi sono creduto forte tra
le mie virtù, ma abbandonato, ho riconosciuto quanto è grande la
mia debolezza. Perciò ancora dice: Ho
giurato e stabilito di custodire i giudizi della tua giustizia (Sal.
118, 106). Ma poiché non era in potere della sua forza rimanere
fermo nella custodia che aveva giurato, subito scopri la propria
debolezza, per cui immediatamente si buttò nella preghiera
dicendo: Sono
stato umiliato fino in fondo, Signore, dammi
vita secondo la tua parola (Sal.
118, 107). Poiché spesso la guida celeste prima di fare
progredire coi doni richiama alla mente il ricordo della debolezza,
perché non ci si gonfi per le virtù ricevute. Perciò il profeta
Ezechiele, ogni volta che è condotto a contemplare le cose celesti,
viene chiamato prima figlio
dell’uomo, come
se il Signore lo ammonisse apertamente dicendo: perché tu non
innalzi il tuo cuore nell’esaltazione, considera attentamente ciò
che sei, affinché quando penetri le verità somme riconosca di
essere uomo; e mentre sei rapito al di là di te, tu sia richiamato
sollecitamente a te stesso dal freno della tua debolezza. Perciò è
necessario che quando l’abbondanza delle virtù ci lusinga,
l’occhio della mente ritorni alle sue debolezze e si costringa a
voltarsi indietro per guardare non ciò che ha fatto rettamente, ma
ciò che ha trascurato di fare, perché, mentre nel ricordo della
debolezza, il cuore si abbatte, sia rafforzato nella virtù presso
l’autore dell’umiltà. Poiché spesso Dio onnipotente, quantunque
in gran parte renda perfette le menti delle guide delle anime,
tuttavia, per una piccola parte, le lascia imperfette, affinché,
quando risplendono per le loro ammirabili virtù, si struggano per il
fastidio della propria imperfezione e non si innalzino per quanto è
in loro di grande, mentre ancora si travagliano nel loro sforzo
contro difetti minimi; ma poiché non sono capaci di vincere questi
ultimi resti di imperfezione, non osino insuperbire per i loro atti
eminenti. Ecco, nobilissimo uomo, spinto dalla necessità di accusare
me stesso e tutto attento a mostrare quale debba essere il Pastore,
ho dipinto un uomo bello, io cattivo pittore, che, ancora sbattuto
dai flutti dei peccati, pretendo di guidare gli altri al lido della
perfezione. Ma in questo naufragio della vita, ti supplico,
sostienimi con la tavola della tua preghiera e, poiché il mio peso
mi fa affondare, sollevami con la mano dei tuoi meriti.
LA
VITA DEL PASTORE
1 —
Come si deve mostrare nell’esercizio del governo delle anime
colui che vi sia giunto legittimamente
Il
comportamento del presule deve essere di tanto superiore a quello del
popolo, quanto la vita del pastore differisce, ordinariamente, da
quella del gregge. Infatti è opportuno che egli si dia cura di
misurare con sollecitudine quale necessità lo costringa ad una
rigorosa rettitudine, perché è per lui che il popolo è chiamato
gregge. Bisogna allora che egli sia puro nel pensiero, esemplare
nell’agire, discreto nel suo silenzio, utile con la sua parola; sia
vicino a ciascuno con la sua compassione e sia, più di tutti,
dedito alla contemplazione; sia umile alleato di chi fa il bene, ma
per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei
peccatori; non attenui la cura della vita interiore nelle occupazioni
esterne, né tralasci di provvedere alle necessità esteriori per la
sollecitudine del bene interiore. Ma ora vogliamo riprendere in una
trattazione più estesa queste qualità che abbiamo ristrette
brevemente nell’enunciazione.
2
— La guida delle anime sia pura nel pensiero
La
guida delle anime sia sempre pura nel suo pensiero, affinché nessuna
immondezza contamini colui che ha assunto questo ufficio ed egli sia
in grado di lavare anche i cuori altrui dalle macchie dell’impurità;
perché bisogna che abbia cura di essere pulita la mano che si
adopera a pulire ciò che è sudicio, e non renda ancora più sporco
ciò che va toccando mentre è ancora infangata. Perciò è detto per
mezzo del profeta: Purificatevi
voi, che
portate i vasi del Signore (Is.
52, 12). Infatti portano i vasi del Signore coloro che si
assumono di condurre le anime ai santuari eterni, con la fedeltà
della propria condotta di vita. Dunque, vedano in se stessi quanto
debbano essere purificati, quelli che dentro la promessa che hanno
fatto di sé portano vasi viventi al tempio eterno. Perciò viene
prescritto dalla parola divina che sul petto di Aronne aderisca,
legato con nastri, il razionale del giudizio (cf. Es. 28, 15),
affinché il cuore del sacerdote non sia posseduto da pensieri
oscillanti ma sia tenuto stretto solo dalla sapienza dello spirito: e
non pensi a nulla di incerto o di inutile colui che, stabilito come
esempio per gli altri, deve sempre mostrare, con l’austerità della
vita, quanta sapienza abbia nel cuore. E si ha cura di aggiungere che
in questo razionale si scrivano i nomi dei dodici patriarchi;
infatti, portare di continuo i padri scritti sul petto significa
meditare senza interruzione la vita degli antichi, e il sacerdote
procede in modo irreprensibile quando fissa il suo sguardo senza posa
sugli esempi dei padri che l’hanno preceduto, considera
incessantemente le orme dei santi e reprime pensieri illeciti per non
oltrepassare il limite di un agire ordinato. Ed è anche appropriato
il nome di razionale del giudizio, poiché il sacerdote deve sempre
discernere con esame sottile e retto il bene e il male e studiare
attentamente come si accordino gli oggetti e i mezzi, il tempo e il
modo; e non cercare mai nulla per sé ma considerare vantaggio
proprio il bene altrui. Perciò là è scritto: Porrai
sul razionale del giudizio la dottrina e la verità, che
staranno sul petto di Aronne quando entrerà davanti al Signore, e
porterà il giudizio dei figli di Israele sul suo petto, davanti
al Signore, sempre (Es.
28, 30). Per il sacerdote, portare il giudizio dei figli di
Israele sul petto davanti al Signore, significa trattare le cause dei
sudditi avendo di mira solo la volontà del Giudice interiore, perché
ad essa nulla si mescoli di umano in ciò che egli dispensa come
rappresentante di Dio né alcun risentimento personale inasprisca
l’ardore della correzione. E quando si mostra pieno di zelo contro
i vizi altrui, persegua innanzitutto i propri perché una invidia
nascosta non contamini la pacatezza del giudizio, o non la turbi
un’ira precipitosa. Ma considerando il sacro terrore che si deve a
colui che sta sopra a tutto, cioè l’intimo Giudice, non si devono
governare i sudditi senza grande timore: quel timore che mentre
umilia l’animo di chi governa lo purifica, perché la presunzione
spirituale non lo esalti né lo contamini il piacere carnale o non lo
oscurino sconvenienti pensieri terrestri, frutto della cupidigia di
cose mondane. Tutte queste tentazioni non possono non assalire
l’anima di chi governa, ma è necessario affrettarsi a lottare
contro di esse per vincerle affinché, per il fatto che l’anima
tarda a respingerle, il vizio che la tenta con la suggestione non la
sottometta con la mollezza del piacere e non la uccida con la spada
del consenso.
3
— La guida
delle anime sia sempre esemplare nel suo agire
La
guida delle anime sia esemplare nel suo agire per potere annunciare
ai sudditi, col suo modo di vivere, la via della vita; e il gregge
che va dietro alla voce e ai costumi del Pastore, proceda più con
l’aiuto dei suoi esempi che delle sue parole. Infatti, chi per
dovere indeclinabile del suo ministero è tenuto a dire cose elevate,
dal medesimo dovere è costretto a mostrare cose elevate nei fatti;
giacché il cuore degli ascoltatori è più facilmente penetrato
dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla, il quale
con l’esempio aiuta ad eseguire ciò che comanda a parole. Perciò
è detto per mezzo del profeta: Sali
su un monte eccelso, tu
che evangelizzi Sion (Is.
40, 9). Cioè, chi pratica la divina predicazione deve mostrare
che, abbandonando le più basse attività terrestri, sta saldo al di
sopra delle cose; e tanto più facilmente può attirare i sudditi
verso il meglio, quanto è con il merito della sua vita che egli
grida le verità celesti. Per questo, per la legge divina, nel
sacrificio il sacerdote riceve la spalla destra separata dal resto
(cf. Es. 29, 22), perché la sua condotta non sia solo utile ma anche
esemplare, il suo agire sia retto non solo tra i cattivi ma egli
superi per le virtù della sua vita anche i sudditi che operano il
bene come è superiore a loro, per la dignità dell’Ordine. A lui,
poi, viene assegnata, come cibo, oltre alla spalla, anche la parte
tenera del petto, perché quanto gli è prescritto di prendere dal
sacrificio impari ad immolarlo in se stesso al Creatore. Ed egli non
deve solamente meditare retti pensieri nel suo petto, ma invitare
quanti lo osservano ad azioni elevate, indicate dalle spalle: non
aspiri alla prosperità della vita presente, non tema le avversità,
disprezzi le lusinghe del mondo come per un intimo senso di terrore,
ma poi, ai terrori che esse suscitano, non badi, volgendosi al
conforto della dolcezza interiore. E per questo la parola divina
ordina pure che le spalle del sacerdote siano avvolte dal velo
omerale (cf. Es. 29, 5), perché egli sia sempre difeso
dall’ornamento delle virtù contro l’avversità e contro la
prosperità affinché, secondo la parola di Paolo, avanzando con le
armi della giustizia a destra e a sinistra (cf. 2 Cor. 6, 7) e
indirizzando ogni sforzo solo verso i beni interiori, non pieghi né
da un lato né dall’altro verso alcun basso piacere.
Non
lo esalti la prosperità, non l’abbatta l’avversità, nessuna
lusinga lo alletti fino a fargli ricercare il piacere; l’asprezza
delle difficoltà non lo spinga alla dispersione, e così, senza che
alcuna passione trascini verso il basso la tensione del suo spirito,
egli possa mostrare di quanta bellezza il velo omerale ricopra le sue
spalle. Ed è anche giustamente prescritto che il velo omerale sia
d’oro, di violaceo, di porpora, di scarlatto tinto due volte e di
bisso ritorto (cf. Es. 28, 8), per dimostrare di quante virtù debba
risplendere il sacerdote. Ora, nell’abito del sacerdote,
soprattutto rifulge l’oro poiché in lui deve brillare
principalmente una intelligenza sapiente. Ad esso si aggiunge il
violaceo che risplende di riflessi d’oro, affinché attraverso ogni
conoscenza a cui perviene, egli non ricerchi basse soddisfazioni, ma
si innalzi all’amore delle cose celesti; e non avvenga che mentre
si lascia prendere incautamente dalle lodi che gli vengono rivolte,
resti privo proprio dell’intelligenza della verità. All’oro e al
violaceo si mescola pure la porpora, per indicare cioè che il cuore
sacerdotale, mentre spera le cose somme che predica, deve reprimere
anche in se stesso le suggestioni dei vizi e contraddire ad essi come
in virtù di un potere regale, poiché egli deve avere sempre di mira
la nobiltà di una continua intima rigenerazione e difendere, coi
suoi costumi, l’abito del regno celeste. Di questa nobiltà dello
spirito, per mezzo di Pietro è detto: Ma
voi siete stirpe eletta, sacerdozio
regale (1
Pt. 2, 9). E anche riguardo a questo potere di sottomettere i
vizi, siamo confortati dalla parola di Giovanni che dice: Ma
a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di
Dio (Gv.
1, 12). Ed è considerando la dignità di questa potenza che il
salmista dice: Per
me sono stati molto onorati i tuoi amici, o
Dio, quanto
è stato rafforzato il loro principato (Sal.
138, 17).
Poiché
è certo che l’animo dei santi si leva verso le più grandi altezze
principalmente quando, all’esterno, essi sono visibilmente
sottoposti all’abiezione. Inoltre, all’oro, al violaceo e alla
porpora si aggiunge lo scarlatto tinto due volte, a significare che
agli occhi del Giudice interiore ogni bene di virtù deve adornarsi
della carità, e tutto quanto risplende davanti agli uomini, alla
presenza del Giudice occulto deve essere acceso dalla fiamma
dell’amore intimo. Ed è evidente che la carità, in quanto ama Dio
e il prossimo, rifulge quasi di una doppia tintura. Pertanto, colui
che anela alla bellezza del Creatore, ma trascura di occuparsi del
prossimo, oppure si occupa del prossimo ma è torpido nell’amore di
Dio, per avere trascurato uno di questi due precetti, non sa portare
lo scarlatto tinto due volte, sul velo omerale. Resta ancora però,
senza dubbio, che quando lo spirito è teso verso i comandamenti
della carità, la carne deve macerarsi nell’astinenza. Perciò si
aggiunge allo scarlatto il bisso ritorto. Infatti il bisso nasce
dalla terra con un aspetto splendente, e che cosa può essere
designata dal bisso se non la castità luminosa per la dignità di un
corpo puro? Ed essa si intreccia, ritorta, alla bellezza del velo
omerale perché la castità è portata al candore perfetto della
purezza quando la carne si affatica nell’astinenza. E quando, tra
le altre virtù progredisce anche il merito di una carne umiliata, è
come bisso ritorto che risplende nella varia bellezza del velo
omerale.
4
— La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio, utile
con la sua parola
La
guida delle anime sia discreta nel suo silenzio e utile con la sua
parola affinché non dica ciò che bisogna tacere e non taccia ciò
che occorre dire. Giacché come un parlare incauto trascina
nell’errore, così un silenzio senza discrezione lascia nell’errore
coloro che avrebbero potuto essere ammaestrati. Infatti, spesso,
guide d’anime improvvide e paurose di perdere il favore degli
uomini hanno gran timore di dire liberamente la verità; e, secondo
la parola della Verità, non servono più alla custodia del gregge
con lo zelo dei pastori ma fanno la parte dei mercenari (cf. Gv. 10,
13), poiché, quando si nascondono dietro il silenzio, è come se
fuggissero all’arrivo del lupo. Per questo infatti, per mezzo del
profeta, il Signore li rimprovera dicendo: Cani
muti che non sanno abbaiare (Is.
56, 10). Per
questo ancora, si lamenta dicendo: Non
siete saliti contro, non
avete opposto un muro in difesa della casa d’Israele, per
stare saldi in combattimento nel giorno del Signore (Ez.
13, 5). Salire
contro è contrastare i poteri di questo mondo con libera parola in
difesa del gregge; e stare saldi in combattimento nel giorno del
Signore è resistere per amore della giustizia agli attacchi dei
malvagi. Infatti, che cos’è di diverso, per un Pastore, l’avere
temuto di dire la verità dall’avere offerto le spalle col proprio
silenzio? Ma chi si espone in difesa del gregge, oppone ai nemici un
muro in difesa della casa di Israele. Perciò di nuovo viene detto al
popolo che pecca: I
tuoi profeti videro per te cose false e stolte e non ti manifestavano
la tua iniquità per spingerti alla penitenza (Lam.
2, 14). È
noto che nella lingua sacra spesso vengono chiamati profeti i maestri
che, mentre mostrano che le cose presenti passano, insieme rivelano
quelle che stanno per venire. Ora, la parola divina rimprovera
costoro di vedere cose false, perché mentre temono di scagliarsi
contro le colpe, invano blandiscono i peccatori con promesse di
sicurezza: essi non svelano le iniquità dei peccatori perché si
astengono col silenzio dalle parole di rimprovero. In effetti le
parole di correzione sono la chiave che apre, poiché col rimprovero
lavano la colpa che, non di rado, la persona stessa che l’ha
compiuta ignora.
Perciò
Paolo dice: (Il vescovo) sia in grado di esortare nella sana
dottrina e di confutare i contraddittori (Tit. 1, 9). Perciò
viene detto per mezzo di Malachia: Le labbra del sacerdote
custodiscano la scienza e cerchino la legge dalla sua bocca, perché
è angelo del Signore degli eserciti (Mal. 2, 7).
Perciò
per mezzo di Isaia il Signore ammonisce dicendo: Grida, non
cessare, leva
la tua voce come una tromba (Is.
58, 1). E invero chiunque si accosta al sacerdozio assume
l’ufficio del banditore perché, prima dell’avvento del Giudice
che lo segue con terribile aspetto, egli lo preceda col suo grido. Se
dunque il sacerdote non sa predicare, quale sarà il grido di un
banditore muto? Ed è perciò che lo Spirito Santo, la prima volta,
si posò sui Pastori in forma di lingue (Atti, 2, 3), poiché rende
subito capaci di parlare di Lui, coloro che ha riempiti. Perciò
viene ordinato a Mosé che il sommo sacerdote entrando nel
tabernacolo si accosti con tintinnio di campanelli, abbia cioè le
parole della predicazione, per non andare con un colpevole silenzio
incontro al giudizio di colui che lo osserva dall’alto. È scritto
infatti: Perché
si oda il suono quando entra e quando esce dal santuario in cospetto
del Signore, e
non muoia (Es.
28, 35). Così il sacerdote, che entra o che esce, muore se
da lui non si ode suono, poiché attira su di sé l’ira del Giudice
occulto se cammina senza il suono della predicazione. Inoltre, quei
campanelli sono descritti come opportunamente inseriti nelle sue
vesti, perché le vesti del sacerdote non dobbiamo intenderle
altrimenti che come le sue buone opere, per testimonianza del profeta
che dice: I
tuoi sacerdoti si rivestano di giustizia (Sal.
131, 9). Pertanto, i campanelli sono inseriti nelle sue vesti,
perché insieme al suono della parola, anche le opere stesse del
sacerdote proclamino la via della vita. Ma quando la guida delle
anime si prepara a parlare, ponga ogni attenzione e ogni studio a
farlo con grande precauzione, perché se si lascia trascinare a un
parlare non meditato, i cuori degli ascoltatori non restino colpiti
dalla ferita dell’errore; e mentre forse egli desidera di mostrarsi
sapiente non spezzi stoltamente la compagine dell’unità. Perciò
infatti la Verità dice: Abbiate
sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc.
9, 49). Col sale è indicata la sapienza del Verbo. Pertanto chi
si sforza di parlare sapientemente, tema molto che il suo discorso
non confonda l’unità degli ascoltatori. Perciò Paolo dice: Non
sapienti più di quanto è opportuno, ma
sapienti nei limiti della sobrietà (Rom.
12, 3). Perciò nella veste del sacerdote, secondo la parola
divina, ai campanelli si uniscono le melagrane (Es. 28, 34). E che
cosa viene designato con le melagrane se non l’unità della fede?
Infatti, come nelle melagrane i molti grani dell’interno sono
protetti da un’unica buccia esterna, così l’unità della fede
protegge tutti insieme gli innumerevoli popoli che costituiscono la
Santa Chiesa e che si distinguono all’interno per la diversità dei
meriti. Così, affinché la guida delle anime non si butti a parlare
da incauto, come già si è detto, la Verità stessa grida ai suoi
discepoli: Abbiate
sale in voi e abbiate pace tra voi, come
se attraverso la figura della veste del sacerdote dicesse: Aggiungete
melagrane ai campanelli affinché, in tutto ciò che dite abbiate a
conservare con attenta considerazione l’unità della fede. Inoltre,
le guide delle anime debbono provvedere con sollecita cura, non solo
a non fare assolutamente discorsi perversi e falsi, ma a non dire
neppure la verità in modo prolisso e disordinato, perché spesso il
valore delle cose dette si perde quando viene svigorito, nel cuore di
chi ascolta, da una loquacità inconsiderata e inopportuna. Questa
medesima loquacità, poi, che è certamente incapace di servire
utilmente gli ascoltatori, contamina anche colui che la esercita. Per
cui è ben detto per mezzo di Mosé: L’uomo
che soffre di flusso di seme, sarà
immondo (Lev.
15, 2). Di fatto, la qualità del discorso udito è seme di quel
pensiero che gli terrà dietro nella mente degli ascoltatori, poiché
la parola, ricevuta attraverso l’orecchio, nella mente genera il
pensiero. È per questo che, dai sapienti di questo mondo, il bravo
predicatore è chiamato seminatore di parole (cf. Atti, 17, 18).
Dunque, chi patisce flusso di seme è dichiarato impuro, perché chi
è soggetto a una eccessiva loquacità si macchia con quel seme da
cui — se l’avesse effuso in modo ordinato — avrebbe potuto
generare nei cuori degli ascoltatori la prole del retto pensiero; ma
se lo sparge con una loquacità inconsiderata, è come chi emette il
seme, non al fine di generare ma per l’impurità. Perciò anche
Paolo, quando esorta il discepolo ad insistere nella predicazione
dicendo: Ti
scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che giudicherà i vivi e i
morti, per
il suo avvento e il suo regno, predica
la parola, insisti
opportunamente, importunamente (2
Tim. 4, 1-2); prima di
dire importunamente premise opportunamente, perché
è chiaro che nella considerazione di chi ascolta, l’importunità
appare in tutta la sua qualità spregevole se non sa esprimersi in
modo opportuno.
5
— La guida
delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più
di tutti dedito alla contemplazione
La
guida delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più
di tutti dedito alla contemplazione, per assumere in sé, con le sue
viscere di misericordia, la debolezza degli altri, e insieme, per
andare oltre se stesso nell’aspirazione delle realtà invisibili,
con l’altezza della contemplazione. E così, se guarda con
desiderio verso l’alto non disprezzi le debolezze del prossimo o se
viceversa, si accosta ad esse, non trascuri di aspirare all’alto.
Perciò infatti Paolo è condotto in Paradiso e vi scruta i segreti
del terzo cielo (cf. 2 Cor. 12, 2 ss.), e tuttavia, pur assorto in
quella contemplazione delle cose invisibili, richiama l’acutezza
della sua mente al letto dell’unione carnale e definisce come
questa debba essere vissuta nella sua intimità, dicendo: A causa
della fornicazione, ciascun
uomo abbia la propria moglie e ciascuna donna abbia il proprio
marito. Il
marito dia alla moglie quanto le deve; e
similmente, la
moglie al marito (1
Cor. 7, 2). E poco dopo: Non
privatevi l’uno dell’altro se non temporaneamente e
d’accordo, per
attendere alla preghiera, e
di nuovo ritornate insieme perché Satana non vi tenti (1
Cor. 7, 5). Ecco, egli viene già introdotto ai segreti celesti
e tuttavia per la sua accondiscendente misericordia investiga il
letto dell’unione carnale, e quello sguardo del cuore che egli, già
innalzato, rivolge alle cose invisibili lo piega pieno di compassione
verso i segreti di creature inferme. Oltrepassa il cielo con la
contemplazione e tuttavia non tralascia, nella sua sollecitudine, di
occuparsi del giaciglio dell’unione carnale; poiché, congiunto
strettamente alle realtà più alte e insieme alle infime dall’intimo
abbraccio della carità, egli è rapito potentemente verso l’alto
per virtù del suo spirito, ma per la sua misericordia, nella mitezza
del suo animo, si fa debole negli altri. Perciò infatti dice: Chi
è debole e io non sono debole? Chi patisce scandalo e io non
brucio? (2
Cor. 11, 29). E perciò ancora dice: Con
i Giudei sono divenuto come Giudeo (1
Cor. 9, 20). Evidentemente mostrava ciò non con la perdita
della fede, bensì con l’estendere la sua misericordia, così che
trasferendo in sé la persona degli infedeli potesse imparare da se
stesso come avrebbe dovuto avere compassione degli altri e fare a
loro il bene che — nella medesima condizione — avrebbe rettamente
voluto fosse fatto a lui. E di nuovo perciò dice: Se
usciamo di mente è per Dio; se
siamo sobri è per voi (2
Cor. 5, 13), poiché nella contemplazione egli sapeva salire
oltre se stesso, ma sapeva ugualmente moderare se stesso per
condiscendenza verso i suoi ascoltatori. Per questo Giacobbe, quando
il Signore risplendeva su di lui in alto ed egli in basso unse la
pietra, vide angeli che salivano e scendevano (cf. Gen. 28, 12): a
significare, cioè, che i veri predicatori non solo anelano verso
l’alto con la contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al
Signore, ma nella loro misericordia scendono pure in basso, alle sue
membra. Ugualmente Mosé entra ed esce tanto frequentemente dal
Tabernacolo: dentro, è rapito dalla contemplazione; fuori, è
pressato dalle necessità di creature inferme. Dentro, medita i
misteri di Dio; fuori, porta i pesi delle realtà carnali. Ma pure,
quando si tratta di casi dubbi egli ricorre sempre al Tabernacolo e
davanti all’arca del testamento consulta il Signore: certo per
offrire un esempio alle guide delle anime perché, quando nelle
decisioni di carattere esterno si trovano nell’incertezza,
ritornino sempre al proprio cuore come . al Tabernacolo; sarà come
se fossero davanti all’arca del testamento a consultare il Signore,
se riguardo a ciò per cui dentro di sé sono in dubbio,
ricercheranno nel loro intimo le pagine della parola sacra. Perciò
la Verità stessa che ci si è mostrata nell’assunzione della
nostra umanità, sul monte si immerge nella preghiera, ma nelle città
opera i miracoli (cf. Lc. 6, 12): evidentemente per appianare la via
dell’imitazione alle buone guide delle anime, perché se anche sono
già protese alle somme altezze della contemplazione, sappiano
tuttavia mescolarsi compatendo alle necessità di creature inferme.
Poiché la carità si eleva a meravigliosa altezza quando si trascina
con misericordia fino alle bassezze del prossimo; e con quanto
maggior benevolenza si piega verso le infermità tanto più
potentemente risale verso l’alto. Coloro che presiedono si mostrino
tali che quanti sono loro soggetti non arrossiscano di affidar loro i
propri segreti, affinché, quando si sentono come bambini nella lotta
contro i flutti delle passioni, ricorrano al cuore del Pastore come
al seno di una madre; e col sollievo della sua esortazione e le
lacrime della sua preghiera lavino le impurità della colpa che preme
e minaccia di contaminarli. Per questo davanti alla porta del tempio
c’è il mare di bronzo, cioè il bacino per la purificazione delle
mani di chi entra, ed è sostenuto da dodici buoi i quali sporgono
con la parte anteriore mentre la posteriore resta nascosta (cf. 1 Re
7, 23-25). Che cosa significano i dodici buoi se non tutto l’ordine
dei Pastori, dei quali, secondo il commento che ne fa Paolo, la
Scrittura dice: Non
mettere la museruola al bue che trebbia (1
Cor. 9, 9)? Di
essi non vediamo le opere compiute apertamente, ma ignoriamo ciò che
li attende nella segreta retribuzione del severo Giudice. Tuttavia
quando essi con la loro paziente accondiscendenza dispongono il
prossimo alla confessione purificatrice è come se portassero su di
sé il bacino davanti alle porte del tempio, affinché chiunque si
sforza di entrare per la porta dell’eternità, manifesti al cuore
del Pastore le sue tentazioni e — per così dire — lavi il suo
pensiero e le sue azioni nel bacino dei buoi. Accade pure spesso che
il Pastore nell’ascoltare benevolmente le tentazioni altrui ne
diviene vittima egli stesso come senza dubbio resta inquinata quella
medesima acqua del bacino, nella quale si purifica la moltitudine del
popolo. Infatti mentre riceve l’impurità di coloro che si lavano,
l’acqua viene come a perdere la sua limpida purezza, ma non si deve
temere che avvenga lo stesso del Pastore, poiché Dio che pensa a
tutto con cura minuziosa lo strappa alla sua tentazione tanto più
facilmente quanto maggiore è la misericordia con cui egli si carica
della tentazione altrui.
6
— La guida delle anime sia umile alleato di chi fa il
bene; e per il suo zelo della giustizia sia inflessibile
contro i vizi dei peccatori
La
guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene e per il suo
zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori;
così non si anteponga in nulla ai buoni, e quando la colpa dei
malvagi lo esige, non esiti a riconoscere il potere del suo primato.
In tal modo, lasciando da parte la dignità che riveste, si consideri
uguale ai sudditi che vivono operando il bene, e verso i malvagi non
tema di affermare i diritti della verità e della giustizia. Infatti,
come ricordo di avere scritto nei libri morali (Moralia, lib.
21, cap. 10), è certo che gli uomini sono tutti uguali per natura
ma, variando l’ordine dei meriti, la colpa pospone gli uni agli
altri. Però, anche la diversità che procede dal peccato è regolata
dalla disposizione divina affinché, siccome non ogni uomo è in
grado di mantenersi in questa condizione di eguaglianza, ci siano
alcuni uomini governati da altri. Perciò tutti coloro che
presiedono, in se stessi non debbono considerare il potere del
proprio grado ma l’eguaglianza secondo natura; non godano dunque di
governare sugli uomini ma di giovare loro. I nostri antichi padri,
del resto, furono pastori di pecore, non re di uomini; e quando il
Signore disse a Noè e ai suoi figli: Crescete
e moltiplicatevi e riempite la terra, subito
aggiunse: E
terrore di voi e tremore sia su tutti gli animali della terra (Gen.
9, 1). Evidentemente, se viene prescritto che debba esserci questo
terrore e tremore sugli animali della terra, viene senz’altro
proibito che esso possa esercitarsi sugli uomini. L’uomo è stato
preposto per natura agli animali bruti, non agli altri uomini; e
perciò gli viene detto che gli animali e non gli uomini lo devono
temere; quindi voler essere temuto da un eguale corrisponde ad una
esaltazione contro natura. E tuttavia è necessario che le guide
delle anime incutano timore ai sudditi quando esse si accorgono che
quelli non hanno alcun timore di Dio, affinché coloro che non hanno
paura dei giudizi divini temano di peccare almeno per una paura
umana. Infatti, coloro che sono preposti ad altri non insuperbiscono
nella ricerca di questo timore, poiché con essa non cercano la
propria gloria ma la giustizia dei sudditi: nell’esigere timore per
sé da coloro che conducono una vita malvagia è come se governassero
animali e non uomini, perché è per quella parte di loro con cui si
comportano da bestie che i sudditi debbono giacere persino prostrati
dalla paura. Ma spesso chi guida delle anime, per il fatto stesso di
essere preposto ad altri si gonfia nell’esaltazione del suo
pensiero: tutto è a sua disposizione, i suoi ordini vengono
prontamente eseguiti secondo il suo desiderio, tutti i sudditi sono
pronti a lodarlo ampiamente se fa qualcosa di buono e sono privi di
autorità per contraddirlo per quello che fa di male, anzi, per lo
più sono disposti a lodarlo anche quando dovrebbero disapprovarlo;
allora il suo animo si innalza al di sopra di sé sedotto da
tutto ciò che gli viene elargito dal basso. Così, circondato
all’esterno da grandissimo favore, si svuota interiormente della
verità e dimentico della sua realtà profonda si disperde
compiacendosi dell’apprezzamento altrui e si crede tale quale è la
sua fama al di fuori, non quale dovrebbe riconoscersi nel proprio
intimo. Disprezza i sudditi, non li riconosce uguali a sé secondo
l’ordine naturale e si immagina di avere superato, anche per i
meriti della propria vita, coloro che gli stanno sottoposti a motivo
di un potere datogli in sorte. Si giudica più sapiente di tutti
coloro dei quali si vede più potente. Nella stima che ha di se
stesso si è come stabilito su una cima e sdegna di guardare agli
altri come a uguali, lui che pure è legato a loro dalla condizione
di una, uguale natura. E così diviene simile a colui di cui è
scritto: Vede
ogni sublime altezza ed egli stesso è re sopra tutti i figli della
superbia (Giob.
41, 25), a colui cioè che aspirando a un luogo più elevato e
disprezzando la comune vita degli angeli dice: Porrò la mia dimora
presso l’Aquilone e sarò simile all’Altissimo (cf. Is. 14,
13-14). Pertanto egli scoprì dentro di sé, per mirabile giudizio
divino, un abisso di abiezione poiché al di fuori si era innalzato
al culmine del potere. E così diviene simile all’angelo apostata
l’uomo che sdegna di essere simile agli altri uomini. Similmente
Saul, dopo avere ben meritato per la sua umiltà, si gonfiò di
superbia per l’altezza del suo potere; per l’umiltà fu scelto ma
fu riprovato per la superbia, secondo la testimonianza del Signore
che dice: Non
ti costituii forse capo tra le tribù di Israele quando eri piccolo
ai tuoi occhi? (1
Sam. 15, 17). Prima si era visto piccolo coi suoi occhi ma poi,
sostenuto dalla sua potenza mondana, non si vedeva più piccolo.
Infatti, preferendo se stesso a paragone degli altri poiché aveva un
potere superiore a tutti, si stimava più grande di tutti. Ma come —
mirabilmente — per essere piccolo davanti a se stesso fu grande
davanti a Dio, quando appari grande davanti a se stesso divenne
piccolo davanti a Dio. Dunque accade spesso che l’animo si gonfia
perché è grande il numero di coloro che gli sono soggetti e,
adulato dalla sola altezza della sua potenza, esso si corrompe
effondendosi nella superbia. Ma questa potenza, evidentemente, la
regge bene chi sa tenerla in pugno e insieme combatterla; la regge
bene chi sa, con essa, erigersi sopra le colpe, e con essa sa essere
uguale agli altri. Infatti la mente umana spesso si esalta anche
quando non si sostiene su alcun potere; quanto più si leverà in
alto se le si aggiunge anche il potere. Però il potere può essere
ben esercitato da chi sa trarre da esso ciò che giova e sa vincere
le tentazioni che esso ispira e, pur possedendolo, sa vedersi uguale
agli altri e insieme sa anteporsi ai peccatori per lo zelo della
punizione. E se consideriamo l’esempio del primo Pastore, possiamo
riconoscere più pienamente in che cosa consiste questa discrezione.
Infatti Pietro che pure teneva il primato nella Santa Chiesa, per
volontà di Dio, ricusò di accogliere i segni di una venerazione
fuor di misura da Cornelio, uomo buono che faceva il bene, il quale
gli si era umilmente prostrato; ma riconoscendosi invece simile a lui
gli disse: Alzati, non
farlo, sono
un uomo anch’io (Atti,
10, 26). Quando
però scopri la colpa di Anania e di Saffira (cf. Atti, 5, 5), mostrò
subito per quale potenza egli fosse divenuto preminente sugli altri.
Infatti con una sola parola colpi la loro vita che egli aveva
conosciuto col discernimento spirituale e si ricordò di essere la
somma autorità nella Chiesa contro i peccati; cosa che non volle
riconoscere di fronte a fratelli buoni e attivi nel bene, per un
onore che gli veniva tributato con trasporto. E in questo caso, la
santità delle opere meritò di essere accolta in una comunione tra
uguali; nell’altro, lo zelo della punizione provocò l’esercizio
del potere. Paolo non si considerava preposto ai fratelli attivi nel
bene quando diceva: Non
facciamo da padroni della vostra fede, ma
siamo cooperatori della vostra gioia (2
Cor. 1, 23). E aggiunge subito: infatti
voi state saldi nella fede (ibid.), come
per spiegare quello che aveva premesso dicendo: Perciò, non facciamo
da padroni sulla vostra fede, perché voi state saldi nella fede;
infatti noi siamo uguali a voi in ciò in cui riconosciamo che
restate fermi. Ed era come non considerarsi preposto ai fratelli
quando diceva: Siamo
divenuti un bambino piccolo in mezzo a voi (1
Tess. 2, 7); e ancora: E
noi vostri servi per Cristo (2
Cor. 4, 5). Ma
quando scopri la colpa che avrebbe dovuto essere corretta, subito si
ricordò di essere maestro, dicendo: Che
cosa volete? Devo venire da voi con la verga? (1
Cor. 4, 21). Colui
che presiede regge bene il sommo potere quando domina sui vizi
piuttosto che sui fratelli; ma quando i superiori correggono i
sudditi peccatori è necessario che in virtù del loro potere
attendano con sollecitudine a punire le colpe, per il dovere cui sono
tenuti di conservare la disciplina. Tuttavia, per conservare
l’umiltà, si riconoscano nello stesso tempo uguali a quegli stessi
fratelli che vengono corretti da loro, anzi sarebbe spesso cosa degna
che nella nostra tacita considerazione anteponessimo a noi stessi le
medesime persone che correggiamo. Infatti i loro vizi vengono puniti
per mezzo nostro col rigore della disciplina, mentre in ciò che noi
stessi commettiamo di male non siamo scalfiti neppure da una parola
di rimprovero da parte di alcuno. Siamo dunque tanto più obbligati
presso il Signore quanto più impunemente pecchiamo presso gli
uomini. D’altra parte, la nostra correzione fa tanto più liberi i
sudditi davanti al giudizio divino in quanto Egli non lascia impunite
qui le loro colpe. Così bisogna conservare l’umiltà nel cuore e
la disciplina nelle opere. Ma detto questo, bisogna anche guardare
saggiamente che le esigenze del governo non restino vanificate da una
custodia impropria dell’umiltà e se un superiore si abbassa più
del conveniente non possa più trattenere poi la vita dei sudditi
sotto il vincolo della disciplina. Dunque, le guide delle anime
restino ferme a quell’atteggiamento esteriore che assumono in vista
dell’utilità degli altri e conservino nell’intimo quella
disposizione che le fa temere grandemente quanto alla stima di sé.
Tuttavia i sudditi devono poter percepire, da certi segni di sobria
spontaneità, che esse sono umili e vedere così ciò che devono
temere dalla loro autorità e conoscere ciò che devono imitare della
loro umiltà. Pertanto, i superiori, quanto maggiore appare
all’esterno la loro potenza tanto più non cessino di provvedere a
deprimerla interiormente ai propri occhi, evitando che il pensiero ne
sia tutto preso, l’animo sia rapito dal compiacimento di sé e non
sia più in grado di tenere sottomessa quella potenza, alla quale si
sottomette per libidine di dominio. Infatti, affinché l’animo del
superiore non venga rapito dal compiacimento del suo potere fino
all’esaltazione, un sapiente ha giustamente detto: Ti
hanno stabilito guida, non
ti esaltare ma sii tra di loro come uno di loro (Sir.
32, 1). Perciò anche Pietro dice: Non
come padroni delle persone a voi toccate in sorte, ma
fatti a forma del gregge (1
Pt. 5, 3). Perciò la Verità stessa invitandoci ai più alti
meriti della virtù dice: Sapete
che i capi delle nazioni le dominano e i grandi esercitano il potere
su di loro. Non
così sarà tra voi, ma
chiunque vorrà essere maggiore fra voi sarà vostro servo, e
chi vorrà essere primo tra voi sarà vostro schiavo, come
il Figlio dell’uomo non è venuto a essere servito ma a
servire (Mt.
20, 25). Di
qui il senso delle parole che si riferiscono a quel servo esaltato
per il potere ricevuto, ma poi lo attenderanno i supplizi: Che
se quel servo malvagio dirà in cuor suo: Il
mio padrone tarda a venire; e
incomincerà a battere i suoi conservi e mangerà e berrà con gli
ubriachi; verrà
il padrone di quel servo nel giorno in cui non l’aspetta e in
un’ora che non sa, e
lo separerà e la sua parte sarà con gli ipocriti (Mt.
24, 48 ss.). Ed è giustamente considerato ipocrita colui che col
pretesto della disciplina muta il ministero del governo in esercizio
di dominio. E tuttavia spesso si pecca gravemente se nei confronti
dei malvagi si custodisce più l’eguaglianza che la disciplina.
Infatti, Eli che, vinto da una falsa pietà, non volle punire i figli
peccatori, colpi se stesso insieme ai figli con una crudele condanna
presso il severo Giudice (cf. 1 Sam. 4, 17-18); e perciò egli si
sente dire dalla parola divina: Hai
onorato i tuoi figli pia di me (1
Sam. 2, 29). E Dio
rimprovera i Pastori per mezzo dei profeti dicendo: Non
avete fasciato ciò che si era fratturato, non
avete ricondotto ciò che era rigettato (Ez.
34, 4). Si
riconduce chi è rigettato quando col vigore della sollecitudine
pastorale si richiama alla condizione di giustizia chiunque è caduto
nella colpa. E la fasciatura stringe la frattura quando la disciplina
reprime la colpa, affinché la piaga non degeneri fino alla morte se
non la stringe la severità del castigo. Ma spesso la frattura si fa
più grave se viene fasciata senza precauzione e la ferita duole
maggiormente se le bende la stringono in modo eccessivo. Perciò è
necessario che, quando per porvi rimedio si comprime nei sudditi la
ferita del peccato, si abbia grande sollecitudine di moderare la
stessa correzione perché, mentre si esercita verso i peccatori il
dovere della disciplina, non si venga meno ai sentimenti di pietà.
Bisogna cioè avere cura che la pietà faccia apparire ai sudditi
madre colui che li guida, e la disciplina glielo mostri padre. E
pertanto bisogna provvedere con pronta e avvertita prudenza che la
correzione non sia troppo rigida o la misericordia troppo permissiva.
Infatti, come abbiamo già detto nei Libri
Morali (Moralia, lib.
20, cap. 8), sia la disciplina che la misericordia vengono meno
se si esercita l’una senza l’altra; invece, nelle guide delle
anime, devono trovarsi verso i sudditi una misericordia che provvede
secondo giustizia insieme a una disciplina rigida secondo pietà. Ed
è perciò che nell’insegnamento della Verità quell’uomo
semivivo viene condotto all’albergo dalla sollecitudine del
Samaritano (cf. Lc. 10, 34) e gli vengono somministrati vino e olio
nelle sue ferite, chiaramente perché, per esse, egli sperimenti la
pungente disinfezione del vino e il conforto dell’olio che lenisce.
È assolutamente necessario che chi ha l’ufficio di curare le
ferite somministri attraverso il vino il morso pungente del dolore e
attraverso l’olio la tenerezza della pietà, giacché col vino si
purifica il putridume e con l’olio si nutre e si ristora per la
guarigione. Così, bisogna mescolare la dolcezza con la severità;
bisogna fare come un giusto contemperamento dell’una e dell’altra
affinché i sudditi non restino esasperati da troppa asprezza e
neppure infiacchiti da una eccessiva benevolenza. Ciò è ben
rappresentato dall’arca del Tabernacolo — secondo la parola di
Paolo — nella quale si trovano insieme alle tavole la verga e la
manna (cf. Ebr. 9, 4); cioè, se nell’anima della buona guida
spirituale, insieme alla scienza della Sacra Scrittura c’è la
verga della correzione, ci sia anche la manna della dolcezza. Perciò
dice David: La
tua verga e il tuo bastone mi hanno consolato (Sal.
22, 4), perché
la verga ci colpisce e il bastone ci sostiene e se c’è la
correzione della verga che ferisce ci sia anche la consolazione del
bastone che sostiene. E così ci sia l’amore, non tale però che
renda molli; ci sia il rigore non tale però che esasperi; ci sia lo
zelo che tuttavia non infierisce oltre misura; ci sia la pietà che
risparmia ma non più di quanto conviene; affinché nell’esercizio
del governo, conciliando giustizia e clemenza, il superiore muova il
cuore dei sudditi col timore ma usi con loro dolcezza, e con questa
dolcezza li costringa al rispetto che il timore ispira.
7
— La guida delle anime non attenui la cura della vita
interiore nelle occupazioni esterne, né tralasci di
provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene
interiore
La
guida delle anime non attenui la cura della vita interiore nelle
occupazioni esterne, né tralasci di provvedere alle necessità
esteriori per la sollecitudine del bene interiore, affinché, dedito
alle attività esterne non venga meno alla vita spirituale oppure
occupato solo in essa manchi di rendere quel che deve al prossimo
nell’attività esterna. Accade spesso infatti che alcuni,
dimentichi di essere stati preposti ai fratelli per le loro anime, si
dedicano con ogni sforzo del cuore al servizio degli interessi
secolari, e l’essere presenti a questi li fa esultare di gioia, e
anche quando sono assenti anelano ad essi, giorno e notte,
nell’agitazione di un pensiero inquieto. Quando poi, forse per una
interruzione occasionale, sono quieti da essi, questa stessa quiete
li affatica ancor peggio; infatti giudicano un piacere essere
oppressi dall’attività e considerano una fatica non faticare in
occupazioni terrestri. Così accade che, mentre godono di essere
incalzati da inquietudini mondane, ignorano i beni interiori che
avrebbero dovuto insegnare agli altri. Per cui sicuramente anche la
vita dei sudditi intorpidisce poiché, mentre essi aspirano al
progresso spirituale, inciampano contro l’esempio del superiore
come contro un ostacolo che si trova lungo il cammino. Infatti quando
la testa è malata anche le membra perdono vigore, e nella ricerca
del nemico non serve che l’esercito segua con prestezza se la
stessa guida del cammino perde la strada. Nessuna esortazione innalza
gli animi dei sudditi e nessun rimprovero è castigo efficace contro
le loro colpe, poiché sebbene colui che è preposto alle anime
eserciti l’ufficio di giudice terreno, la cura del Pastore non è
rivolta alla custodia del gregge e i sudditi non possono cogliere la
luce della verità perché, quando interessi terreni occupano i sensi
del Pastore, la polvere spinta dal vento della tentazione acceca gli
occhi della Chiesa. Perciò il Redentore del genere umano, volendoci
trattenere dalla ingordigia del ventre, dopo aver detto: Fate
attenzione che i vostri cuori non siano gravati dalla gozzoviglia e
dall’ubriachezza, subito
aggiunse: o
nelle preoccupazioni di questa vita; e
poi ancora introduce il timore proseguendo con forza: che
non vi sopravvenga improvviso quel giorno (Lc.
21, 34). E
di quale venuta si tratti lo manifesta dicendo: Verrà
infatti come un laccio su tutti coloro che siedono sulla faccia di
tutta la terra (Lc.
21, 35). Quindi ancora dice: Nessuno
può servire a due padroni (Lc.
16, 13). Perciò Paolo interdice le anime religiose dal commercio col
mondo dichiarando o piuttosto consigliando pressantemente: Nessuno
che militi per Dio si immischi in affari secolari per potere piacere
a colui che l’ha arruolato (2
Tim. 2, 4). Perciò prescrive alle guide della Chiesa di essere
liberi da altri interessi e mostra loro come provvedere quando si
tratti di cercare consigli, dicendo: Pertanto, se
avrete delle liti riguardo a interessi secolari stabilite come
giudici persone da niente nella Chiesa (1
Cor. 6, 4), perché
all’amministrazione dei beni terreni servano quelli che sono non
dotati di alcun dono spirituale. Come se dicesse apertamente: poiché
non sanno penetrare le realtà interiori, operino almeno per le
necessità esterne. Perciò Mosé, che parla con Dio (cf. Es. 18,
17-18), viene giudicato dal rimprovero di Ietro, uno straniero,
perché serve con una fatica inutile alle faccende terrene del
popolo, e riceve subito il consiglio di stabilire altri al posto suo
a dirimere le liti, per potere lui stesso più liberamente conoscere
i misteri spirituali e insegnarli al popolo. Pertanto tocca ai
sudditi svolgere le attività di grado inferiore, e alle guide delle
anime meditare le verità somme affinché il darsi cura della polvere
non oscuri l’occhio preposto a fare da guida nel cammino Infatti,
tutti coloro che presiedono sono capo dei sudditi e senza alcun
dubbio è il capo che deve provvedere dall’alto a che i piedi siano
in grado di percorrere la via diritta e non si intorpidiscano nel
procedere del viaggio, quando il corpo si incurva e il capo si piega
verso terra. Ma con quale disposizione interiore colui che è
preposto alle anime esercita sugli altri la dignità pastorale se lui
stesso è preso dalle attività terrene che dovrebbe rimproverare
negli altri? È chiaramente questo che il Signore, dall’ira della
giusta retribuzione, minaccia per mezzo del profeta dicendo: E
come il popolo così sarà il sacerdote (Os.
4, 9). E il sacerdote è come il popolo quando colui che esplica
un ufficio spirituale compie esattamente le stesse cose di coloro che
vengono ancora designati dai loro interessi carnali. Vedendo questo,
il profeta Geremia piange, con grande dolore ispirato dalla sua
carità, e lo raffigura nella distruzione del tempio dicendo: Come
si è annerito l’oro e si è mutata la sua splendida lucentezza, le
pietre del santuario sono state disperse in capo a tutte le
piazze (Lam.
4, 1). Che cosa si intende infatti con oro, che
è il metallo più prezioso di tutti, se non l’eccellenza della
santità? Che cosa si esprime con splendida
lucentezza se
non la riverenza che ispira la dignità religiosa amabile a tutti?
Che cosa significano le pietre
del santuario, se
non le persone insignite di ordini sacri? Che cosa si raffigura col
nome di piazze, se
non la larghezza della vita presente? Infatti nella lingua greca la
larghezza è detta platos ed
è certo per la larghezza che le piazze sono chiamate così. Ma la
Verità in persona dice: Larga
e spaziosa è la via che porta alla perdizione (Mt.
7, 13). L’oro
pertanto annerisce quando una vita che deve essere santa si contamina
con attività terrestri. La splendida lucentezza si muta quando
diminuisce la stima che si era fatta di certuni i quali si credeva
vivessero religiosamente. Infatti quando qualcuno, chiunque sia,
lascia il costume di una vita santa per immischiarsi in attività
terrestri, la riverenza che egli ispirava, divenuta oggetto di
disgusto, impallidisce agli occhi degli uomini come la vivezza di un
colore alterato. E anche le pietre del santuario vengono sparse nelle
piazze quando coloro, che per il decoro della Chiesa avrebbero dovuto
attendere solo ai misteri dello spirito, come nel segreto del
Tabernacolo, vagano invece fuori, sulle larghe vie degli affari
mondani. In effetti, le pietre del santuario erano fatte per
comparire nell’interno del Santo dei Santi sulla veste del sommo
sacerdote; ma quando i ministri della religione non sanno esigere,
coi meriti della loro condotta di vita, l’onore dovuto dai sudditi
al loro Redentore, allora le pietre del santuario non sono ornamento
del pontefice. Esse giacciono sparse sulle piazze perché coloro che
portano gli ordini sacri, dediti alla larghezza dei loro piaceri,
sono tutti presi dagli affari terreni. E occorre notare che non dice
che sono sparsi nelle piazze,
ma in capo alle
piazze, poiché mentre si occupano delle cose del mondo aspirano ad
apparire in alto, per mantenersi sulle larghe vie, per l’allettamento
del piacere, e insieme in capo alle piazze, per l’onore che viene
attribuito alla santità. Del resto possiamo anche intendere senza
difficoltà che le pietre del santuario siano invece quelle medesime
con cui il santuario era stato costruito; in questo caso quelle
pietre giacciono in capo alle piazze quando gli uomini insigniti
degli ordini sacri si pongono con desiderio al servizio di affari
mondani mentre prima sembrava che la loro gloria consistesse nel
servizio delle cose sante. Così, gli affari mondani si devono
assumere talvolta per esigenze di carità, ma non si devono mai
ricercare con passione, per evitare che esse, gravando l’animo di
chi le predilige, lo trascinino avvinto al proprio peso, dalle
regioni celesti giù nel profondo. Ma si dà anche il caso che alcuni
assumano effettivamente la cura del gregge, ma aspirano tanto per sé
di essere liberi di dedicarsi alle cose spirituali che non si
occupano per nulla affatto di cose esterne. Allora, poiché essi
trascurano totalmente le cure materiali, non soccorrono in nulla le
necessità dei sudditi e per lo più la loro predicazione viene
sdegnata e non vengono ascoltati volentieri poiché rimproverano
l’agire dei peccatori, ma poi non amministrano loro quanto è
necessario alla vita presente. Infatti la parola della dottrina non
penetra nella mente del bisognoso se una mano misericordiosa non la
raccomanda al suo cuore. E invece, il seme della parola germina
facilmente quando la pietà di chi predica lo irriga nel petto di
colui che ascolta. Perciò è necessario che la guida delle anime
possa infondere le verità spirituali e anche provvedere alle
necessità esteriori con una attenzione del pensiero che però non
gli danneggi. Così, i Pastori siano ferventi degli interessi
spirituali dei loro sudditi, purché in questo non tralascino di
provvedere pure alla loro vita esteriore. Infatti, come abbiamo
detto, è comprensibile che l’animo del gregge non creda alla
predicazione che dovrebbe accogliere, se il Pastore tralascia la cura
dell’aiuto esterno. Perciò il primo Pastore ammonisce con
sollecitudine dicendo: Scongiuro
gli anziani che sono tra voi, io
anziano come loro e testimone dei patimenti di Cristo e fatto
partecipe della sua gloria che deve essere rivelata in
futuro, pascete
il gregge di Dio che è tra voi. Ed
egli stesso spiega a questo punto quale pascolo intenda, se del cuore
o del corpo, poiché aggiunge subito: Governandolo
non per costrizione ma spontaneamente, secondo
Dio, non
per turpe guadagno ma volontariamente (1
Pt. 5, 1). E certo, con queste parole, previene piamente i
Pastori perché, mentre soddisfano l’indigenza dei sudditi, non
uccidano se stessi con la spada dell’ambizione, e se per loro mezzo
il prossimo riceve il sollievo di aiuti materiali, loro stessi poi
non rimangano digiuni del pane della giustizia. Paolo eccita questa
sollecitudine dei Pastori dicendo: Chi
non ha cura dei suoi, soprattutto
dei familiari, ha
rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele (1
Tim. 5, 8). E
così, tra queste cose, bisogna però sempre temere e prestare vigile
attenzione che mentre si trattano affari esterni non se ne venga
sommersi, privati dell’intimo fervore; poiché spesso, come abbiamo
già detto, le guide delle anime piegano improvvisamente il loro
cuore a servire le cure temporali, e così si raffredda l’amore nel
loro intimo, ed espandendosi al di fuori non temono di vivere
nell’oblio, col pretesto di doversi occupare delle anime. Pertanto,
la cura che pure si deve avere nei confronti dei bisogni materiali
dei sudditi deve essere necessariamente contenuta entro certi limiti.
Perciò si dice bene in Ezechiele: I
sacerdoti non si radano il capo, né
si tacciano crescere i capelli, ma
li accorcino tagliandoli (Ez.
44, 20). Infatti sono giustamente chiamati sacerdoti coloro che
presiedono ai fedeli per offrire loro una guida sacra. I capelli del
capo sono i pensieri della mente volti a cure esteriori e finché
nascono insensibilmente sul capo designano le cure della vita
presente, le quali crescono, senza quasi che ce ne accorgiamo, da una
sensibilità trascurata poiché nascono talvolta in modo inopportuno.
Dunque, poiché tutti quelli che presiedono devono avere di fatto
delle sollecitudini esteriori, senza d’altra parte dedicarsi ad
esse con eccessiva passione, giustamente si proibisce ai sacerdoti di
radersi il capo e di farsi crescere i capelli, affinché non taglino
radicalmente da sé i pensieri che riguardano la vita materiale dei
sudditi, né d’altra parte diano loro troppo spazio in modo da
farli crescere. Perciò è ben detto: Accorcino
i capelli tagliandoli, evidentemente
nel senso che se pure, per quel che è inevitabile, possono nascere
preoccupazioni di cure materiali, tuttavia esse devono essere
tagliate ben presto perché non crescano smodatamente. Pertanto,
quando la vita materiale viene protetta attraverso la pratica di una
previdenza esteriore — e in più non è ostacolata dalla tensione
spirituale, quando questa è illuminata — è allora che i capelli
sul capo del sacerdote vengono conservati perché coprano la pelle,
ma vengono tagliati perché non chiudano gli occhi.
8
— La
guida delle anime, col
suo zelo, non
abbia di mira il favore degli uomini; e
tuttavia sia attento a ciò che ad essi deve piacere.
Oltre
a ciò, è pure necessario che la guida delle anime esplichi una
vigile cura perché non la spinga la bramosia di piacere agli uomini,
e quando si dedica assiduamente ad approfondire le realtà interiori
o distribuisce provvidamente i beni esteriori, non cerchi di più
l’amore dei sudditi che la verità; e quando sostenuto dalle sue
buone azioni sembra, estraneo al mondo, il suo amore di sé non lo
renda estraneo al Creatore. Infatti è nemico del Redentore colui
che, attraverso le opere giuste che compie, brama di essere amato
dalla Chiesa in luogo di Lui; ed è così reo di pensiero adultero,
come il servo per mezzo del quale lo sposo manda doni alla sposa ed
egli brama di piacere agli occhi di lei. Poiché quando l’amor
proprio si impadronisce della guida delle anime, talvolta la trascina
a una mollezza disordinata, talvolta al contrario ad un aspro rigore.
Il suo spirito è portato alla mollezza dall’amor proprio quando,
pur vedendo i sudditi peccare, non trova opportuno castigarli per non
indebolire il loro amore verso di lui, e non di rado accarezza con le
adulazioni quegli errori dei sudditi che avrebbe dovuto rimproverare.
Perciò è detto bene, per mezzo del profeta: Guai
a coloro che cuciono cuscinetti per ogni gomito e fanno guanciali per
teste di ogni età, per
rapire anime (Ez.
13, 18). Porre cuscinetti sotto ogni gomito è confortare con
blanda adulazione le anime che vengono meno alla propria rettitudine
e si ripiegano nei piaceri di questo mondo. Ed è come accogliere su
un cuscino o su un guanciale il gomito o il capo di uno che giace,
quando si sottrae il peccatore alla durezza della punizione e gli si
offrono le mollezze del favore, così che chi non è colpito da
alcuna aspra contraddizione giaccia mollemente nell’errore. E le
guide delle anime che amano sé stesse, senza alcun dubbio offrono di
queste cose a coloro che temono gli possano nuocere nella loro
ricerca della gloria mondana. Infatti esse opprimono con l’asprezza
di un rimprovero sempre duro e violento quelli che vedono non avere
alcuna forza contro di loro, e non li ammoniscono mai benignamente
ma, dimentiche della mitezza del Pastore li terrorizzano in forza del
loro potere. La parola di Dio li rimprovera giustamente dicendo per
mezzo del profeta: Voi
comandavate su di loro con austerità e con prepotenza (Ez.
34, 4). Infatti, amando più se stessi che il loro Creatore, si
ergono contro i sudditi con tracotanza e non guardano a quello che
hanno dovere di fare ma a ciò per cui hanno la forza; senza alcun
timore del giudizio che seguirà, si gloriano sfrontatamente del loro
potere temporale purché possano compiere con ogni licenza anche cose
illecite e nessuno dei sudditi li contraddica. Pertanto, colui che
desidera vivere perversamente, e che gli altri tuttavia ne tacciano,
testimonia contro se stesso di desiderare che si ami lui più della
verità, che non vuole venga difesa contro di lui. E non esiste
certamente nessuno che viva in questo modo e, almeno entro un certo
ambito, non pecchi. Vuole invece che si ami la verità più di lui,
chi non vuol essere risparmiato da nessuno ai danni della verità.
Perciò infatti Pietro riceve volentieri il rimprovero di Paolo (cf.
Gal. 2, 11 ss.); perciò David ascoltò umilmente la correzione di un
suddito (cf. 2 Sam. 11, 7 ss.); poiché le buone guide di anime non
sanno amare se stessi di un amore particolare e considerano un umile
ossequio, da parte dei sudditi, una parola ispirata da una libera
purezza d’animo. Ma è soprattutto necessario che la cura del
governo delle anime sia temperata da tanta sapiente moderazione che i
sudditi possano esprimere con libera parola quanto hanno rettamente
avvertito, anche se poi questa libertà non deve essere tale da
erompere in superbia; perché non accada che se si concede ai sudditi
una eccessiva libertà di parola, essi abbiano poi a perdere l’umiltà
della vita. Bisogna pure sapere che è opportuno che le buone guide
delle anime desiderino di piacere agli uomini, ma solo per attirare
il prossimo all’amore della verità attraverso la dolcezza della
stima che esse ispirano; non per desiderare di essere amate, ma per
fare dell’amore di cui sono oggetto come una via attraverso la
quale introdurre all’amore del Creatore i cuori di coloro che
ascoltano. Poiché è difficile che, per quanto dica la verità, sia
ascoltato volentieri, un predicatore che non è amato. Dunque, chi
presiede deve applicarsi a farsi amare per potere essere ascoltato; e
tuttavia non deve cercare amore per se stesso, per non essere trovato
come chi, nell’occulta tirannide del suo pensiero, si oppone a
colui che per via del suo ufficio sembra servire. Ciò suggerisce
bene Paolo quando ci manifesta gli aspetti nascosti della sua
dedizione, dicendo: Come
anch’io piaccio a tutti in ogni cosa (1
Cor. 10, 33). E
tuttavia dice di nuovo altrove: Se
piacessi ancora agli uomini non sarei servo di Cristo (Gal.
1, 10). Dunque, Paolo piace e non piace perché, nel suo
desiderio di piacere, non cerca di piacere lui, ma che agli uomini
piaccia la verità attraverso di lui.
9
— La guida delle anime deve essere attenta nella
consapevolezza che non di rado i vizi si travestono da virtù
La
guida delle anime deve anche sapere che non di rado i vizi si
travestono da virtù Infatti spesso l’avarizia si nasconde sotto il
nome di parsimonia e, al contrario, la prodigalità sotto
l’appellativo di generosità. Spesso una accondiscendenza senza
discrezione è considerata pietà, e un’ira sfrenata zelo virtuoso;
spesso un’azione precipitosa passa per rapidità efficiente e la
lentezza dell’agire per prudenza deliberata. Perciò è necessario
che la guida delle anime discerna con vigile cura virtù da vizi,
perché l’avarizia non si impadronisca del suo cuore ed egli si
compiaccia di apparire parco nella sua amministrazione; oppure si
vanti, magari con l’aria di commiserare la propria liberalità,
quando c’è stato qualche sperpero per la sua prodigalità; o
trascini all’eterno supplizio i sudditi rimettendo il peccato che
avrebbe dovuto colpire; o colpendo con crudeltà il peccato, pecchi
egli stesso più gravemente; o, tratti con leggerezza, con una fretta
troppo anticipata, ciò che si sarebbe potuto trattare correttamente
e con ponderazione o, differendo il compimento di una buona azione,
ne converta in peggio il risultato.
10 —
Quale debba essere la discrezione della guida delle anime nel
correggere e nel dissimulare; nello zelo e nella
mansuetudine
Bisogna
pure sapere che occorre talvolta dissimulare con prudenza i vizi dei
sudditi ma che pur dissimulandoli bisogna mostrare di conoscerli.
Talvolta, colpe manifeste bisognerà tollerarle per un certo
tempo, talvolta invece, quando sono nascoste, esaminarle
diligentemente; talvolta riprenderle con dolcezza; talvolta al
contrario rimproverarle con forza. Alcune in effetti, come abbiamo
detto, bisogna dissimularle con prudenza e tuttavia mostrare di
conoscerle, affinché il peccatore sapendo di essere noto come tale,
e di essere tuttavia sopportato, arrossisca di aumentare quelle colpe
che vede tollerate in silenzio nei suoi confronti, e fattosi giudice
di se stesso si punisca, lui che la clemente pazienza della sua
guida, per parte sua, scusa. È chiaro che con questa dissimulazione
il Signore corregge la Giudea, quando dice per mezzo del profeta: Hai
mentito e non ti sei ricordata di me né hai meditato in cuor
tuo; perché
io tacevo quasi come uno che non vede (Is.
57, 11). Dunque dissimulò le colpe e lo fece notare, in quanto
tacque contro il peccatore ma non tacque il fatto stesso di avere
taciuto. Alcune colpe manifeste, invece, bisogna tollerarle per un
certo tempo; finché cioè l’opportunità della situazione non sia
tale da consigliare un’aperta correzione. Infatti le ferite operate
troppo presto si infiammano maggiormente, e se i medicamenti non
vengono graduati in modo conveniente nel tempo, è chiaro che non
rendono al medico la loro utilità. Ma quando il superiore deve
cercare tempo per infliggere la correzione ai sudditi, è proprio
sotto il peso di quelle colpe che si esercita la sua pazienza. Perciò
dice bene il salmista: Sul
mio dorso hanno fabbricato i peccatori (Sal.
128, 3). Poiché è sul dorso che portiamo i pesi, egli si
lamenta che sul suo dorso i peccatori hanno fabbricato, come se
dicesse apertamente: Porto addosso come un peso coloro che non posso
correggere. Alcune colpe invece, che sono nascoste, vanno esaminate
diligentemente perché, se se ne manifestano alcuni segni, la guida
delle anime possa scoprire tutto ciò che si nasconde, chiuso,
nell’animo dei sudditi e, presentandosi il momento della
correzione, possa conoscere dai più piccoli segni di vizio le colpe
maggiori. Perciò giustamente viene detto ad Ezechiele: Figlio
dell’uomo, fora
la parete. E
subito il profeta prosegue: E
quando ebbi forato la parete mi apparve una porta. E
mi disse: Entra
e vedi le orribili abominazioni che costoro commettono qui. Ed
entrato vidi; ed
ecco ogni tipo di rettili e di animali abominevoli e tutti gli idoli
della casa di Israele erano dipinti sulla parete (Ez.
8, 8-10). È chiaro che Ezechiele rappresenta le persone dei
superiori, e la parete la durezza dei sudditi. E che cosa significa
forare la parete se non aprire la durezza del cuore con penetranti
indagini? Quando ebbe forato la parete apparve una porta, perché
quando la durezza del cuore si spacca cedendo alle attente indagini o
alle sapienti correzioni, è come se si mostrasse una porta dalla
quale si vedono tutte le profondità dei pensieri in colui che viene
ammonito. Per cui è ben detto ciò che segue quel punto: Entra
e vedi le orribili abominazioni che costoro commettono. Ed
è uno che entra per vedere delle abominazioni, colui che, andando
oltre certi segni che appaiono all’esterno, penetra i cuori dei
sudditi in modo che gli risultino chiari tutti i loro pensieri
illeciti. E quindi prosegue: Ed
entrato vidi; ed
ecco ogni tipo di rettili e animali abominevoli. Nei
rettili sono indicati i pensieri del tutto terreni, negli animali i
pensieri già un poco sollevati da terra ma ancora alla ricerca di un
compenso terreno.
Infatti
i rettili aderiscono alla terra con tutto il corpo, mentre gli
animali con gran parte del corpo sono sospesi da terra e tuttavia
continuano a essere inclinati verso di essa per l’appetito della
gola. Così i rettili sono oltre la parete, quando nella mente si
rivolgono pensieri che non si innalzano mai dai desideri terreni. E
ci sono pure animali oltre la parete, quando pensieri e meditazioni,
sia pure giusti e onesti, sono tuttavia ancora asserviti a mire di
guadagni e onori temporali: per sé, in effetti, sono già quasi
elevati da terra ma si sottomettono ancora alle realtà più basse
per la loro ambizione che è paragonabile a un desiderio di gola.
Perciò ancora prosegue giustamente: E
tutti gli idoli della casa di Israele erano dipinti sulla parete. In
effetti è scritto: E
l’avarizia, che
è schiavitù agli idoli (Col.
3, 5). Dunque è giusto che dopo gli animali si descrivano gli
idoli, poiché sebbene alcuni si drizzino già da terra per l’agire
onesto, tuttavia per la loro disonesta ambizione si riadagiano per
terra. Ed è ben detto: Erano
dipinti, perché,
quando gli aspetti delle cose esterne vengono assorbiti
interiormente, viene come dipinto nel cuore quello che si pensa e si
delibera sulla base di quelle false immagini. Pertanto, occorre
sottolineare che prima c’è il foro nella parete, quindi si vede la
porta e infine viene manifestata la occulta abominazione. Ciò
evidentemente perché in ciascuno si danno prima i segni esterni del
peccato, quindi si mostra la porta dell’iniquità manifesta e
infine si spalanca ogni male che si nasconde nell’intimo. Alcuni
peccati però vanno ripresi con dolcezza; infatti, quando non si
pecca per malizia ma solo per ignoranza o per debolezza, è
assolutamente necessario che la stessa correzione del peccato sia
temperata da grande moderazione: tutti, finché siamo in questa carne
mortale, soggiacciamo alla debolezza della nostra natura corrotta,
così ciascuno deve apprendere da se stesso come si debba essere
misericordiosi nei confronti della debolezza altrui affinché, se si
lascia trasportare a pronunciare parole di rimprovero troppo accese
contro la debolezza del prossimo, non gli accada di apparire uno che
si è dimenticato di sé. Perciò Paolo ammonisce giustamente: Se
qualcuno sarà colto in qualche peccato, voi
che siete spirituali istruite questo tale in spirito di
mansuetudine, considerando
te stesso perché anche tu non sia tentato (Gal.
6, 1); come se dicesse apertamente: Quando vedi qualcosa di
spiacevole dovuto alla debolezza altrui, pensa a ciò che sei; perché
nello zelo del rimprovero lo spirito si moderi, se teme anche per se
stesso ciò che rimprovera ad altri. Altri peccati invece si devono
rimproverare con forza, affinché chi ha commesso la colpa e non ne
conosce l’entità la apprenda dalla bocca di colui che lo
rimprovera. E se qualcuno è portato a considerare con leggerezza il
male commesso, lo tema molto, al contrario, per la severità di chi
glielo rimprovera aspramente. Ed è certamente dovere della guida
delle anime mostrare con la predicazione la gloria della patria
celeste, manifestare quanto son grandi le tentazioni dell’antico
nemico, che si nascondono nel cammino di questa vita, e correggere
con zelo grande e severo i peccati dei sudditi che non devono essere
tollerati con leggerezza, perché non sia considerato lui stesso reo
di tutte le colpe se il suo sdegno non si accende contro quelle.
Perciò è ben detto in Ezechiele: Prenditi
un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso la città
di Gerusalemme. E
subito prosegue: E
disporrai l’assedio contro di essa, edificherai
le opere di difesa, costruirai
un terrapieno, e
porrai contro di essa gli accampamenti e metterai intorno gli
arieti. E
subito per sua protezione gli viene suggerito: E
tu prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro fra
te e la città (Ez.
4, 1-3). E di chi è figura il profeta Ezechiele se non dei
maestri? Giacché gli vien detto: Prenditi
un mattone e lo porrai davanti a te e disegnerai su di esso la città
di Gerusalemme. E
in realtà i santi dottori si prendono un mattone quanto attirano a
sé il cuore di terra degli ascoltatori per istruirli. E pongono
davanti a sé quel mattone evidentemente nel senso di custodirlo con
tutta la tensione dello spirito. E ricevono l’ordine di disegnare
su di esso la città di Gerusalemme, perché predicando a cuori di
terra pongono ogni loro cura a dimostrare quale sia la visione della
pace celeste. Ma poiché invano si cerca di conoscere la gloria della
patria celeste se non si conosce la grandezza delle tentazioni
dell’astuto nemico che vi fanno irruzione, si prosegue
opportunamente: Disporrai
l’assedio contro di essa e edificherai le opere di difesa. E
i santi predicatori indubbiamente dispongono un assedio intorno al
mattone su cui è disegnata la città di Gerusalemme, quando
dimostrano a un cuore terreno ma già in ricerca della patria celeste
quanto essa sia soggetta nel tempo di questa vita agli assalti ostili
dei vizi. Infatti quando si mostra in qual modo ciascun peccato
insidia coloro che avanzano [nel cammino spirituale] è come se dalla
voce del predicatore si disponesse un assedio intorno alla città di
Gerusalemme. Ma poiché non solo devono risultare chiari gli assalti
dei vizi ma anche come ci fortifichi la custodia delle virtù,
giustamente si prosegue: Edificherai
le opere di difesa. Queste
difese, il predicatore santo le edifica quando dimostra quali virtù
si oppongono a quei vizi. E poiché quando aumenta la virtù per lo
più crescono le guerre della tentazione, si aggiunge giustamente
ancora: E
costruirai un terrapieno e porrai contro di essa gli accampamenti e
metterai intorno gli arieti. Infatti
costruisce un terrapieno, il predicatore, quando annuncia l’entità
della tentazione crescente. Ed erige accampamenti contro Gerusalemme,
quando predice le caute e quasi inavvertibili insidie dell’astuto
nemico, alla onesta intenzione degli ascoltatori. E pone arieti
intorno, quando fa conoscere gli aculei delle tentazioni, che ci
circondano da ogni parte in questa vita e sono capaci di perforare il
muro delle virtù. Ma quantunque la guida delle anime riesca a
suggerire sottilmente tutte queste consapevolezze, se egli non arde
di uno spirito di gelosia contro i peccati dei singoli, non si
procura assoluzione in eterno; perciò, in quel luogo, ancora
giustamente si prosegue: E
tu prenditi una teglia di ferro e la porrai come un muro di ferro tra
te e la città. Con teglia si
intende l’ardore dello spirito, e con ferro la
forza del rimprovero. Che cosa infatti fa ardere e tormenta il
maestro con più acutezza che lo zelo di Dio? E Paolo, che bruciava
per l’ardore di questa teglia diceva: Chi
è infermo e io non sono infermo? Chi è scandalizzato e io non
brucio? (2
Cor. 11,29) E poiché chiunque è acceso dallo zelo di Dio è
custodito in eterno da una forte custodia, per non dovere essere
condannato per la negligenza, è detto giustamente: La
porrai come muro di ferro fra te e la città. Infatti,
la teglia di ferro è posta come muro di ferro fra il profeta e la
città, nel senso che, quando le guide delle anime manifestano un
forte zelo, questo stesso zelo essi lo conservano come forte difesa
fra sé e gli ascoltatori, affinché se saranno troppo indulgenti
nella correzione non siano poi abbandonati alla vendetta [divina].
Soprattutto però bisogna sapere, che se l’animo del maestro si
esaspera nel rimprovero, è molto difficile che egli una volta o
l’altra non prorompa a dire qualcosa che non deve dire. E per lo
più accade che, quando si corregge la colpa di sudditi con grande
impeto, la lingua del maestro è trascinata ad eccedere nelle parole;
e, quando il rimprovero è acceso oltre misura, il cuore dei
peccatori si deprime fino alla disperazione. Perciò è necessario
che quando il superiore si rende conto di avere colpito l’animo dei
sudditi con eccessiva durezza, nella sua esasperazione, ricorra alla
penitenza dentro di sé per ottenere perdono, col suo pianto, di
fronte alla Verità, anche per ciò in cui pecca per eccessivo zelo.
A ciò corrisponde, in figura, il precetto del Signore che per mezzo
di Mosé dice: Se
uno andrà con un suo amico nel bosco, semplicemente
a tagliar legna, e
gli sfuggirà di mano il manico della scure, e
il ferro caduto dal manico colpirà l’amico e l’ucciderà; egli
fuggirà in una delle città sopraddette e vivrà; perché
non accada che il parente prossimo di colui di cui è stato sparso il
sangue, spinto
dal dolore, lo
insegua, lo
prenda e colpisca la sua vita (Deut.
19, 5-6). Dunque,
noi andiamo nel bosco con l’amico ogni volta che ci disponiamo a
ricercare i peccati dei sudditi, e tagliamo semplicemente legna
quando recidiamo, con disposizione d’animo pietosa, i vizi dei
peccatori. Ma quando il rimprovero si trascina fino a divenire più
aspro del necessario, è allora che la scure sfugge di mano; e quando
le parole della correzione si fanno troppo dure il ferro cade dal
manico, per cui colpisce e uccide l’amico colui che, proferendo
parole ingiuriose, spegne nel suo ascoltatore lo spirito di carità.
Infatti l’animo di colui che subisce la correzione immediatamente
precipita nell’odio se questo rimprovero va oltre i limiti. Ma è
necessario che, chi colpisce incautamente la legna e uccide il
prossimo, fugga verso tre città per vivere protetto in una di esse;
perché colui che, voltosi a lacrime di penitenza, si nasconde sotto
la speranza la fede e la carità nell’unità del sacramento non è
considerato reo dell’omicidio commesso. E il parente prossimo
dell’ucciso, quando lo troverà non lo ucciderà; perché quando
verrà il severo Giudice, che si è unito a noi facendosi consorte
della nostra natura, senza dubbio non perseguirà il reato della sua
colpa col castigo poiché fede speranza e carità lo nascondono sotto
il suo perdono.
11 — Quando
la guida delle anime debba essere dedita alla meditazione della legge
sacra
Ma
tutto ciò si compie debitamente dalla guida delle anime se, animato
dallo spirito del timore e dell’amore, ogni giorno con diligenza,
medita i precetti della Parola sacra, affinché le parole della
divina ammonizione ricostruiscano in lui la forza della sollecitudine
e della previdente attenzione verso la vita celeste, che viene
distrutta incessantemente dalla pratica della vita tra gli uomini. E
chi, attraverso la comunione con le persone del mondo, è ricondotto
alla vita dell’uomo vecchio, con il desiderio della comunione si
rinnova a un amore incessante della patria spirituale. Infatti, nel
parlare con gli uomini il cuore si disperde, e constatando con
certezza che, spinto dal tumulto delle occupazioni esteriori, decade
dalla sua condizione, deve avere una cura incessante di rialzarsi
attraverso la dedizione allo studio [sacro]. Perciò Paolo ammonisce
il discepolo preposto al gregge, dicendo: Fino
alla mia venuta attendi alla lettura (1
Tim. 4, 13). Perciò David dice: Come
amo la tua legge, Signore, tutto
il giorno è la mia meditazione (Sal.
118, 97). Perciò
il Signore dà ordine a Mosé a proposito del trasporto dell’arca,
dicendo: Farai
quattro anelli d’oro che porrai ai quattro angoli dell’arca, e
farai delle stanghe di legno di acacia e le coprirai d’oro e le
infilerai negli anelli ai lati dell’arca così che sia portata con
quelle, che
saranno sempre infilate negli anelli e non ne verranno mai
estratte (Es.
25, 12 ss.). Che
cosa è rappresentato dall’arca se non la Santa Chiesa? Si ordina
poi che ad essa vengano aggiunti quattro anelli agli angoli, e ciò
senza dubbio significa che essa, per il fatto che si estende
dilatandosi nelle quattro parti del mondo, è annunciata cinta dei
quattro libri del Santo Evangelo. E si fanno stanghe di legno di
acacia da infilarsi nei medesimi anelli per il trasporto, pérché
bisogna cercare maestri forti e perseveranti come legno che non
imputridisce, i quali, sempre intenti allo studio dei libri sacri,
annuncino l’unità della Santa Chiesa portando l’arca come
inseriti in quegli anelli, poiché portare l’arca con le stanghe
significa, per i buoni maestri, condurre la Santa Chiesa alle rozze
menti degli infedeli attraverso la predicazione. E le stanghe devono
essere pure ricoperte d’oro, cioè i maestri mentre con i loro
discorsi predicano agli altri devono risplendere anche loro per la
luminosità della vita. E giustamente, riferendosi a loro si
aggiunge: Le
quali saranno sempre dentro gli anelli e non saranno mai estratte
da essi, perché
evidentemente è necessario che chi veglia all’ufficio della
predicazione non cessi dall’amoroso studio della lettura sacra. E
l’ordine che le stanghe siano sempre negli anelli è in vista
dell’opportunità indeclinabile di trasportare l’arca senza che
si generi alcun ritardo nell’inserimento delle stanghe; ciò
significa che quando un Pastore viene interrogato dai sudditi
riguardo a un qualche contenuto spirituale, è veramente vergognoso
se egli si mette a cercare la risposta proprio quando deve risolvere
una questione. Ma le stanghe sono inserite negli anelli perché i
maestri che meditano sempre nel loro cuore la Parola sacra alzino
l’arca del testamento senza indugi, e insegnino senza incertezze in
qualunque necessità. Perciò dice bene il primo Pastore della Chiesa
ammonendo gli altri Pastori: Pronti
sempre a rispondere a chiunque vi chiede ragione della speranza che è
in voi (1 Pt.
3, 15). Come se dicesse apertamente: Le stanghe non siano mai
tolte dagli anelli affinché nessun indugio intralci il trasporto
dell’arca.
PARTE
TERZA
COME
DEVE INSEGNARE E AMMONIRE I SUDDITI
UNA
GUIDA DELLE ANIME
CHE
HA BUONA CONDOTTA DI VITA
Prologo
Poiché
abbiamo indicato come deve essere il Pastore, ora intendiamo
dimostrare quale debba essere il suo insegnamento. Infatti, come
insegnò molti anni prima di noi Gregorio di Nazianzo di venerabile
memoria, non a tutti si adatta un unico e medesimo genere di
esortazione poiché sono diversi la natura e il comportamento di
ciascuno, e spesso ciò che giova agli uni nuoce agli altri. Così
accade non di rado che certe erbe adatte a nutrire alcuni animali ne
uccidono altri o che un leggero fischio che acquieta i cavalli eccita
i cagnolini; e una medicina che fa passare una malattia ne aggrava
un’altra; e il pane che rinvigorisce le persone forti uccide i
bambini piccoli. Dunque, il discorso di chi insegna deve essere fatto
tenendo conto del genere degli ascoltatori per essere adeguato a
quella che è la condizione propria dei singoli e tuttavia non
decadere dal suo proprio genere che è di servire alla comune
edificazione. Infatti che cosa sono le menti degli ascoltatori se
non, per così dire, corde ben tese di una cetra che l’artista
tocca con diversa intensità per produrre un’armonia che si accordi
col canto?
E
le corde danno un’armonia ben modulata, perché sono toccate da un
unico plettro ma con vibrazioni diverse. Perciò il maestro per
edificare tutti nell’unica virtù della carità deve toccare il
cuore degli ascoltatori con una sola dottrina ma con un diverso
genere di esortazione.
1 —
Nell’arte della predicazione bisogna osservare una grande
diversità di modi
Infatti
deve essere diverso il modo con cui si ammoniscono gli uomini e le
donne. Diversa l’ammonizione per i giovani e per i vecchi; per i
poveri e per i ricchi; per gli allegri e per i tristi; per i sudditi
e per i prelati; per i servi e per i padroni; per i sapienti di
questo mondo e per gli incolti; per gli sfrontati e per i timidi; i
presuntuosi e i pusillanimi; gli impazienti e i pazienti; i benevoli
e gli invidiosi; i semplici e gli insinceri; i sani e i malati;
coloro che temono i castighi e perciò conducono una vita innocente e
quelli tanto induriti nell’iniquità che neppure i castighi li
correggono; i taciturni e i chiacchieroni; i pigri e i precipitosi; i
mansueti e gli iracondi; gli umili e gli orgogliosi; gli ostinati e
gli incostanti; i golosi e i temperanti; quelli che distribuiscono
per misericordia i propri beni, e coloro che fanno di tutto per
rapire quelli degli altri; quelli che né rapiscono i beni altrui né
elargiscono i propri, e coloro che distribuiscono ciò che hanno e
tuttavia non desistono dal rapire i beni altrui; i litigiosi e i
pacifici; i seminatori di discordia e gli operatori di pace; coloro
che non intendono rettamente le parole della legge divina, e coloro
che, invece, le intendono certo rettamente ma non ne parlano
umilmente; coloro che sono in grado di predicare degnamente ma temono
di farlo per eccessiva umiltà e quelli a cui sarebbe proibito da
qualche difetto o dall’età e tuttavia l’irruenza li spinge a
farlo; quelli che prosperano in tutto quel che desiderano nei beni
temporali, e quelli che, pur accesi di desiderio delle cose mondane,
durano la fatica di una pesante fortuna avversa; quelli che sono
vincolati dal matrimonio, e quelli che sono liberi dal vincolo
matrimoniale; quelli che hanno esperienza di unione carnale, e quelli
che non l’hanno; quelli che piangono peccati di opere, e quelli che
piangono peccati di pensiero; quelli che piangono i peccati e
tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia
non li piangono; quelli che addirittura lodano le azioni illecite che
compiono, e quelli che accusano le loro depravazioni ma non le
evitano; quelli che sono vinti da una improvvisa concupiscenza, e
quelli che restano prigionieri della colpa con deliberazione; quelli
che commettono frequentemente peccati, sia pure minimi, e quelli che
si custodiscono dai piccoli ma talvolta’affondano nei più gravi;
quelli che non incominciano neppure a fare il bene, e quelli che dopo
averlo incominciato non lo portano a termine; coloro che fanno il
male di nascosto e il bene in pubblico, e quelli che nascondono il
bene che fanno e tuttavia lasciano che si pensi male di loro per
certe loro azioni pubbliche. Ma non ci sarebbe alcuna utilità a
passare in rassegna in una breve enumerazione tutte queste situazioni
se non esponessimo anche, con la maggiore brevità possibile, i modi
dell’ammonizione adatti a ciascuna di esse. Dunque deve essere
diverso il modo di ammonire gli uomini e le donne poiché agli uni
bisogna imporre obblighi più gravi affinché gravi doveri li rendano
sempre operanti nell’esercizio del bene; alle altre invece bisogna
imporre pesi più leggeri che le convertano come accarezzandole.
Diverso deve essere il modo di ammonire i giovani e i vecchi poiché
è la severità dell’ammonizione che per lo più guida i primi nel
loro progresso mentre è un’amorevole preghiera che dispone i
secondi a un agire migliore. Poiché è scritto: Non sgridare
un anziano ma pregalo come un padre (1 Tim. 5, 1).
2
— Come bisogna ammonire i poveri e i ricchi
Diverso
è il modo di ammonire i poveri e i ricchi poiché agli uni dobbiamo
offrire il sollievo della consolazione di fronte alla tribolazione,
agli altri invece il timore di fronte all’esaltazione. Al povero,
il Signore dice, per mezzo del profeta: Non temere perché
non sarai confuso. E non molto tempo dopo dice con
dolcezza: Poverina, sbattuta dalla tempesta (Is.
48, 10). E ancora la consola dicendo: Ti ho scelto nel
crogiolo della povertà (Is. 54, 4. 11). Paolo, al
contrario, a proposito dei ricchi dice al discepolo: Ai
ricchi di questo secolo ordina di non essere superbi e di non sperare
nelle loro incerte ricchezze (1 Tim. 6, 17); dove
occorre notare che il maestro dell’umiltà non
dice: prega ma ordina, perché
quantunque si debba usare misericordia alla debolezza, non si deve
onore all’orgoglio. Dunque, ciò che è giusto dire a tali persone
viene loro tanto più giustamente comandato quanto più esse si
gonfiano nell’esaltazione del loro pensiero riguardo a realtà che
passano. Di costoro il Signore dice nell’Evangelo: Guai a
voi, ricchi, che avete la vostra
consolazione (Lc. 6, 24). Poiché infatti essi ignorano
in che cosa consistono le gioie eterne e si consolano con la
ricchezza della vita presente. Bisogna allora offrire consolazione a
coloro che ardono nel crogiolo della povertà, mentre agli altri, che
si esaltano nella consolazione della gloria mondana, occorre
insinuare il timore; affinché i poveri apprendano che possiedono
ricchezze che non vedono e i ricchi sappiano che non possono
conservare le ricchezze che vedono. Spesso tuttavia la qualità dei
costumi inverte l’ordine delle persone, per cui il ricco è umile e
il povero orgoglioso. Subito allora la parola del predicatore deve
adattarsi alla vita di chi ascolta così da colpire con tanto maggior
rigore l’orgoglio nel povero in quanto neppure la povertà che gli
è stata imposta riesce a piegarlo; e con tanta più dolcezza
accarezzi l’umiltà dei ricchi in quanto neppure la ricchezza che
inorgoglisce li esalta. Tuttavia non di rado anche il ricco superbo
deve essere placato con dolce esortazione, perché spesso dure ferite
si alleviano con medicamenti leggeri e la furia dei pazzi è
ricondotta al senno da un medico amorevole, così che quando si viene
loro incontro con dolcezza si mitiga la malattia, dell’insania.
Infatti bisogna penetrare senza negligenza il significato più
profondo di ciò che accadeva quando lo spirito avverso invadeva
Saul, e David calmava la sua follia con la cetra (cf. 1 Sam. 16, 23);
giacché, a che cosa si accenna attraverso Saul se non all’orgoglio
dei potenti? E a che cosa attraverso David se non all’umile vita
dei santi? Dunque, quando Saul è afferrato dallo spirito immondo, la
sua follia è moderata dal canto di David perché quando il
sentimento dei potenti si muta in furore a causa dell’orgoglio, è
opportuno che esso sia richiamato alla sanità della mente, dalla
pacatezza del nostro parlare come dal dolce suono della cetra. Ma
talvolta, quando si tratta di confutare dei potenti di questo mondo,
occorre prima metterli alla prova usando delle similitudini come se
si trattasse di affare che non riguarda loro; e quando avranno
proferito una giusta sentenza come rivolta a un altro, allora con i
modi opportuni bisogna colpirli direttamente con l’accusa della
loro colpa, affinché il cuore, gonfio della sua potenza mondana, non
si erga contro chi lo rimprovera — poiché è col suo stesso
giudizio che questi calpesta il suo collo superbo — ed esso non
provi a difendersi in alcun modo, legato com’è dalla sentenza
pronunciata con la sua stessa bocca. Perciò, infatti, il profeta
Natan era venuto ad accusare il re con l’aria di chiedere un
giudizio contro un ricco in difesa di un povero (cf. 2 Sam. 12,
1-15), affinché il re prima pronunciasse la sua sentenza e solamente
dopo ascoltasse il suo peccato, senza poter contraddire ciò che era
giusto, secondo quanto egli stesso aveva proferito contro di sé. E
così l’uomo santo considerando insieme il peccatore e il re,
secondo un mirabile procedimento, prima legò il re temerario
attraverso la confessione quindi lo troncò con l’accusa; per un
poco celò chi veramente cercava ma colpi improvvisamente colui che
teneva stretto. Forse avrebbe agito su di lui con minore efficacia se
fin dal principio del discorso avesse voluto colpire apertamente la
colpa, mentre anticipando la similitudine rese più acuto il
rimprovero che essa nascondeva. Era venuto come un medico da un
malato, vedeva che la ferita doveva essere tagliata ma dubitava della
pazienza del malato; pertanto, nascose il bisturi sotto la veste e
trattolo improvvisamente lo conficcò nella ferita, perché il malato
lo sentisse tagliare prima di vederlo e non si fosse rifiutato di
sentirlo se l’avesse veduto in precedenza.
3
— Come
bisogna ammonire gli allegri e i tristi
Diverso
è il modo di ammonire gli allegri e i tristi. Agli allegri
evidentemente bisogna presentare le tristezze che tengono dietro al
castigo; ai tristi invece i gaudii promessi come frutto del regno.
Gli allegri imparino dalla durezza delle minacce ciò che devono
temere; i tristi ascoltino le gioie del premio che già possono
pregustare. Ai primi, infatti, è detto: Guai
a voi che ora ridete, poiché
piangerete (Lc.
6, 25); gli altri invece ascoltano l’insegnamento del medesimo
maestro: Vi
vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà e nessuno vi toglierà la
vostra gioia (Gv.
16, 22). Alcuni però non diventano allegri o tristi per le
circostanze ma lo sono per temperamento nativo e ad essi bisogna
certamente far conoscere che ci sono dei vizi verso i quali certi
temperamenti sono più proclivi: infatti le persone allegre sono
facili alla lussuria, le tristi all’ira. Perciò è necessario che
ognuno consideri non solamente ciò che deve sostenere a causa del
suo temperamento, ma anche ciò che lo preme da vicino con peggiore
pericolo, perché non avvenga che, mentre lotta contro ciò che deve
sopportare, si trovi a soccombere davanti a quel vizio dal quale
pensa di essere libero.
4
— Come
bisogna ammonire i sudditi e i prelati
Diverso
è il modo di ammonire i sudditi e i prelati, affinché
l’assoggettamento non annienti i primi e la posizione elevata non
esalti i secondi. Quelli non compiano meno di ciò che è stato loro
ordinato, e questi non ordinino pila di quanto giustamente si può
compiere; i primi siano sottomessi umilmente e gli altri presiedano
con moderazione. Infatti, per quanto si può anche intendere in modo
figurato, ai sudditi viene detto: Figli, obbedite
ai vostri genitori, nel
Signore; e
per i prelati c’è il precetto: E
voi, padri, non
provocate all’ira i vostri figli (Col.
3, 20-21). I primi imparino come disporre il proprio intimo agli
occhi del Giudice occulto; e gli altri come offrire all’esterno
esempi di una vita buona anche a coloro che sono stati loro affidati.
I prelati, infatti, devono sapere che se commettono azioni perverse
sono degni di morire tante volte quanti sono gli esempi di perdizione
che essi offrono ai loro sudditi. Perciò è necessario che si
custodiscano dalla colpa con una cautela tanto maggiore in quanto non
sono soli a morire, a causa delle loro azioni perverse, ma sono rei
delle anime altrui che essi hanno distrutto con i loro cattivi
esempi. Così occorre ammonire i sudditi, che saranno severamente
puniti se non sapranno farsi trovare liberi da colpa, almeno quanto a
se stessi; e i prelati, che saranno giudicati degli errori dei
sudditi anche se essi si sentono tranquilli per quanto li riguarda
personalmente. I sudditi abbiano una cura tanto pila sollecita del
proprio dovere in quanto non devono preoccuparsi degli altri; ma i
prelati provvedano agli interessi altrui senza tralasciare di curare
i propri, e per questi siano ferventi e solleciti come in nulla
devono essere pigri a custodire quanti sono stati loro affidati.
Infatti a colui che deve provvedere solo a se stesso viene detto: Va’
dalla formica, pigro, e
considera le sue vie e impara la sapienza (Prov.
6, 6); ma all’altro viene fatta una terribile ammonizione
quando gli è detto: Figlio
mio, ti
sei impegnato per il tuo amico, hai
dato la tua mano a un estraneo e ti sei preso al laccio con le parole
della tua bocca e sei prigioniero dei tuoi propri discorsi (Prov.
6, 1). Infatti, impegnarsi per un amico equivale a prendere su
di sé l’anima di un altro a rischio della propria vita; per questo
poi si dà anche la mano a un estraneo, perché l’animo si lega a
una preoccupazione e a una sollecitudine che prima non aveva. Ed egli
è preso al laccio dalle parole della sua bocca e prigioniero dei
propri discorsi, perché mentre è costretto a dire cose buone a
coloro che gli sono stati affidati è necessario che prima egli
stesso custodisca ciò che dice, ed è quindi propriamente preso al
laccio dalle parole della sua bocca quando è costretto dalla
coerenza a non abbandonarsi a una vita diversa da quanto egli va
insegnando. E perciò presso il severo Giudice egli è costretto ad
adempiere, praticamente, tutto quanto risulta che egli ha imposto
agli altri a parole. Segue poi subito e opportunamente
l’esortazione: Dunque, fa’
quanto ti dico, figlio
mio, e
liberati poiché sei caduto nelle mani del tuo
prossimo, corri, affrettati, sveglia
il tuo amico, non
dare sonno ai tuoi occhi, non
sonnecchino le tue palpebre (Prov.
6, 3-4). Chi infatti è preposto agli altri come esempio di vita
è ammonito non solo a vegliare lui stesso ma anche a svegliare
l’amico. Giacché non basta, perché la sua vita sia buona, che
vegli, se non separa dal torpore del peccato anche colui a cui
presiede. Ed è detto bene: Non
dare sonno ai tuoi occhi, non
sonnecchino le tue palpebre. Dare
sonno agli occhi significa trascurare affatto la cura dei sudditi
cessando l’attenzione per loro. E le palpebre sonnecchiano quando i
nostri pensieri sanno che cosa bisogna rimproverare ai sudditi ma lo
dissimulano, resi indolenti dalla pigrizia. Infatti, dormire
profondamente è non conoscere e non correggere le azioni dei
sudditi, mentre non è dormire ma sonnecchiare, il conoscere ciò che
va rimproverato e tuttavia non correggerlo coi giusti rimproveri, per
una specie di pigra noia dello spirito. Ma, sonnecchiando, l’occhio
cade nel sonno profondo, e ciò avviene per lo più quando chi
governa non taglia il male che conosce, e quindi poi, a causa della
sua negligenza, può giungere addirittura al punto di non sapere più
riconoscere il peccato commesso dai sudditi. Pertanto, bisogna
ammonire coloro che governano ad avere gli occhi attentissimi, dentro
di sé e attorno, attraverso una accurata vigilanza e ad adoperarsi
per divenire animali celesti (cf. Ez. 1, 18): quegli animali celesti
che vengono descritti tutti pieni di occhi di dentro e di fuori (cf.
Ap. 6, 6). Ed è certo cosa degna che tutti quelli che governano
abbiano occhi rivolti dentro di sé e attorno e, mentre cercano di
piacere nel loro intimo al Giudice interiore, offrendo all’esterno
esempi di vita scorgano anche ciò che va corretto negli altri. I
sudditi poi vanno ammoniti a non giudicare temerariamente la vita dei
loro superiori, se capita di vederli fare qualche cosa degna di
rimprovero, perché non accada che, mentre giustamente rimproverano
cose malfatte, poi per un impulso orgoglioso, sprofondino in mali
peggiori. Bisogna ammonirli che, quando considerano le colpe dei
superiori, non diventino arroganti verso di loro, ma se si danno di
fatto in essi alcune gravi colpe, le discernano così però da non
rifiutarsi, in ogni caso, di portare nei loro confronti il giogo del
rispetto dovuto, costretti a ciò dal timore di Dio. Ciò si dimostra
meglio portando l’esempio di quanto fece David: una volta che Saul,
il suo persecutore, era entrato in una grotta per evacuare, e là
c’era David coi suoi uomini — il quale già da lungo tempo
portava il peso della sua persecuzione — questi, poiché i suoi lo
incitavano a colpire Saul, li persuase con la risposta che non si
doveva mettere le mani sull’unto del Signore. Tuttavia si alzò di
nascosto e gli tagliò il lembo del mantello (cf. 1 Sam. 24, 4 ss.).
Che cosa rappresenta Saul se non le cattive guide delle anime; e
David, se non i buoni sudditi? Pertanto, Saul che evacua designa i
superiori empi che estendono la malizia concepita nel cuore a
compiere opere maleodoranti, e mostrano nell’aperta esecuzione dei
fatti i pensieri colpevoli del loro intimo. E tuttavia David ebbe
timore di colpirlo perché le pie menti dei sudditi che si astengono
da ogni pestifera maldicenza non colpiscono la vita dei superiori,
con la spada della loro lingua, anche quando li rimproverano per la
loro imperfezione. E se pure talvolta, per la loro debolezza fanno
fatica ad astenersi dal parlare di certe mancanze dei superiori più
gravi e manifeste, e tuttavia lo fanno umilmente, è come se
tagliassero in silenzio l’orlo del mantello; perché questo mancare
verso la dignità del superiore, sia pure senza nuocere e di
nascosto, equivale a rovinare la veste del re costituito su di loro.
Ma essi poi rientrano in se stessi e si rimproverano aspramente
perfino di quel leggerissimo taglio operato con la parola. Perciò si
trova giustamente scritto in quel luogo: Dopo
ciò David percosse il suo cuore, per
aver tagliato l’orlo del mantello di Saul (1
Sam. 24, 6). Dunque, le azioni dei superiori non bisogna ferirle
con la spada della bocca, anche quando si giudica che sia giusto
rimproverarle. Se però qualche volta la lingua si lascia andare
anche per pochissimo contro di loro, bisogna che il cuore si stringa
per il dolore del pentimento finché rientri in se stesso e, avendo
peccato contro l’autorità che gli è preposta, tema molto il
giudizio di colui che gliel’ha preposta. Perché quando pecchiamo
contro i superiori contravveniamo a quella disposizione che ce li ha
preposti. Perciò anche Mosé, quando venne a sapere che il popolo si
lamentava contro di lui e contro Aronne, disse: Che
cosa siamo noi? La vostra mormorazione non è contro di noi, ma
contro il Signore (Es.
16, 8).
5
— Come bisogna ammonire i servi e i padroni
Diverso
è il modo di ammonire i servi e i padroni. I servi, bisogna
ammonirli a considerare sempre in se stessi l’umiltà della loro
condizione; i padroni, a non dimenticare la propria natura per la
quale sono creati uguali ai loro servi. I servi bisogna ammonirli a
non disprezzare i loro padroni per non offendere Dio insuperbendo e
contraddicendo alla sua disposizione; ma bisogna ammonire anche i
padroni che, a loro volta, insuperbiscono contro Dio riguardo al suo
dono se non riconoscono uguali a sé, per la comune natura, coloro
che, per la loro condizione, tengono sottomessi.
I
servi bisogna ammonirli a sapere di essere servi dei loro padroni; i
padroni bisogna ammonirli a riconoscere di essere conservi dei loro
servi. Agli uni infatti è detto: Servi, obbedite
ai vostri padroni secondo la carne (Col.
3, 22). E ancora: Coloro
che sono sotto il giogo della servita giudichino i loro padroni degni
di ogni onore (1
Tim. 6, 1); ma agli altri è detto: E
voi, padroni, fate
lo stesso con loro rinunciando a minacciarli, sapendo
che il padrone vostro e loro è nei cieli (Ef.
6, 2).
6
— Come bisogna ammonire sapienti e incolti
Diverso
è il modo di ammonire i sapienti di questo mondo e gli incolti. I
sapienti, bisogna ammonirli a perdere la scienza di ciò che sanno;
gli incolti invece, a desiderare di sapere ciò che non sanno. Negli
uni la prima cosa da distruggere è il fatto che essi si giudicano
sapienti; negli altri, bisogna ormai edificare tutto ciò che si
conosce della sapienza celeste, poiché in loro non c’è alcuna
superbia e con ciò è come se avessero preparato i loro cuori a
ricevere quell’edificio. Coi sapienti bisogna affaticarsi perché
divengano più sapientemente stolti: abbandonino la sapienza stolta
ed imparino la sapiente stoltezza di Dio (cf. 1 Cor. 1, 25); agli
incolti invece, bisogna predicare in modo che, dalla loro apparente
stoltezza si accostino più da vicino alla vera sapienza. Infatti, ai
primi è detto: Se
qualcuno di voi sembra sapiente in questo secolo, diventi
stolto per essere sapiente (1
Cor. 3, 18); e agli altri è detto: Non
molti sapienti secondo la carne (1
Cor. 1, 26). E ancora: Dio
ha scelto le cose stolte del mondo per confondere i sapienti (1
Cor. 1, 27). Per lo più ci vogliono ragionamenti per convertire
i primi; per gli altri, molto spesso valgon meglio gli esempi. A
quelli, pertanto, giova rimanere vinti nelle loro argomentazioni; per
questi invece, in genere è sufficiente che conoscano azioni altrui
degne di lode. Perciò il grande maestro, debitore
verso i sapienti e verso gli insipienti (Rom.
1, 14), insegnando agli Ebrei, tra i quali alcuni erano sapienti
e altri anche piuttosto rozzi, e parlando loro del compimento
dell’Antico Testamento, superò la loro sapienza con
l’argomento: Quanto
è antiquato e vecchio è presso alla morte (Ebr.
8, 13). Ma poi, rendendosi conto che alcuni si potevano
trascinare solamente con la forza degli esempi, aggiunse nella
medesima lettera: I
santi sperimentarono schemi e battiture e inoltre catene e
carcere, furono
lapidati, segati, sottoposti
a dure prove, uccisi
di spada (Ebr.
11, 36-37). E ancora: Ricordatevi
dei vostri superiori che vi hanno parlato la Parola di Dio
e, considerando
quale fu il termine della loro esistenza, imitatene
la fede (Ebr.
13, 7). E così vinceva gli uni con la forza del ragionamento; e
gli altri li persuadeva ad elevarsi a una vita superiore attraverso
una dolce imitazione.
7
— Come bisogna ammonire gli sfrontati e i timidi
Diverso
è il modo di ammonire gli sfrontati e i timidi. I primi, infatti,
nulla vale a trattenerli dal vizio della sfrontatezza se non un duro
rimprovero, mentre gli altri per lo più si dispongono al meglio con
una esortazione moderata. Quelli non si accorgono di fare il male se
non ricevono rimproveri da più parti; a convertire i timidi, per lo
più è sufficiente che il maestro gli richiami alla mente con
dolcezza le loro mancanze. Gli sfrontati, li corregge meglio chi li
affronta con un violento rimprovero, ma coi timidi si raggiunge un
miglior risultato se si sfiora appena ciò che in essi occorre
rimproverare. Perciò il Signore, rimproverando apertamente il popolo
sfrontato dei Giudei, dice: La tua fronte è divenuta come
quella di una donna prostituta: non hai voluto
arrossire (Ger. 3, 3). E di nuovo conforta colei che si
vergogna, dicendo: Ti dimenticherai della vergogna della tua
adolescenza, e non ricorderai l’obbrobrio della tua
vedovanza, perché sarà tuo Signore
colui che ti ha fatta (Is. 54, 4-5). E Paolo sgrida
apertamente anche i Galati che peccavano con sfrontatezza, dicendo: O
Galati insensati, chi vi ha affascinato? (Gal.
3, 1) E ancora: Siete così stolti che dopo avere
incominciato con lo spirito finite con la carne? (Gal. 3,
3). Ma le colpe dei timidi le rimprovera quasi con compassione,
dicendo: Ho gioito grandemente nel Signore che finalmente
sono rifioriti i vostri sentimenti verso di me, come già
li avevate ma eravate presi [da altro] (Fil. 4, 10). E così,
col rimprovero duro toglieva le colpe degli uni, e con parole più
dolci copriva la negligenza degli altri.
8
— Come bisogna ammonire i presuntuosi e i pusillanimi
Diverso
è il modo di ammonire i presuntuosi e i pusillanimi. Quelli infatti,
sono molto sicuri di sé e rimproverano sdegnosamente gli altri;
questi invece, troppo consci della propria debolezza, per lo più si
lasciano andare alla disperazione. I primi hanno una straordinaria
altissima stima di tutto ciò che compiono; gli altri giudicano
affatto spregevole ciò che fanno e perciò si scoraggiano e
disperano. Per questo, chi deve riprendere le azioni dei presuntuosi,
deve discuterle con grande sottigliezza per dimostrare loro che ciò
in cui essi piacciono a se stessi, dispiacciono a Dio. È allora
infatti che li correggiamo meglio, cioè quando dimostriamo loro che
quel che credono di aver fatto bene è fatto male, così che proprio
di dove si crede di aver raggiunto la gloria provenga un utile
turbamento. Spesso però, quando proprio non si rendono conto per
nulla di peccare di presunzione, si correggono più rapidamente se
restano confusi per il rimprovero rivolto a un’altra colpa più
manifesta scoperta in loro, così che da ciò di cui non sono in
grado di difendersi riconoscano che non sostengono rettamente ciò
che difendono. Perciò Paolo, rivolgendosi ai Corinzi che vedeva
presuntuosamente gonfi gli uni verso gli altri dire che uno era di
Paolo, l’altro di Apollo, l’altro di Cefa, l’altro di Cristo
(cf. 1 Cor. 1, 12), tirò fuori quel peccato di incesto che era stato
commesso presso di loro e restava impunito, dicendo: Si
sente dire che si dà una fornicazione tra di voi, e
una tale fornicazione quale non è ammissibile neppure fra i
gentili, e
cioè che uno abbia come sua la moglie di suo padre. E
voi vi siete gonfiati e non avete fatto piuttosto lutto, perché
fosse tolto di tra voi colui che ha commesso una tale azione (1
Cor. 5, 1-2). Come se dicesse apertamente: Perché nella vostra
presunzione dite di essere di questo e di quello, voi che mostrate di
non essere di nessuno per questa negligenza con cui vi siete sciolti
da ogni legame? Al contrario, riconduciamo al bene i pusillanimi in
modo più appropriato se ci informiamo indirettamente di qualche loro
buona azione e, lodandola, li confortiamo nello stesso momento in cui
li dobbiamo accusare rimproverandogliene altre; affinché la lode
ricevuta sostenga la loro timidezza mentre riceve il castigo dal
rimprovero della colpa. Spesso tuttavia otteniamo un risultato più
utile con loro se richiamiamo anche solo ciò che hanno fatto di
bene; e se hanno compiuto qualche cosa di irregolare non glielo
rimproveriamo come una colpa già commessa, ma ci limitiamo a
distoglierli da quella come se dovessero ancora commetterla, affinché
la benevolenza manifestata accresca in loro le azioni che approviamo,
mentre contro le azioni che dobbiamo rimproverare più che il
rimprovero abbia maggiore efficacia presso di loro una esortazione
riguardosa. Perciò il medesimo Paolo, vedendo che i Tessalonicesi
fermi nella predicazione ricevuta erano turbati da un senso di paura
come per una prossima fine del mondo, prima loda quanto scorge in
loro di forte, e solo dopo, con caute ammonizioni, rafforza la loro
debolezza. Dice infatti: Dobbiamo
ringraziare sempre Dio per voi, fratelli, come
è degno, perché
la vostra fede aumenta e abbonda in ciascuno di voi la carità
vicendevole; così
che noi stessi ci gloriamo per voi nelle chiese di Dio, per
la vostra pazienza e la vostra fede (2
Tess. 1, 3-4). E dopo avere premesso queste lodi lusinghiere
riguardo alla loro vita, poco dopo prosegue dicendo: Vi
preghiamo tuttavia, fratelli, per
la venuta del nostro Signore Gesti Cristo e il nostro riunirci in
Lui, che
non vi lasciate smuovere troppo presto dal vostro sentire né
spaventare da spirito o da discorso o da lettera come fosse stata
scritta da noi, come
se il giorno del Signore fosse imminente (2
Tess. 2, 1). Così, da vero maestro, fece in modo che prima si
sentissero lodati per ciò che riconoscevano di sé, e quindi si
sentissero esortati rispetto a ciò che dovevano seguire; affinché
la lode premessa rafforzasse il loro spirito per accogliere senza
turbamento la ammonizione che sarebbe seguita. E sebbene sapesse che
essi erano turbati dal timore della prossima fine, non li
rimproverava per questo, ma come se ignorasse addirittura la cosa,
quasi non si fosse ancora data, li preveniva affinché non si
turbassero. E questo perché, mentre per quel lieve cenno potevano
credere che il loro maestro avesse addirittura ignorato questo
aspetto in loro, temessero però sia di meritare il rimprovero sia di
essere in ciò conosciuti da lui.
9
— Come si devono ammonire gli impazienti e i pazienti
Diverso
è il modo di ammonire gli impazienti e i pazienti. Infatti, agli
impazienti bisogna dire che trascurando di frenare la loro natura
precipiteranno in molte azioni inique contro la loro stessa
intenzione, perché evidentemente il furore spinge l’animo dove non
desidererebbe essere trascinato e, senza che uno se ne renda conto,
provoca turbamenti, di cui poi egli si duole quando ne prende
coscienza. Bisogna dire pure agli impazienti che quando agiscono come
folli per impulso di un moto precipitoso, a stento si rendono conto
delle proprie azioni cattive solo dopo che le hanno compiute. Coloro
che non contrastano per nulla le proprie emozioni, turbano anche ciò
che forse avevano compiuto tranquillamente, e per un improvviso
impulso distruggono tutto ciò che forse avevano costruito con lunga
e provvida fatica. Per il vizio dell’impazienza si perde perfino la
virtù, poiché è scritto: La
carità è paziente (1
Cor. 13, 4). Pertanto, se non è paziente affatto non è carità.
Anche la stessa scienza che alimenta le altre virtù è dissipata dal
vizio dell’impazienza, infatti è scritto: La
scienza dell’uomo si apprende attraverso la pazienza (Prov.
19, 11); per cui tanto meno uno si mostra dotto quanto meno si
dimostra paziente. E neppure può compiere con verità il bene a
parole, se nella vita non sa sopportare in pace i difetti altrui.
Inoltre, per questo vizio dell’impazienza lo spirito resta ferito
dalla colpa dell’arroganza, perché quando uno non sopporta di
essere disprezzato in questo mondo, se ha qualche bene nascosto si
sforza di ostentarlo, così attraverso l’impazienza è condotto
all’arroganza e, per non poter sopportare il disprezzo, mettendo in
mostra se stesso si gloria con l’ostentazione. Perciò sta
scritto: È
meglio il paziente dell’arrogante (Qo.
7, 9); poiché evidentemente il paziente preferisce sopportare
qualsiasi male piuttosto di far conoscere con l’ostentazione i suoi
beni nascosti. L’arrogante, al contrario, preferisce vantarsi di
qualche bene, anche falsamente, pur di non dover sopportare neppure
il più piccolo male.
Pertanto,
poiché quando si abbandona la pazienza va distrutto anche il resto
di bene che si è compiuto, giustamente in Ezechiele si trova il
precetto che sull’altare di Dio si faccia una cavità perché si
conservino gli olocausti che vi stanno sopra (cf. Ez. 43, 13).
Infatti se nell’altare non ci fosse la cavità i resti di quel
sacrificio sarebbero dispersi dal vento. Ma che cosa dobbiamo
intendere per altare di Dio se non l’anima del giusto che pone su
di sé, davanti agli occhi di Lui, quanto di bene ha compiuto come
sacrificio? E che cos’è la cavità dell’altare se non la
pazienza dei buoni che umilia il loro spirito per sopportare le
avversità e lo mostra come adagiato nel fondo di una fossa? Si
faccia dunque una cavità nell’altare, affinché il vento non
disperda il sacrificio che vi sta sopra; cioè, lo spirito degli
eletti custodisca la pazienza per non perdere, a causa del vento
dell’impazienza, anche ciò che di bene ha compiuto. Ed è giusto
che quella medesima cavità, secondo quanto è descritto, sia di un
solo cubito; poiché è naturale che se non si abbandona la pazienza
si conserva la misura dell’unità. Per cui anche Paolo
dice: Portate a
vicenda i vostri pesi, e
così adempirete la legge di Cristo (Gal.
6, 2). Poiché la legge di Cristo è la carità dell’unità
che compiono solamente coloro i quali, anche quando portano grave
peso, non trascendono. Ascoltino gli impazienti ciò che sta
scritto: È
meglio un paziente che un uomo forte, e
chi domina il suo animo pia che un conquistatore di città (Prov.
16, 32). Vale meno infatti una vittoria contro delle città,
giacché ciò che in questo caso si sottomette è qualcosa di
esterno; ma è molto di più ciò che si vince con la pazienza,
poiché è l’anima che si lascia vincere da se stessa e si
sottomette se stessa quando la pazienza la spinge a frenarsi dentro
di sé. Ascoltino gli impazienti ciò che la Verità dice ai suoi
eletti: Nella
vostra pazienza possederete le vostre anime (Lc.
21, 19). Infatti siamo stati creati in modo così mirabile che
lo spirito possiede l’anima e l’anima possiede il corpo; ma
all’anima è rifiutato il suo diritto di possedere il corpo se essa
non è prima posseduta dallo spirito. Pertanto il Signore,
insegnandoci che nella pazienza possediamo noi stessi, ci ha
insegnato che la pazienza è custode della nostra condizione
naturale. Perciò possiamo conoscere quanto sia grande la colpa
dell’impazienza se per essa perdiamo perfino il possesso di ciò
che siamo. Ascoltino gli impazienti ciò che ancora dice Salomone: Lo
stolto sfoga tutto il suo animo, il
sapiente invèce attende e lo serba per l’avvenire (Prov.
29, 11). Per l’impulso dell’impazienza avviene che tutto
l’animo si sfoghi al di fuori, ed è naturale che l’agitazione lo
riversi all’esterno poiché nessuna sapiente disciplina lo
trattiene interiormente. Ma il sapiente attende e lo serba per
l’avvenire. Infatti, se viene offeso non desidera vendicarsi
subito, poiché anche dovendo sopportare preferisce trattenersi,
tuttavia non ignora che tutto riceverà la giusta vendetta
nell’ultimo giudizio. Al contrario, bisogna ammonire i pazienti a
non dolersi interiormente di ciò che sopportano al di fuori, per non
corrompere nell’intimo con la peste della malizia l’intensità di
quel sacrificio ricco di virtù che immolano interiormente; e la
colpa di questo dolore, non riconosciuta come tale dagli uomini, ma
peccato di fronte all’esame divino, non divenga tanto peggiore
proprio in quanto davanti agli uomini pretende di passare per
virtù. Dunque bisogna dire ai pazienti che si studino di amare
coloro che sono costretti a sopportare, perché se la pazienza non è
accompagnata dalla carità, la virtù che ostenta non si muti nella
peggiore colpa dell’odio. Perciò Paolo, dopo avere detto: La
carità è paziente, aggiunge
subito: La
carità è benigna (1
Cor. 13, 4), volendo mostrare chiaramente che essa non cessa di
amare con benignità coloro che sopporta con pazienza.
Perciò
il medesimo egregio maestro, esortando i discepoli alla pazienza con
le parole: Ogni
asprezza e ira e sdegno e clamore e ingiuria sia tolta da voi (Ef.
4, 31), come dopo averli già tutti ben disposti esteriormente,
si rivolge al loro intimo e aggiunge: con
ogni malizia; poiché,
evidentemente, invano si toglie all’esterno lo sdegno, il clamore e
l’ingiuria se nell’intimo domina la malizia madre dei vizi; e
invano si incide al di fuori dei rami il male se esso si conserva
nell’intimo della radice, pronto a riaffiorare moltiplicato. Perciò
la Verità stessa dice: Amate
i vostri nemici, fate
del bene a coloro che vi odiano e pregate per coloro che vi
perseguitano e vi calunniano (Lc.
6, 27-28). Dunque è virtù davanti agli uomini sopportare i
nemici, ma davanti a Dio la virtù è amarli, poiché Dio accoglie
soltanto quel sacrificio che la fiamma della carità accende davanti
ai suoi occhi sull’altare delle buone opere. Perciò dice ancora ad
alcuni pazienti ma non caritatevoli: Perché
vedi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello e non vedi la trave
nel tuo occhio? (Mt.
7, 3), significando che il turbamento dell’impazienza è la
pagliuzza, ma la malizia in cuore è la trave nell’occhio. Infatti
il soffio della tentazione agita il filo di paglia, ma la malizia
consumata porta la trave quasi senza scosse. E giustamente in quel
passo si prosegue: Ipocrita, getta
via prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai per gettare la
pagliuzza dall’occhio del tuo fratello (Mt.
7, 5), come se dicesse all’anima malvagia che si rode
interiormente e all’esterno invece si mostra santa per la pazienza:
prima fa’ uscire da te la tua pesante malizia e poi rimprovera agli
altri la loro leggera impazienza, affinché il tollerare i peccati
altrui non sia per te peggio, se non ti sforzi a vincere lo spirito
di simulazione. Suole anche accadere spesso alle persone pazienti
che, proprio nel momento in cui o sopportano avversità o ricevono
ingiurie, non si sentano spinte da nessun risentimento e mostrino
così una pazienza tale che permette loro di conservare anche
l’innocenza del cuore. Ma quando, passato un po’ di tempo,
richiamano alla memoria ciò che hanno dovuto sopportare, accendono
in sé il fuoco del risentimento e vanno a cercare gli argomenti per
vendicarsi; e con questa intima ritrattazione mutano in malizia la
mansuetudine che avevano conservato nella pazienza. Allora il maestro
li soccorre ben presto se gli manifesta la causa di questo mutamento.
Infatti l’astuto avversario muove guerra contro due tipi di
persone: uno lo accende spingendolo ad offendere per primo, l’altro
lo provoca a restituire l’offesa ricevuta; mentre riesce subito
vincitore sul primo che si è lasciato persuadere all’ingiuria,
resta poi vinto da colui che porta tranquillamente l’offesa
ricevuta. Pertanto, vincitore del primo che è riuscito a soggiogare
agitando il suo animo, si erge con tutta la sua potenza contro
l’altro e si irrita che questi gli resista con forza e vinca; ma
poiché non poté turbarlo nell’attimo stesso in cui riceveva
l’ingiuria, rinunciando per il momento alla lotta aperta e
attaccando il suo pensiero con una suggestione segreta, cerca il
tempo adatto per trarlo in inganno. Infatti ha perduto nel pubblico
combattimento e arde di esercitare nascostamente le sue insidie.
Così, nel tempo del riposo, ritorna all’animo del vincitore e gli
richiama alla memoria le perdite materiali subite o le ferite delle
ingiurie, e maggiorando grandemente quanto di male gli è stato
inflitto glielo mostra intollerabile e gli turba la mente con tanta
tristezza, che spesso l’uomo paziente, divenuto prigioniero dopo la
vittoria, arrossisce di avere sopportato tranquillamente quelle
offese, si duole di non averle ricambiate e cerca, se si offra
l’occasione, di renderne di peggiori. A chi dunque sono simili
costoro se non a quelli che per la loro forza riescono vincitori in
campo aperto, ma per la loro negligenza in seguito si lasciano fare
prigionieri dentro le mura della città? A chi sono simili se non a
coloro che una improvvisa e grave malattia non li strappa alla vita,
ma li uccide una leggera febbre recidiva? Così bisogna ammonire le
persone pazienti a fortificare il loro cuore dopo la vittoria perché
il nemico battuto in aperto combattimento non mediti di insidiare le
mura del pensiero; e temano maggiormente la malattia che riprende a
serpeggiare più insidiosamente, perché il nemico astuto non goda
poi dell’inganno con una esultanza tanto maggiore in quanto, ora
calpesta i colli dei suoi vincitori che prima si ergevano contro di
lui.
10 —
Come si devono ammonire i benevoli e gli invidiosi
Diverso
è il modo di ammonire i benevoli e gli invidiosi. Bisogna ammonire i
benevoli a gioire dei beni altrui così da desiderare di farli
propri. Lodino con vero amore le azioni del prossimo così da
moltiplicarle anche, imitandole; perché se nella sosta della vita
presente assistono alla gara altrui come devoti sostenitori ma
insieme come spettatori pigri, non restino, dopo la gara, senza
premio quanto pin ora, durante la gara, non hanno faticato; e,
allora, non debbano guardare afflitti alle palme di coloro davanti
alle cui fatiche, ora, persistono in ozio. Poiché pecchiamo
gravemente se non amiamo ciò che gli altri fanno di bene, ma non
traiamo motivo di ricompensa se, per quanto sta in noi, non imitiamo
ciò che amiamo. Perciò alle persone benevole bisogna dire che se
non si affrettano per nulla ad imitare il bene che approvano con la
loro lode, a loro piace la santità delle virtù come agli stolti
spettatori piace la vanità delle arti ludiche. Costoro infatti
esaltano coi loro applausi le imprese di aurighi e di attori e
tuttavia non desiderano essere tali quali vedono essere coloro che
lodano. Li ammirano per ciò che hanno compiuto di piacevole,
tuttavia evitano di piacere allo stesso modo.
Bisogna
dire ai benevoli che quando guardano alle azioni del prossimo
rientrino nel proprio cuore e non si vantino di azioni altrui; non
lodino il bene mentre rifiutano di compierlo, pöiché tanto più
gravemente devono essere colpiti dall’estremo castigo coloro a cui
è piaciuto ciò che non hanno voluto imitare. Bisogna ammonire gli
invidiosi a valutare attentamente la cecità di coloro che vengono
meno per il successo degli altri e si struggono per la gioia
altrui. Quanto grande è l’infelicità di coloro che diventano
peggiori perché vedono migliorare gli altri e, mentre guardano
aumentare la fortuna altrui, stretti dall’afflizione in se stessi,
muoiono per la peste che hanno nel loro cuore. Che cosa ci può
essere di più infelice di costoro che la pena per la constatazione
della felicità altrui rende più cattivi? Invero, se amassero i beni
degli altri che non possono avere per sé, li farebbero propri.
Poiché essi sono tutti stabiliti nella fede, come molte membra in un
solo corpo, le quali sono certo diverse per la diversità delle
funzioni, ma per il fatto stesso della loro corrispondenza reciproca
diventano una cosa sola (cf. 1 Cor. 12, 12-30). Per cui avviene che
il piede vede attraverso l’occhio e gli occhi camminano per mezzo
dei piedi, l’ascolto delle orecchie serve alla bocca e la lingua
che sta in bocca concorre con gli orecchi alla propria funzione; il
ventre sostiene l’attività delle mani e le mani lavorano per il
ventre. Pertanto, è dalla stessa condizione del corpo, che riceviamo
ciò che dobbiamo conservare nel nostro agire. E così è troppo
vergognoso non imitare ciò che siamo. È certamente nostro ciò che
amiamo negli altri anche se non possiamo imitarlo; e ciò che è
amato in noi diviene di chi l’ama. Perciò gli invidiosi misurino
quanto è grande la potenza della carità che rende nostre senza
fatica le opere della fatica altrui. E così bisogna dire agli
invidiosi che quando non si custodiscono per nulla dall’invidia,
sprofondano nella malizia antica dello scaltro nemico, perché di lui
è scritto: Per
l’invidia del diavolo la morte entrò nel mondo (Sap.
2, 24). Infatti, poiché egli aveva perduto il cielo, lo invidiò
all’uomo appena creato, ed essendosi perduto lui volle accrescere
la sua perdizione perdendo ancora altri. Bisogna ammonire gli
invidiosi a rendersi conto di quanto siano grandi le cadute per le
quali cresce la rovina sotto cui essi giacciono, poiché sé non
gettano via l’invidia dal cuore precipitano in una aperta iniquità
di opere. Se infatti Caino non avesse invidiato il sacrificio gradito
[a Dio] del fratello, non sarebbe giunto a spegnere la sua vita.
Perciò è scritto: E
il Signore riguardò ad Abele e ai suoi doni; ma
non riguardò a Caino e ai suoi doni. E
Caino si adirò fortemente e gli cadde il volto (Gen.
4, 4). E così, l’invidia per il sacrificio fu il germe del
fratricidio, ed egli tagliò via chi non sopportava fosse migliore di
lui, affinché non fosse più in alcun modo. Bisogna dire agli
invidiosi che mentre si consumano interiormente per questa peste essi
uccidono anche ogni altra cosa buona sembrino avere dentro di sé.
Perciò è scritto: La
sanità del cuore è vita della carne, l’invidia
è putredine delle ossa (Prov.
14, 30). Che cosa si intende per carne se
non le azioni molli e deboli, e per ossa se
non quelle forti? Eppure accade spesso che alcuni i quali appaiono
deboli in alcune loro azioni, hanno l’innocenza del cuore e altri
invece si comportino in maniera forte agli occhi degli uomini e
tuttavia nei confronti del bene altrui si consumino nell’intimo,
per la peste dell’invidia. Pertanto è ben detto: La
sanità del cuore è vita della carne, perché
se si custodisce l’innocenza del cuore, anche se l’agire esterno
talvolta è debole, prima o poi si irrobustisce. E si aggiunge
correttamente: L’invidia
è putredine delle ossa, perché
per il vizio dell’invidia, agli occhi di Dio vanno perdute anche
quelle azioni che agli occhi degli uomini sembrano da forti; infatti
l’imputridire delle ossa per l’invidia significa il deperire di
certe cose anche forti.
11 —
Come si devono ammonire i semplici e gli insinceri
Diverso
è il modo di ammonire i semplici e gli insinceri.
I
semplici bisogna lodarli perché si studino di non dire mai il falso,
ma bisogna ammonirli che sappiano ogni tanto tacere il vero. Come il
falso nuoce sempre a chi lo dice, così talvolta ad alcuni nuoce
ascoltare la verità. Perciò il Signore, temperando il suo discorso
col silenzio, davanti ai discepoli, dice: Ho molte cose da
dirvi ma ora non potete portarle (Gv. 16, 12). Pertanto
bisogna ammonire i semplici a dire la verità badando sempre
all’utilità allo stesso modo che sempre utilmente evitano
l’inganno. Bisogna ammonirli ad aggiungere al bene della semplicità
quello della prudenza, affinché abbiano quella sicurezza che viene
dalla semplicità senza perdere quell’attenzione propria della
prudenza. Perciò infatti dice il dottore delle genti: Voglio
che voi siate sapienti nel bene ma semplici nel male (Rom.
16, 19). Perciò la Verità stessa ammonisce i suoi eletti
dicendo: Siate prudenti come serpenti e semplici come
colombe (Mt. 10, 16). Perché evidentemente nel cuore
degli eletti l’astuzia del serpente deve rendere acuta la
semplicità della colomba, e insieme la semplicità della colomba
deve temperare l’astuzia del serpente, affinché essi non si
lascino sedurre ad eccedere nell’esercizio della prudenza né, per
la semplicità, divengano torpidi nell’uso dell’intelligenza.
Al
contrario, bisogna ammonire gli insinceri a riconoscere quanto sia
grave colpa la fatica di quella doppiezza, che essi sostengono.
Infatti, per il timore di essere scoperti cercano sempre
giustificazioni cattive e sono sempre agitati da sospetti che li
rendono paurosi. Ma niente è più sicuro della purezza, a propria
difesa; niente più facile a dirsi della verità. Infatti il cuore
costretto a proteggere la propria falsità dura una pesante fatica, e
perciò è scritto: La
fatica delle loro labbra li ricoprirà (Sal.
139, 10). La fatica, che ora riempie e soddisfa,
allora ricoprirà perché
opprimerà con atroce retribuzione l’animo di colui che ora tira
fuori d’impaccio a prezzo di una leggera inquietudine. Perciò si
dice in Geremia: Hanno
insegnato alla loro lingua a dire la menzogna, si
sono affaticati per commettere l’iniquità (Ger.
9, 5), come se dicesse apertamente: Coloro che potevano essere amici
della verità senza fatica, si affaticano per peccare e mentre
rifiutano di vivere semplicemente, si adoperano con tutte le loro
forze per morire. Infatti, non di rado, se sono colti in fallo,
mentre rifuggono dal farsi riconoscere quali sono, si nascondono
sotto il velo della falsità e si affaccendano per giustificare ciò
in cui stanno peccando e che è già apertamente visibile; così che
spesso colui che ha cura di correggere le loro colpe, ingannato dalle
nebbie di questa aspersione di falsità, ha quasi l’impressione di
aver perduto di vista ciò che ormai teneva per certo a loro
riguardo. Perciò all’anima che pecca e si giustifica si dice, per
mezzo del profeta che rettamente la rappresenta nella Giudea: Là
ebbe la sua tana il riccio (Is.
34, 15). Col nome di riccio si indica la doppiezza di una mente
impura che si difende con astuzia, e ciò chiaramente perché il
riccio, nel momento in cui viene preso, mostra tutto intero il corpo
e si vedono capo e piedi, ma appena è stato preso si raccoglie tutto
in una palla, tira dentro i piedi, nasconde il capo e di colpo
scompare tutto nella mano di chi lo tiene, mentre appena prima si
mostrava tutto intero. Così certamente sono le anime insincere
quando vengono sorprese nelle loro prevaricazioni. Infatti si vede il
capo del riccio perché si vede quando il peccatore incomincia ad
accostarsi alla colpa; si vedono i piedi del riccio perché si
conoscono le tracce del peccato commesso. E tuttavia, con l’addurre
subito le sue giustificazioni, l’anima insincera tira dentro i
piedi, cioè nasconde tutte le tracce della sua iniquità; sottrae il
capo, perché con le sue mirabili difese dimostra di non avere
neppure dato inizio a qualcosa di male, e resta come una palla in
mano di chi lo tiene. Il quale improvvisamente non si ritrova più
tutto quanto aveva già compreso di lui poiché ha di fronte un
peccatore avvolto e chiuso nel segreto della sua coscienza; e lui
stesso, che lo aveva veduto tutto intero nel coglierlo sul fatto,
tratto in inganno dai raggiri di una maliziosa difesa, ancora tutto
intero lo ignora. Il riccio dunque ha una tana nei reprobi, esso che
raccogliendosi in se stesso nasconde le doppiezze di un animo
malizioso nelle tenebre della giustificazione. Ascoltino gli
insinceri ciò che è scritto: Chi
cammina nella semplicità, cammina
con fiducia (Prov.
10.9); poiché la semplicità dell’azione è fiducia di una
grande sicurezza. Ascoltino ciò che è detto dalla bocca del
sapiente: Lo
Spirito Santo fugge una dottrina di falsità (Sap.
1, 5). Ascoltino ciò che ancora è offerto dalla testimonianza della
Scrittura: La
sua conversazione è coi semplici (Prov.
3, 32). Infatti il conversare di Dio è il rivelare i suoi
misteri ai cuori degli uomini attraverso l’illuminazione della sua
presenza. Pertanto si dice che conversa coi semplici perché col
raggio della sua visita illumina sui misteri celesti i loro cuori che
non sono oscurati da alcun’ombra di doppiezza. Il peccato delle
persone doppie, poi, è un peccato speciale, perché esse ingannano
gli altri con l’azione doppia e perversa e insieme si gloriano come
fossero più astuti di loro; e poiché non considerano la severità
della retribuzione che riceveranno, esultano miseramente del proprio
danno. Ma ascoltino come sopra di loro il profeta Sofonia stenda la
forza della punizione divina, dicendo: Ecco, viene il giorno del
Signore, grande e terribile, giorno d’ira quel giorno, giorno di
tenebre e di caligine, giorno di nebbia e di turbine, giorno di suono
di tromba su tutte le città fortificate e su tutti gli angoli
elevati (cf. Sof. 1, 15-16; Gioe. 2, 2). Infatti, che cosa si intende
per città fortificate se non gli animi sospettosi e sempre
circondati di false giustificazioni, i quali ogni volta che viene
rimproverata la loro colpa respingono da sé i dardi della verità? E
che cosa è indicato con angoli elevati (poiché negli angoli c’è
sempre una doppia parete) se non i cuori insinceri? I quali mentre
fuggono la semplicità della verità, per la stessa perversità della
loro doppiezza, in qualche modo si ripiegano e, quel che è peggio,
per la loro stessa colpa di insincerità si esaltano nei loro
pensieri come avessero raggiunto l’apice della astuzia. Dunque il
giorno del Signore, pieno di vendetta e di castigo, verrà sulle
città fortificate e sugli angoli elevati, perché l’ira
dell’ultimo giudizio distruggerà i cuori umani chiusi dalle difese
contro la verità, e scioglierà le pieghe della loro doppiezza.
Allora infatti cadranno le città fortificate perché saranno
condannati gli animi che non si sono lasciati penetrare da Dio.
Allora crolleranno gli angoli elevati perché i cuori che si
edificano, attraverso l’astuzia della falsità, saranno atterrati
dalla sentenza di giustizia.
12
— Come si devono ammonire i sani e i malati
Diverso
è il modo di ammonire i sani e i malati. Bisogna ammonire i sani a
esercitare la salute del corpo a vantaggio della salute dello spirito
perché, se piegano ad un uso malizioso la grazia della buona salute
che hanno ricevuto, proprio per questo dono non diventino peggiori e
meritino poi supplizi tanto più gravi quanto più ora essi non
temono di usare male dei più larghi beni di Dio. Bisogna ammonire i
sani che non disprezzino l’occasione di una salute da meritare per
l’eternità, poiché è scritto: Ecco, ora
è il tempo gradito, ecco
ora il tempo della salvezza (2
Cor. 6, 2). Bisogna ammonirli che, se non vogliono piacere a Dio
quando possono, può accadere che non lo possano quando lo vorranno
troppo tardi. Da ciò infatti viene che poi la Sapienza abbandona
coloro che prima ha chiamato a lungo nel loro rifiuto, dicendo: Vi
ho chiamato e avete detto di no; ho
teso la mia mano e nessuno ha guardato; avete
disprezzato ogni mio consiglio e avete trascurato i miei
rimproveri; anch’io
riderò nella vostra fine e vi schernirò quando vi accadrà ciò che
temevate (Prov.
1, 24 ss.). E ancora: Allora
mi invocheranno e non ascolterò; si
leveranno la mattina e non mi troveranno (Prov.
1, 28). Pertanto, quando si disprezzala salute del corpo ricevuta per
operare il bene, ci si rende conto di quale grande dono fosse, quando
la si è perduta; e alla fine si cerca senza frutto ciò che,
concesso al momento adatto, non è stato utilmente posseduto. Perciò
è ben detto ancora, per mezzo di Salomone: Non
consegnare ad altri il tuo onore e i tuoi anni al crudele, perché
non si riempiano gli stranieri con la tua forza e il frutto delle tue
fatiche finisca in casa altrui, e
negli ultimi giorni tu pianga, quando
avrai consumato le tue carni e il tuo corpo (Prov.
5, 9 ss.). Chi sono infatti gli stranieri, per noi, se non gli
spiriti maligni separati dalla sorte della patria celeste? E qual
è il nostro onore se non l’essere creati a immagine e
somiglianza del nostro Creatore, nonostante che siamo fatti di corpo
e di fango? O chi altri è il crudele se non quell’angelo apostata,
il quale con la sua superbia colpi se stesso con la pena di morte e,
ormai perduto, non volle risparmiare la morte al genere umano? E
così, consegna il suo onore agli stranieri colui che, fatto a
immagine e somiglianza di Dio, amministra il tempo della sua vita coi
piaceri che sono propri degli spiriti maligni. Consegna i suoi anni
al crudele, chi dissipa il tempo di vita ricevuto, secondo la volontà
dell’avversario signore del male. E qui bene si aggiunge: Perché
non si riempiano gli stranieri della tua forza, e
il frutto delle tue fatiche finisca in casa altrui. Infatti
chiunque si affatica, con la forza del corpo che ha ricevuto e la
sapienza della mente che gli è stata assegnata, non a esercitare la
virtù, ma a soddisfare i vizi, non accresce la propria casa con le
sue forze, ma certamente — praticando sia la lussuria sia la
superbia così da accrescere, con l’aggiunta di se stesso, il
numero dei perduti — moltiplica le dimore degli stranieri, cioè le
azioni degli spiriti immondi. E poi opportunamente si aggiunge: E
tu pianga, negli
ultimi giorni, quando
avrai consumato le tue carni e il tuo corpo. Spesso,
infatti, la salute del corpo che si è ricevuta viene dissipata
coi vizi; ma quando improvvisamente è sottratta, quando la carne
viene afflitta da tormenti, quando l’anima già è incalzata ad
uscire, si ricerca, quasi per vivere bene, quella salute perduta che
si è goduta a lungo, male. E allora si lamentano gli uomini di non
aver voluto servire Dio, quando ormai non possono più servire, per
rimediare ai danni della propria negligenza. Per cui altrove è
detto: Quando
li uccideva, allora
lo cercavano (Sal.
77, 34). Al contrario, bisogna ammonire i malati a sentirsi
tanto più figli di Dio quanto più li castigano i colpi della
correzione. Infatti, se Egli non avesse disposto di dare l’eredità
a coloro che corregge, non si curerebbe di istruirli attraverso le
sofferenze. Perciò il Signore dice a Giovanni per mezzo
dell’angelo: Io
rimprovero e castigo quelli che amo (Ap.
3, 19). Perciò ancora è scritto: Figlio
mio, non
trascurare la correzione del Signore, non
stancarti di essere rimproverato da lui. Poiché
Dio castiga chi ama e colpisce ogni figlio che accoglie (Ebr.
12, 5-6). Perciò il salmista dice: Molte
sono le tribolazioni dei giusti, ma
da tutte li ha liberati il Signore (Sal.
33, 20). Perciò pure il santo Giobbe dice, gridando nel dolore: Se
sarò giusto non leverò la testa, sazio
di tribolazione e di miseria (Giob.
10, 15). Bisogna dire ai malati che, se credono che sia loro la
patria celeste, è necessario che patiscano fatiche in questa come in
terra straniera. È per questo infatti che, per essere poste senza
rumore di martelli nella costruzione del tempio del Signore, le
pietre vennero squadrate di fuori; per significare cioè che ora noi
siamo percossi dalle sferze di fuori, per essere poi posti dentro,
nel tempio di Dio, senza i colpi della correzione, affinché tutto
ciò che in noi è superfluo ora, lo tagli via la battitura, e
allora, nell’edificio, ci tenga uniti la sola concordia della
carità.
Bisogna
ammonire i malati a considerare la durezza dei colpi con cui vengono
castigati i figli carnali, e solamente in vista di eredità terrene.
E perché allora ci è pesante la pena della correzione divina, per
la quale si riceve una eredità che non andrà mai perduta e si
evitano supplizi che dureranno sempre? Perciò infatti dice
Paolo: Del
resto, noi
abbiamo avuto come educatori i nostri padri secondo la carne, e
rispettavamo; non
obbediremo molto di pia al padre degli spiriti e vivremo? Quelli
invero ci educavano secondo la loro volontà e per un tempo breve, ma
questo ci educa per ciò che è utile a ricevere la sua
santificazione (Ebr.
12, 9-10). Bisogna ammonire i malati a considerare quanta salute
del cuore sia la sofferenza del corpo, la quale richiama la mente
alla conoscenza di sé e restituisce il ricordo della propria
debolezza, che spesso la salute rigetta; e così lo spirito, portato
fuori di sé a gonfiarsi di orgoglio, si ricorda a quale condizione è
soggetto proprio per quella carne colpita che deve sostenere. E ciò
è rettamente rappresentato da Balaam (se effettivamente avesse
voluto seguire obbediente la voce di Dio) proprio in quell’essere
ritardato nel suo cammino. Infatti Balaam vuole giungere alla mèta
che si è prefisso ma l’animale che egli guida ostacola il suo
desiderio (cf. Num. 22, 23 ss.). In effetti, l’asina trattenuta
dalla proibizione dell’angelo vede ciò che lo spirito dell’uomo
non riesce a vedere, poiché spesso la carne resa tarda dalla
sofferenza, con la percossa che patisce indica Dio allo spirito,
mentre lo stesso spirito che governa la carne non lo vedeva; e così
la carne [sofferente] trattiene l’ansietà dello spirito di colui
che brama di progredire in questo modo, come di chi sta percorrendo
un cammino, finché gli illumina l’invisibile che gli si oppone.
Per ciò anche, per mezzo di Pietro, è ben detto: Ricevette
la correzione della sua follia: un
muto giumento parlando con voce umana impedì la stoltezza del
profeta (2 Pt.
2, 15). E avviene che un uomo folle sia corretto da un giumento
muto, quando una mente esaltata, si ricorda per l’afflizione della
carne di quel bene dell’umiltà che avrebbe dovuto custodire. Ma
Balaam non ottenne il dono di questa correzione proprio perché,
andando per maledire, mutò le parole ma non la mente. Bisogna
ammonire i malati a considerare quale grande dono sia la sofferenza
del corpo, che scioglie i peccati commessi e impedisce quelli che si
sarebbero potuti compiere e, prodotta da piaghe esterne, infligge
ferite di penitenza all’animo colpito. Perciò è scritto: Il
livido della ferita porta via il male, e
così le piaghe nei recessi del ventre (Prov.
20, 30). Infatti il livido della ferita porta via il male perché
il dolore delle percosse scioglie i pensieri e le azioni inique. Con
la parola ventre si
suole intendere la mente perché, come il ventre consuma i cibi, la
mente meditando scioglie le preoccupazioni. E che la mente sia detta
ventre, lo insegna il proverbio: Lo
spirito dell’uomo è lampada del Signore, che
scruta tutti i recessi del ventre (Prov.
20, 27); come se dicesse: l’illuminazione del soffio divino, quando
viene nella mente dell’uomo, illuminandola, la mostra a se stessa,
essa che prima della venuta dello Spirito Santo poteva portare
pensieri cattivi e non sapeva pensare. Pertanto, il livido della
ferita porta via il male e così pure le piaghe nei recessi del
ventre, perché quando siamo percossi all’esterno, veniamo
richiamati, silenziosi e afflitti, al ricordo dei nostri peccati, e
riportiamo davanti ai nostri occhi tutto quanto abbiamo compiuto di
male; e ciò che patiamo di fuori ci procura maggiormente dolore
nell’intimo per ciò che abbiamo fatto. Quindi avviene che più
abbondantemente che le ferite aperte del corpo, ci lavi la piaga
nascosta del ventre, perché la ferita nascosta del dolore sana la
malizia del cattivo operare. Bisogna ammonire gli ammalati a
conservare la virtù della pazienza, a considerare incessantemente
quanto grandi mali il nostro Redentore sopportò da coloro che aveva
creato. Egli sostenne i tanto volgari oltraggi della derisione e
degli schemi, lui che rapisce ogni giorno le anime dei prigionieri
dalla mano dell’antico nemico, ricevette gli schiaffi degli
insultatori; lui che ci lava con l’acqua della salvezza non
ritrasse la faccia dagli sputi dei perfidi; lui che con la sua
intercessione ci libera dagli eterni supplizi, tollerò in silenzio
le battiture; lui che ci assegna eterni onori tra i cori degli
angeli, sopportò i pugni; lui che ci salva dalle punture dei
peccati, non rifiutò di sottoporre il capo alle spine; lui che ci
inebria in eterno di dolcezza, ricevette l’amarezza del fiele nella
sua sete; lui — che pure essendo uguale al Padre per la divinità,
lo adorò per noi — adorato per irrisione, tacque; lui che prepara
la vita ai morti, essendo lui stesso la vita, giunse fino a morire.
Perché allora si giudica crudele che l’uomo sopporti castighi di
Dio in cambio dei suoi mali, quando Dio ha sopportato mali tanto
grandi dagli uomini in cambio dei suoi beni? O chi può esserci che,
sano di mente, sia ingrato per essere stato colpito, se colui che
visse in questo mondo, senza peccato, non se ne andò da questo mondo
senza castigo?
13
— Come si devono ammonire coloro che temono i castighi e
coloro che li disprezzano
Diverso
è il modo di ammonire coloro che temono i castighi, e perciò
conducono una vita innocente, e coloro tanto induriti nell’iniquità
che neppure i castighi li correggono. A coloro che temono i castighi
bisogna dire che né desiderino come gran cosa i beni temporali dei
quali vedono godere anche i cattivi; né fuggano come intollerabili i
mali presenti, poiché non ignorano che in questo mondo spesso essi
colpiscono anche i buoni. Bisogna ammonirli, se desiderano veramente
essere privi di mali, ad avere orrore degli eterni supplizi; non
restino però in questo timore dei supplizi, ma nutrendosi di carità
crescano fino alla grazia dell’amore, poiché sta scritto: La
carità perfetta caccia il timore (1
Gv. 4, 18). Ed è ancora scritto: Non
avete ricevuto spirito di servitù ancora per il timore, ma
spirito di adozione a figli nel quale gridiamo: Abbà, Padre (Rom.
8, 15). Perciò il medesimo maestro dice ancora: Dove
è lo Spirito del Signore, là
c’è la libertà (2
Cor. 3, 17). Dunque, se è il terrore della pena che trattiene dal
commettere il male, non è certo la libertà di spirito a possedere
l’animo di colui che è atterrito. Infatti, se non temesse la pena
non c’è dubbio che commetterebbe la colpa. E così il cuore,
legato dalla schiavitù della paura, ignora la grazia della libertà,
poiché il bene si deve amare per se stesso e non sono le pene che
devono spingere a compierlo. Infatti, chi fa il bene perché teme il
male dei castighi, vorrebbe solo che non esistesse ciò che teme per
potere osare di compiere ciò che è lecito. Da cui risulta più
chiaramente che si perde l’innocenza davanti a Dio poiché si pecca
di desiderio davanti ai suoi occhi. Al contrario, coloro che neppure
i castighi trattengono dall’iniquità, vanno colpiti con rimprovero
tanto più aspro quanto maggiore è l’insensibilità del loro
indurimento. Spesso infatti occorre respingerli, pur senza disprezzo,
e lasciare che la disperazione incuta il terrore e quindi subito
l’ammonizione li riporti alla speranza. Così, bisogna pronunciare
severamente contro di loro le sentenze divine, perché siano
richiamati alla coscienza di sé dalla considerazione del supplizio
eterno. Ascoltino che si è compiuto contro di loro ciò che sta
scritto: Se
pestassi lo stolto nel mortaio come grani d’orzo sotto i colpi del
pestello, non
verrebbe tolta da lui la sua stoltezza (Prov.
27, 22). Contro costoro il profeta si volge con lamenti al
Signore, dicendo: Li
hai stritolati ed hanno rifiutato di accogliere la correzione (Ger.
5, 3). Ed è ciò che dice il Signore: Ho
ucciso e distrutto questo popolo e tuttavia non si sono ritratti
dalle loro vie (Ger.
15, 7). E
poi di nuovo dice: Il
popolo non è ritornato a colui che lo percuote (Is.
9, 13). Quindi, con la voce dei castigatori, il profeta si lamenta
dicendo: Abbiamo
curato Babilonia ma non è guarita (Ger.
51, 9). Si intende che Babilonia viene curata e tuttavia non
guarisce, quando il cuore turbato dal cattivo operare ode le parole
della correzione, ne riceve i castighi e tuttavia trascura di
ritornare al retto cammino della salvezza. Perciò il Signore
rimprovera il popolo di Israele prigioniero e tuttavia non convertito
dalla sua iniquità, dicendo: La
casa di Israele si è mutata per me in scoria: tutti
costoro sono rame stagno ferro e piombo dentro la fornace (Ez.
22, 18). Come se dicesse apertamente: Volli purificarli col
fuoco della tribolazione e cercai di farli diventare oro e argento,
ma mi sono riusciti rame stagno ferro e piombo, perché anche nella
tribolazione si sono buttati nei vizi e non nella virtù. Rame,
perché quando lo si percuote dà suono più ampio degli altri
metalli; pertanto colui che sotto i colpi che riceve rompe nel suono
della mormorazione risulta rame dentro la fornace. Lo stagno, invece,
trattato con arte, prende l’aspetto dell’argento e pertanto, chi
nella tribolazione non si astiene dal vizio della simulazione diventa
stagno nella fornace. Chi insidia alla vita del prossimo si serve del
ferro, e così è ferro nella fornace chi, pure nella tribolazione,
non perde la malizia di nuocere. E c’è anche il piombo che è il
più pesante degli altri metalli; e nella fornace si rivela piombo
colui che è tanto oppresso dal peso del suo peccato che, anche posto
nella tribolazione non si solleva dai suoi desideri terreni.
Perciò ancora è scritto: Con
molta fatica si sudò e non usci da essa tutta la sua
ruggine, neppure
col fuoco (Ez.
24, 12). Cioè, ci invia il fuoco della tribolazione per purgarci
dalla ruggine dei vizi, che è in noi; ma non perdiamo la
ruggine neppure col fuoco quando, pure tra i castighi, non ci
asteniamo dal vizio. Perciò il profeta dice ancora: Invano
li ha fusi il fonditore: le
loro malizie non si sono consumate (Ger.
6, 29). Ma bisogna anche sapere che spesso, quando persistono a
non correggersi nella durezza dei castighi, bisogna blandirli con una
dolce ammonizione, perché non di rado sono le parole miti e le
carezze che trattengono dalle azioni inique quelli che non si
lasciano correggere dalle punizioni, come anche spesso certi malati,
che una forte bevanda medicinale non riesce a curare, vengono
risanati da acqua tiepida; e alcune ferite che non possono curarsi
incidendo, guariscono con impacchi di olio. Così il duro diamante
che non resta minimamente scalfito dal ferro, diviene molle nel
leggero sangue di capri.
14
— Come
bisogna ammonire i taciturni e i chiacchieroni
Diverso
è il modo di ammonire coloro che tacciono troppo e coloro che sono
sempre pronti a parlare molto. Bisogna suggerire a coloro che parlano
troppo poco che, mentre vogliono fuggire — in modo poco avvertito —
certi vizi, restano nascostamente implicati in vizi peggiori. Spesso
infatti, frenando la lingua oltre misura, devono portare in cuore un
eccessivo peso di parole, e così, tanto più i pensieri ribollono
nella mente quanto più li costringe la custodia forzata di un
silenzio privo di discernimento, e si espandono tanto più ampiamente
quanto più si giudicano al sicuro perché non si mostrano fuori, a
chi potrebbe riprenderli. Perciò spesso la mente monta in superbia e
disprezza come deboli coloro che sente parlare; ma mentre chiude la
bocca del suo corpo, non si rende conto di quanto si apre ai vizi col
suo insuperbire. Infatti comprime la lingua e innalza il pensiero e
mentre non considera affatto la sua malizia, dentro di sé accusa
tutti tanto più liberamente quanto più lo fa in segreto. Perciò
bisogna ammonire coloro che tacciono troppo, ad adoperarsi con
sollecitudine a conoscere non solo come si debbano mostrare al di
fuori, ma anche come si debbano disporre interiormente così da
temere di più l’occulto giudizio divino in seguito ai loro
pensieri che il rimprovero del prossimo in seguito ai loro discorsi.
Infatti è scritto: Figlio
mio, fa’
attenzione alla mia sapienza e piega l’orecchio alla mia prudenza
per custodire i pensieri (Prov.
5, 1). Poiché niente in noi è più instabile del cuore, che si
allontana da noi ogni qual volta è trascinato via sull’onda dei
cattivi pensieri. Perciò infatti il salmista dice: Il
mio cuore mi ha abbandonato (Sal.
39, 13). E perciò, ritornando in se stesso dice: Il
tuo servo ha trovato il suo cuore per pregarti (2
Sam. 7, 27). Pertanto, il cuore solito a disperdersi, si ritrova
quando il pensiero è frenato dalla vigilanza. Spesso poi, quando
coloro che tacciono troppo patiscono qualche ingiustizia, cadono in
un dolore tanto più aspro quanto meno parlano del dolore che devono
sopportare; perché se dicessero tranquillamente la sofferenza che è
stata loro inflitta, il dolore uscirebbe dalla coscienza. Infatti le
ferite chiuse fanno soffrire di più e quando il pus che infiamma
dentro viene espulso, il dolore si apre alla guarigione. Pertanto,
coloro che tacciono più del conveniente devono sapere che non è
bene aumentare la forza del dolore tra le sofferenze che sopportano,
per il fatto di trattenersi dal parlare. Bisogna ammonirli a non
tacere al prossimo, se lo amano come se stessi, ciò di cui
giustamente lo rimproverano, giacché con la medicina della parola si
concorre alla salute di ambedue: si frena dalla cattiva azione colui
che la compie (cf. Lev. 19, 17), e con l’apertura della ferita si
allevia la fiamma del dolore di colui che la sostiene. Infatti,
coloro che si volgono a guardare i peccati del prossimo e poi
trattengono la lingua nel silenzio, è come se, viste delle ferite,
sottraessero ad esse il medicamento, e divengono doppiamente causa di
morte in quanto non hanno voluto curare l’infezione come avrebbero
potuto. Dunque, bisogna frenare la lingua con discrezione e non
legarla indissolubilmente, poiché sta scritto: Il
sapiente tacerà fino al tempo opportuno (Sir.
20, 7); nel senso cioè che, quando vede l’opportunità,
tralasciata la censura del silenzio, dicendo quanto è conveniente si
adopera per l’utilità. E ancora sta scritto: C’è
un tempo per tacere e un tempo per parlare (Qo.
3, 7). Cioè bisogna calcolare con discrezione l’alternarsi dei
momenti diversi, perché la lingua non scorra inutilmente sulle
parole quando dovrebbe invece trattenersi; o non si trattenga
pigramente quando potrebbe utilmente parlare. Ciò che ben considera
il salmista dicendo: Poni, Signore, una
custodia alla mia bocca e una porta intorno alle mie labbra (Sal.
140, 3). Infatti non chiede che gli sia posta una parete davanti
alla bocca, ma una porta che, evidentemente, si apre e si chiude;
perciò anche noi dobbiamo imparare con prudenza il momento opportuno
perché la voce apra la bocca con discrezione, e ancora il momento
opportuno perché il silenzio la chiuda. Al contrario, bisogna
ammonire coloro che sono sempre pronti a parlare molto, che siano
pronti a rendersi conto di quanto vengon meno alla loro rettitudine
col diffondersi in tante parole. Giacché la mente umana è come
l’acqua, che quando è trattenuta si raccoglie verso l’alto
poiché tende a risalire là di dove è scesa, ma lasciata andare
viene meno perché si sparge inutilmente nei luoghi più bassi.
Infatti, ogni volta che la mente si dissipa in vane parole fuori
dalla censura del proprio silenzio, è condotta fuori di sé come per
tanti rivoletti. Perciò non è più capace di rientrare in se
stessa, alla conoscenza di sé, perché dispersa nelle molte parole
si chiude fuori dal nascondimento dell’intima meditazione; e si
scopre tutta alle ferite del nemico insidioso perché nessuna
protezione la circonda e la custodisce. Perciò è scritto: Come
una città aperta e senza giro di mura, così
è l’uomo che non può trattenere il suo animo quando parla (Prov.
25, 28); giacché la città della mente non possiede il muro del
silenzio ed è aperta alle frecce del nemico, e quando si butta fuori
di se stessa attraverso le parole, si mostra tutta all’avversario.
Ed egli la espugna senza fatica tanto più in quanto anche lei
stessa, che viene vinta, combatte contro di sé col suo continuo
parlare. Ma per lo più, poiché la mente negligente è spinta a
cadere per gradi, se trascuriamo di guardarci dalle parole oziose,
giungiamo a quelle dannose; così che, prima si gode a parlare degli
altri, poi si morde la vita di coloro di cui si parla, con la
detrazione, e infine la lingua rompe fino alle aperte offese. E di
qui si seminano le provocazioni, nascono le risse, si accendono le
fiamme dell’odio, si estingue la pace dei cuori. Perciò, bene è
detto per mezzo di Salomone: Chi
lascia andare l’acqua, dà
principio alle contese (Prov.
17, 14). Lasciare andare l’acqua significa abbandonare la
lingua allo sproloquio. Al contrario, è detto ancora in senso
buono: Le
parole che procedono dalla bocca dell’uomo sono
acque profonde (Prov.
18, 4). Pertanto, chi lascia andare l’acqua dà principio alle
contese perché chi non frena la lingua dissipa la concordia. E
perciò in senso inverso è detto: Chi
impone silenzio allo stolto, mitiga
le ire (Prov.
26, 10). Che poi colui il quale è dedito alle chiacchiere non
possa mantenere la rettitudine della giustizia, lo attesta il profeta
che dice: L’uomo
linguacciuto non va diritto sulla terra (Sal.
139, 12). Perciò, pure Salomone dice ancora: Nel
molto parlare non mancherà il peccato (Prov.
10, 19). Perciò Isaia dice: Il
silenzio è coltivazione della giustizia (Is.
32, 17), significando chiaramente che la giustizia dell’animo
resta desolata se non la risparmia il parlare smodato. Perciò
Giacomo dice: Se
qualcuno pensa di essere religioso e non tiene a freno la sua lingua
ma seduce il suo cuore, la
sua religione è vana (Giac.
1, 26). Perciò dice ancora: Ognuno
sia pronto ad ascoltare ma lento a parlare (Giac.
1, 19). E di nuovo, definendo la potenza della lingua, dice: È
un male irrefrenabile, piena
di veleno mortifero (Giac.
3, 8). Perciò la Verità stessa ci ammonisce dicendo: Di
ogni parola oziosa che avranno detto, gli
uomini dovranno rendere conto il giorno del giudizio (Mt.
12, 36). Ed è oziosa ogni parola che non sia giustificata da
una ragionevole necessità o dall’intenzione di una pia utilità.
Se dunque si esige il rendiconto di una parola oziosa, pensiamo quale
pena attenda il molto parlare in cui si pecca anche con parole che
arrecano danno.
15
— Come si devono ammonire i pigri e i precipitosi
Diverso
è il modo di ammonire i pigri e i precipitosi. I primi bisogna
persuaderli a non perdere quei beni di cui differiscono
l’adempimento; gli altri invece bisogna ammonirli che, col
prevenire incautamente, per la loro fretta, il tempo di fare certe
opere buone, rischiano di mutarne i meriti. E così bisogna inculcare
nei pigri che ciò che speso non vogliamo fare al momento opportuno
mentre lo possiamo, poco dopo, quando lo vorremmo, non ne siamo più
in grado; poiché la stessa pigrizia della mente, se non viene accesa
e stimolata da un ardore appropriato, viene uccisa del tutto, quanto
al desiderio delle buone opere, da un torpore sotterraneo e
crescente. Perciò è detto apertamente per mezzo di Salomone: La
pigrizia fa venire sonno (Prov.
19, 15). Il pigro infatti, nella rettitudine del suo sentire, si
può dire che veglia, nonostante il torpore del suo non far nulla; ma
si dice che la pigrizia fa venire sonno, perché, se si cessa dalla
pratica del bene operare a poco a poco si perde anche la vigilanza
del retto sentire. Perciò giustamente prosegue: E
l’anima indolente soffrirà la fame (Prov.
19, 15). Infatti, poiché non si dirige verso l’alto col suo
sforzo, con la trascuratezza di sé, si espande verso il basso, nei
suoi desideri; e non essendo costretta dal vigore di interessi
elevati, è ferita dalla fame di una bassa cupidigia, così che
quanto più trascura di legarsi alla disciplina tanto più si
dissipa, affamata, nei desideri dei piaceri. Perciò ancora dal
medesimo Salomone è scritto: Ogni ozioso vive nei desideri (cf.
Prov. 21, 26). Perciò la Verità stessa ci annuncia che quando uno
spirito immondo è uscito da una casa questa è pura, ma se quando
quello ritorna essa è vuota, viene poi occupata da spiriti tanto più
numerosi (cf. Mt. 12, 44). Spesso il pigro, mentre trascura di fare
le cose necessarie, alcune se le immagina difficili e altre le teme
infondatamente; e trovata la scusa con cui giustificare il suo
timore, pretende di dimostrare che il suo dormire in ozio non è
ingiustificato. A lui bene viene detto per mezzo di Salomone: Il
pigro non ha voluto arare per il freddo; dunque
in estate andrà a mendicare, e
non gliene daranno (Prov.
20, 4). Il pigro non ara per il freddo quando, costretto dal
sonno della pigrizia, trascura di fare le opere buone che deve; non
ara per il freddo quando tralascia di fare cose importanti per timore
di piccoli mali in contrario. Ed è ben detto: In
estate andrà a mendicare e non gliene daranno, infatti
chi ora non fatica nelle buone opere, quando il sole del giudizio
apparirà più bruciante, in quella estate, mendicherà senza
ricevere nulla perché invano andrà a questuare all’ingresso
del Regno. E di nuovo per mezzo del medesimo Salomone si dice
giustamente a costui: Chi
bada al vento non semina; e
chi considera le nubi non miete (Qo.
11, 4). Che cosa si esprime col vento se non la tentazione degli
spiriti maligni? E che cosa con le nubi, che sono mosse dal vento, se
non le ostilità di uomini iniqui? Evidentemente, le nubi sono spinte
dai venti perché gli uomini iniqui sono eccitati dal soffio degli
spiriti immondi; pertanto, chi bada al vento non semina, e chi
considera le nubi non miete mai, perché chi teme la tentazione degli
spiriti maligni e chi teme la persecuzione di uomini iniqui né
semina il grano delle buone opere né taglia i covoni della santa
retribuzione. Al contrario, i precipitosi che prevengono il tempo
delle buone azioni, ne pervertono il merito e spesso cadono nel male
perché non hanno alcun discernimento del bene. Essi non indagano
quale sia il momento giusto di compiere qualcosa, ma per lo più se
ne rendono conto solo quando l’hanno fatta, con l’accorgersi che
così non avrebbero dovuto farla. Ad essi, come a chi ascolta, viene
detto da Salomone: Figlio, non
fare nulla senza consiglio, e
dopo che l’hai fatto non ti pentirai (Sir.
32, 24). E ancora: Le
tue palpebre precedano i tuoi passi (Prov.
4, 25). Le palpebre precedono i passi quando retti consigli
prevengono il nostro agire. Chi infatti trascura di considerare in
precedenza ciò che prevede di fare, drizza i suoi passi, chiude gli
occhi e giunge al termine del suo cammino, ma non si fa precedere
dalle sue stesse previsioni e perciò cade a terra più rapidamente,
perché non fa attenzione, attraverso la palpebra del consiglio, a
dove deve mettere il piede dell’opera.
16
— Come si devono ammonire i mansueti e gli iracondi
Diverso
è il modo di ammonire i mansueti e gli iracondi. Spesso infatti,
quando i mansueti hanno qualche responsabilità di guida, soffrono di
una certa lentezza di decisione unita alla loro mitezza; e per lo
più, per via di una pacatezza eccessivamente rilassata, addolciscono
oltre il necessario il vigore della severità. Al contrario, gli
iracondi, quando ricevono posti di governo, quanto più si lasciano
travolgere dall’impeto dell’ira all’esagitazione della mente,
tanto più turbano anche la vita dei sudditi disperdendone la
tranquillità e la pace. Quando il furore li spinge a trascendere
inconsideratamente, ignorano ciò che fanno nell’impeto dell’ira
e anche il male che nell’impeto dell’ira ricevono da se stessi.
Spesso però, ciò che è più grave, giudicano lo stimolo della
propria ira zelo di giustizia; e quando il vizio passa per una virtù,
senza timore si accumula colpa su colpa. Infatti, spesso, i mansueti
intorpidiscono per la noia della rilassatezza; e gli iracondi peccano
per zelo di rettitudine. Pertanto, per i primi, si tratta di un vizio
che nascostamente si aggiunge a una virtù; agli altri invece, il
proprio vizio appare come virtù ardente. Dunque, bisogna ammonire
quelli a fuggire ciò che hanno presso di sé, e questi a badare a
ciò che hanno in sé; quelli discernano ciò che non hanno, questi
ciò che hanno: i mansueti abbraccino la sollecitudine; gli iracondi
bandiscano l’agitazione. Bisogna ammonire i mansueti che si studino
di avere spirito di emulazione per la giustizia; e gli iracondi ad
aggiungere la mansuetudine a questo medesimo spirito che essi credono
di possedere. Perciò infatti lo Spirito Santo ci si è mostrato come
colomba e come fuoco, per presentarci tutti quelli che riempie,
mansueti per la semplicità della colomba e ardenti per il fuoco
dello zelo. Pertanto, non è pieno dello Spirito Santo né colui che,
tranquillo della sua mansuetudine, tralascia il fervore dello zelo,
né colui che ancora per l’ardore dello zelo, perde la virtù della
mansuetudine. Ma forse ci spieghiamo meglio se portiamo come esempio
il magistero di Paolo, il quale, a due discepoli, forniti di non
diversa carità, dà tuttavia consigli diversi, per la predicazione.
Infatti, ammonendo Timoteo dice: Confuta, esorta
e rimprovera con ogni pazienza e dottrina (2
Tim. 4, 2); ammonisce anche Tito dicendo: Di’
queste cose ed esorta e confuta con ogni autorità (Tit.
2, 15). A che cosa si deve che egli applichi tanto sapientemente
la sua dottrina che, nel proporla, ad uno consiglia l’autorità e
all’altro la pazienza, se non al fatto che conosceva lo spirito più
mansueto di Tito e quello un poco più fervido di Timoteo? Perciò
infiamma quello, con l’amore dello zelo e modera questo, con la
dolcezza della pazienza: aggiunge ciò che manca all’uno e toglie
ciò che è di troppo nell’altro; si sforza di stimolare il primo e
di frenare il secondo, e come grande agricoltore della Chiesa che ha
ricevuto, annaffia alcuni rami perché crescano, e altri che vede
crescere più del normale li pota affinché non accada che, o non
crescendo non portino frutto o crescendo eccessivamente perdano
quello che hanno già dato. Ma è molto diversa l’ira che
accompagna l’emulazione per la giustizia, dall’ira che turba un
cuore agitato e senza pretesto di giustizia. Nel primo caso, infatti,
essa si estende disordinatamente a ciò che è doveroso, nell’altro
invece si accende sempre indebitamente. Perciò bisogna sapere che
gli impazienti differiscono dagli iracondi in ciò, che quelli non
sopportano ciò che viene loro imposto da altri; questi invece sono
loro a provocare ciò che gli altri devono sopportare. Infatti gli
iracondi, spesso, assalgono anche coloro che si ritirano, provocano
occasioni di risse, godono di affaticarsi in contese. Costoro
tuttavia si correggono meglio se ci si tira indietro nell’eccitazione
della loro ira, perché in quel momento ignorano ciò che viene detto
loro, ma ritornati in sé, accolgono tanto più liberamente le parole
di esortazione quanto più arrossiscono di essere stati sopportati in
pace. Giacché, qualunque cosa giusta si dica a una mente ebbra di
furore, le parrà sempre sbagliata. Perciò anche, a Nabal ubriaco,
Abigail tacque lodevolmente la sua colpa che, altrettanto
lodevolmente, gli disse solo quando egli ebbe smaltito il vino (cf. 1
Sam. 25, 37); e perciò egli poté conoscere il male che aveva
compiuto e che non gli fu detto quando era ubriaco. Quando però gli
iracondi assalgono gli altri in modo che essi non possano in alcuna
maniera ritirarsi, bisogna affrontarli non con aperto rimprovero ma
usando verso di loro il riguardo di un certo cauto rispetto. Cosa che
si intende meglio con l’esempio di Abner. Di lui, quando Asael lo
inseguiva con violenza precipitosa e incauta, è scritto: Abner
parlò ad Asael dicendo: Ritirati, non
inseguirmi che io non sia costretto a trafiggerti in terra. Ma
quello disprezzò l’avvertimento e non volle ritirarsi. Allora
Abner lo colpi con la parte posteriore della lancia, nell’inguine, e
lo trafisse e mori (2
Sam. 2, 22-23). E di chi è figura Asael se non di coloro che
quando il furore li coglie con violenza, li trascina a precipizio?
Costoro sono da evitare tanto più cautamente nell’impeto dell’ira
in quanto ne sono anche trascinati come folli; perciò anche Abner —
che nella nostra lingua significa lucerna del padre — fugge; perché
la lingua dei maestri, che indica la luce celeste di Dio, quando vede
la mente di qualcuno portata per i precipizi del furore, e trascura
di restituire le frecce delle sue parole contro l’irato, è come
chi non vuol ferire il suo persecutore.
Ma
quando gli iracondi non si acquietano con alcun ragionamento e, come
Asael non cessano di perseguitare e comportarsi da pazzi, è
necessario che coloro i quali cercano di trattenere i furiosi, non si
erigano anch’essi con furore, ma mostrino tutta la possibile
tranquillità; facciano cioè qualche sottile osservazione che
colpisca indirettamente l’animo di colui che infuria. Perciò anche
Abner, quando ristette contro colui che lo inseguiva, non lo trapassò
con la lancia diritta ma rovesciata; poiché percuotere con la punta
corrisponde ad affrontare d’impeto con un aperto rimprovero;
invece, ferire con la parte posteriore della lancia vale toccare
tranquillamente il furioso con qualche argomento e vincerlo quasi
risparmiandolo. Asael tuttavia cadde subito perché le menti
eccitate, mentre sentono che si ha riguardo per loro, toccate con
tranquillità nell’intimo dalla ragionevolezza delle risposte,
cadono improvvisamente da quello stato di esaltazione a cui si erano
innalzati. Così, coloro che sotto un leggero colpo piombano
dall’impeto del loro ardore, sono come chi muore quasi senza
ricevere ferita di spada.
17
— Come si devono ammonire gli umili e gli orgogliosi
Diverso
è il modo di ammonire gli umili e gli orgogliosi. Ai primi bisogna
suggerire quanto sia vera quella superiorità che possiedono nella
speranza; gli altri bisogna persuaderli quanto nulla valga la gloria
temporale che essi, pur tenendola stretta, non possiedono. Ascoltino
gli umili quanto è eterno ciò a cui aspirano e quanto è
transitorio ciò che trascurano; e gli orgogliosi ascoltino quanto è
passeggero ciò che ambiscono ed eterno ciò che perdono. Ascoltino
gli umili, dalla maestra voce della Verità: Chi
si umilia sarà esaltato (Lc.
18, 14); ascoltino gli orgogliosi: Chi
si esalta sarà umiliato (Lc.
18, 14). Ascoltino gli umili: L’umiltà
precede la gloria (Prov.
15, 33); ascoltino gli orgogliosi: Lo
spirito si esalta prima della rovina (Prov.
16, 18). Ascoltino gli umili: A chi
volgerò lo sguardo se non all’umile e tranquillo e che teme le mie
parole? (Is.
66, 2); ascoltino gli orgogliosi: Perché
insuperbisce la terra e la cenere? (Sir.
10, 9). Ascoltino gli umili: Dio
volge lo sguardo alle cose umili (Sal.
137, 6); ascoltino gli orgogliosi: e
conosce da lontano le alte (Sal.
137, 6). Ascoltino gli umili: Poiché
il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per
servire (Mt.
20, 28); ascoltino gli orgogliosi: poiché
la superbia è l’inizio di ogni peccato (Sir.
10, 15). Ascoltino gli umili: poiché il nostro Redentore umiliò
se stesso fatto obbediente fino alla morte (Fil.
2, 8); ascoltino gli orgogliosi ciò che è scritto del loro
capo: Egli è
re sopra tutti i figli della superbia (Giob.
41, 25). Dunque, la superbia del diavolo fu l’occasione della
nostra perdizione, e l’umiltà di Dio fu trovata argomento della
nostra redenzione. Infatti il nostro nemico, creatura come tutte,
volle apparire innalzata su tutte; ma il nostro Redentore, pur
rimanendo grande su tutte,. si degnò di diventare piccolo fra tutte.
Si dica dunque agli umili che nel loro abbassarsi si elevano alla
somiglianza di Dio; si dica agli orgogliosi che con il loro
innalzarsi cadono ad imitazione dell’angelo apostata. Perciò, che
cosa c’è di più basso dell’orgoglio, che nel tendersi al di
sopra di sé si allontana dalla misura della vera altezza? E che cosa
è più sublime dell’umiltà che nell’abbassarsi fino al fondo si
unisce al suo Creatore, il quale rimane al di sopra dell’altezza
più eccelsa? C’è tuttavia dell’altro che in essi si deve
valutare con prudenza, poiché spesso alcuni restano ingannati dalla
apparenza di umiltà e altri peccano per ignoranza del proprio
orgoglio. Spesso infatti ad alcuni che si stimano umili si unisce un
timore che non deve essere portato a uomini; mentre non di rado
l’affermazione di una propria franchezza accompagna gli orgogliosi;
e così, quando bisogna rimproverare certi vizi altrui, i primi
tacciono per timore, e tuttavia pensano di tacere per umiltà; i
secondi invece parlano con l’impazienza dell’orgoglio e si
immaginano di parlare mossi da una libera rettitudine. Dunque, la
colpa della paura, sotto l’apparenza dell’umiltà, trattiene
quelli dal rimproverare i vizi altrui; mentre, sotto l’immagine di
uno spirito libero, la sfrenatezza dell’orgoglio spinge questi a
fare rimproveri che non devono, o a fare più rimproveri di quel che
devono. Perciò gli orgogliosi vanno ammoniti a non essere franchi di
quanto è conveniente; e gli umili a non stare sottomessi più di
quanto è opportuno, affinché i primi non voltino in difesa della
giustizia l’esercizio della superbia, e i secondi, quando si
applicano a sottomettersi agli uomini più del necessario, non siano
spinti a rispettare anche i loro vizi. Bisogna però considerare che
spesso si correggono più utilmente gli orgogliosi, se mescoliamo le
correzioni con qualche incoraggiamento di lode. Infatti, bisogna
riconoscere altre cose buone che sono in loro o, se non ci sono, dire
almeno quelle che potrebbero esserci; solo allora si deve togliere
quanto c’è in loro di male che a noi dispiace, quando cioè è
stato fatto precedere il ricordo delle loro cose buone e che ci
piacciono, con cui il loro cuore si è disposto a un ascolto placato.
Infatti, anche i cavalli irrequieti li tocchiamo prima con mano
leggera, per sottometterceli poi più pienamente anche con le
frustate; e a un bicchiere di amara medicina si aggiunge la dolcezza
del miele perché ciò che deve giovare alla salute non debba essere
gustato proprio col sapore di un’aspra amarezza; e invece, mentre
il gusto resta ingannato dalla dolcezza, l’umore mortifero viene
espulso con l’amarezza. Pertanto, nell’accusa rivolta agli
orgogliosi, l’inizio deve essere temperato con la lode, affinché
con l’accoglimento degli elogi che amano, essi accettino insieme le
correzioni che odiano. Ma spesso possiamo persuadere meglio e più
utilmente gli orgogliosi, se facciamo passare il loro progresso
piuttosto come pin vantaggioso per noi che per loro, se chiediamo che
il loro miglioramento si compia più per noi che per loro stessi.
Poiché è facile che l’orgoglio si pieghi al bene se crede che la
propria condiscendenza giovi ad altri. Perciò Mosé che aveva Dio
come guida e attraversava il deserto dietro la nuvola d’aria,
volendo allontanare il suo parente Hobab dalla consuetudine pagana e
sottometterlo alla signoria di Dio onnipotente, [lo pregò
dicendo]: Noi
partiamo per il luogo che il Signore ci darà; vieni
con noi affinché ti facciamo del bene perché il Signore ha promesso
dei beni a Israele. Ma
poiché quello gli rispose: Non
verrò con te ma ritornerò alla terra dove sono nato, aggiunse
subito: Non ci
abbandonare, perché
tu conosci in quali luoghi attraverso il deserto, dobbiamo
porre l’accampamento e sarai nostra guida (Num.
10, 29 ss.). Certo l’ignoranza riguardo al viaggio non
angustiava l’animo di Mosé, lui che la conoscenza della divinità
aveva dilatato alla scienza della profezia; che la colonna precedeva
all’esterno, e che il colloquio familiare della conversazione
assidua con Dio istruiva, all’interno, su ogni cosa. Ma
evidentemente, da uomo avveduto, che stava trattando con un
ascoltatore orgoglioso, lo pregò di un aiuto per poterglielo dare:
cercava in lui una guida per il viaggio, per potergli essere guida
alla vita. E agi in modo che l’ascoltatore superbo tanto più si
offrisse alla voce che lo attirava verso beni migliori quanto più si
sentiva considerato necessario; ma proprio nello stimarsi come colui
che precede chi lo esorta, di fatto obbediva alle sue parole.
18
— Come si devono ammonire gli ostinati e gli incostanti
Diverso
è il modo di ammonire gli ostinati e gli incostanti. Ai primi
bisogna dire che essi si stimano più di quello che sono e perciò
non acconsentono ai consigli altrui; i secondi bisogna convincerli
che poiché si disprezzano e non hanno alcuna considerazione di sé,
i loro pensieri mancano di fermezza e così mutano il loro giudizio a
seconda dei momenti. A quelli bisogna dire che se non si stimassero
migliori degli altri, non posporrebbero i consigli di tutti alla
propria decisione; a questi bisogna dire che se fissassero comunque
l’attenzione del proprio animo a ciò che sono, il vento
dell’instabilità non li trascinerebbe per tanta diversità di
posizioni. A quelli è detto per mezzo di Paolo: Non
siate prudenti presso voi stessi (Rom.
12, 6). Al contrario, questi si sentono dire: Non
facciamoci portare in giro da ogni vento di dottrina (Ef.
4, 14). Di quelli, per mezzo di Salomone è detto: Mangeranno
il frutto della loro via e si sazieranno dei loro consigli (Prov.
1, 31). Di questi, ancora lo stesso scrive: Il
cuore degli stolti sarà mutevole (Prov.
15, 7). Infatti il cuore dei sapienti è sempre uguale a se
stesso, perché mentre riposa su persuasioni rette è costante nel
bene operare. Ma il cuore degli stolti è mutevole perché
mostrandosi vario nell’instabilità, non rimane mai ciò che è
stato prima. E poiché certi vizi, come ne generano altri da se
stessi così da altri nascono, è importantissimo sapere che tanto
più riusciamo a toglierli, attraverso la correzione, quanto più
asciughiamo la fonte stessa della loro amarezza. E in effetti,
l’ostinazione è generata dalla superbia, l’incostanza dalla
leggerezza. Perciò bisogna ammonire gli ostinati a riconoscere
l’orgoglio del proprio pensiero e ad applicarsi per vincere se
stessi, perché mentre all’esterno rifiutano con disprezzo di
lasciarsi vincere dai giusti consigli di altri, interiormente non
siano tenuti prigionieri dalla superbia. Bisogna ammonirli a
considerare che il Figlio dell’uomo, che ha sempre una sola volontà
col Padre, per offrirci l’esempio di come spezzare la nostra
volontà, dice: Non
cerco la mia volontà ma la volontà del Padre che mi ha mandato (Gv.
5, 30). Egli che, per meglio raccomandare la grazia di questa
virtù, affermò che l’avrebbe conservata nell’ultimo giudizio,
dicendo: Io non
posso fare nulla da me stesso, ma
come ascolto giudico (Gv.
5, 30). Dunque, con quale coscienza l’uomo disdegna di
sottostare alla volontà altrui, quando il Figlio di Dio, e
dell’uomo, venuto a manifestare la gloria della sua potenza,
afferma di non giudicare da se stesso? Al contrario, bisogna ammonire
gli incostanti a rafforzare la loro mente con la fermezza Infatti
essi inaridiscono in sé i frutti della mutevolezza, se prima
strappano dal cuore la radice della leggerezza, perché si costruisce
un edificio stabile quando si provvede prima un luogo solido in cui
porre le fondamenta. Pertanto, se prima non si provvede a togliere la
leggerezza dalla mente, non si vince per nulla l’incostanza del
pensiero. Paolo mostra di essere stato alieno da costoro, quando
dice: Ho forse
usato della leggerezza? Oppure penso secondo la carne così che in me
ci siano il si e il no? (2
Cor. 1, 17). Come se dicesse apertamente: Non sono mosso dal
vento della instabilità perché non soggiaccio al vizio della
leggerezza.
19
— Come si devono ammonire gli intemperanti nel cibo e i
parchi
Diverso
è il modo di ammonire i golosi e i temperanti. Infatti nei primi il
vizio è accompagnato dall’eccesso del parlare, dalla leggerezza
dell’operare e dalla lussuria; agli altri si unisce spesso
l’impazienza e spesso anche la superbia. Infatti, se la loquacità
smodata non rapisse i golosi, quel ricco di cui si dice che
banchettava splendidamente ogni giorno non sarebbe stato arso più
gravemente nella lingua. Infatti dice: Padre
Abramo, abbi
pietà di me e manda Lazzaro a bagnare la punta del suo dito
nell’acqua, per
dare sollievo alla mia lingua, perché
sono tormentato in questa fiamma (Lc.
16, 24). Con queste parole, certamente si mostra che banchettando
ogni giorno, aveva peccato più frequentemente con la lingua, egli
che pur ardendo tutto cercava refrigerio soprattutto per essa. E
ancora l’autorità della Sacra Scrittura attesta che la leggerezza
dell’operare segue immediatamente i golosi, dicendo: Il
popolo si sedette per mangiare e bere, e
si alzò per divertirsi (Es.
32, 6). E spesso la voracità trascina costoro fino alla lussuria,
perché quando il ventre si distende nella sazietà, si eccitano gli
stimoli della libidine. Perciò all’astuto nemico, che apri la
sensualità del primo uomo alla bramosia del frutto e la strinse poi
col laccio del peccato, è detto dalla voce divina: Striscerai sul
petto e sul ventre (cf. Gen. 3, 14), come se gli venisse
detto apertamente: dominerai suoi cuori umani coi pensieri
cattivi e la golosità. Che poi la lussuria tenga dietro ai golosi,
lo attesta il profeta, che mentre racconta ciò che è manifesto
denuncia ciò che è nascosto, dicendo: Il principe dei cuochi
distrusse le mura di Gerusalemme (cf. 2 Re, 25, 10. LXX). Infatti il
principe dei cuochi è il ventre, al quale si presta gran cura da
parte dei cuochi, perché possa riempirsi di cibi nel piacere. Le
mura di Gerusalemme poi, sono le virtù dell’anima innalzate verso
il desiderio della pace celeste. Pertanto il principe dei cuochi
abbatte le mura di Gerusalemme, perché mentre il ventre si distende
per la ingordigia, le virtù dell’anima vengono distrutte dalla
lussuria. Al contrario, se per lo più, la impazienza non scuotesse
le menti dei temperanti dalla loro tranquillità, Pietro non
direbbe: Sforzatevi
di unire la virtù alla vostra fede, e
alla virtù la scienza e alla scienza la temperanza; per
aggiungere subito oculatamente: e
alla temperanza la pazienza (2
Pt. 1, 5). Ammoni cioè i temperanti ad avere quella pazienza
che sapeva mancare loro. E ancora: se la colpa della superbia non
trapassasse i pensieri dei temperanti, Paolo non avrebbe detto
affatto: Chi
non mangia non giudichi chi mangia (Rom.
14, 3). E poi, parlando ad altri nel restringere il campo dei
precetti per coloro che si gloriavano per la virtù dell’astinenza,
aggiunse: Tutte
cose che possiedono certo un aspetto di sapienza nella loro
religiosità umiltà e austerità del corpo, ma
non hanno alcun valore contro la soddisfazione della carne (Col.
2, 23). In
ciò va notato che nella sua argomentazione, il predicatore egregio
accosta alla scrupolosità un certo aspetto di umiltà, poiché
quando il corpo viene indebolito più del necessario dall’astinenza,
si manifesta esteriormente umiltà, ma proprio per questa umiltà si
insuperbisce gravemente nell’intimo. E se non fosse vero che
l’animo talvolta si gonfia d’orgoglio per la virtù
dell’astinenza, il fariseo non avrebbe enumerato con diligente
presunzione questa virtù fra i suoi grandi meriti, dicendo: Digiuno
due volte la settimana (Lc.
18, 12). Pertanto bisogna ammonire i golosi che, mentre sono dediti
al piacere dei cibi, non si facciano trafiggere dalla spada della
lussuria, e vedano con quanta forza, attraverso il mangiare, li
insidiano la loquacità e la leggerezza della mente, affinché mentre
servono con la mollezza il ventre non si trovino crudelmente stretti
nei lacci dei vizi. Infatti, tanto più ci si allontana dal secondo
genitore quanto più, col tendere la mano ad uso smodato del cibo, si
ripete la caduta del primo genitore. Ma al contrario, bisogna
ammonire i temperanti a fare molta attenzione che, mentre fuggono il
vizio della gola, non si generino, quasi dalla stessa virtù, vizi
ancora peggiori; così che mentre macerano la carne, lo spirito
erompa nell’impazienza. Poiché la vittoria sulla carne non
costituisce più una virtù, se lo spirito si lascia vincere
dall’ira. Ma talvolta, quando il cuore dei temperanti riesce a
trattenersi dall’ira, lo coglie come una gioia insolita che lo
corrompe, e il bene della astinenza si perde quanto meno si
custodisce dai vizi spirituali. Perciò giustamente è detto per
mezzo del profeta: Nei giorni dei vostri digiuni si manifestano le
vostre volontà (cf. Is. 58, 3 - LXX). E poco dopo: Voi digiunate
nelle liti e nelle risse e fate a pugni (cf. Is. 58, 4). La
volontà si riferisce alla gioia e il pugno all’ira. Invano
dunque si prostra il corpo con l’astinenza, se il cuore,
abbandonato a moti disordinati, si dissipa nei vizi. E ancora,
bisogna ammonire i temperanti a custodire la loro astinenza sempre
intatta, senza credere mai che essa rappresenti una virtù eccelsa
presso il Giudice occulto, perché se si dovesse credere che in essa
ci sia gran merito, il cuore non si esalti nell’orgoglio. Perciò
infatti è detto per mezzo del profeta: È
forse questo il digiuno che ho scelto? Spezza invece il tuo pane a
chi ha fame e conduci a casa tua i pellegrini bisognosi (Is.
58, 5.7). In ciò dunque bisogna considerare come viene stimata
piccola la virtù dell’astinenza, che non si raccomanda se non per
la presenza di altre virtù. Perciò Gioele dice: Santificate
il digiuno (Gioe.
1, 14). Infatti, santificare il digiuno significa mostrare a Dio
una astinenza del corpo resa degna per l’aggiunta di altre virtù.
Bisogna ammonire i temperanti a tenere presente che essi offrono
un’astinenza gradita a Dio solo quando i cibi che sottraggono al
proprio nutrimento li distribuiscono ai bisognosi. Bisogna
sapientemente ascoltare ciò che il Signore rimprovera, per mezzo del
profeta, dicendo: Quando
digiunavate e piangevate, il
quinto e il settimo mese, per
questi settant’anni, forse
facevate un digiuno per me? E quando avete mangiato e bevuto, non
avete mangiato forse per voi stessi e bevuto per voi stessi? (Zac.
7, 5 s.). Infatti non si digiuna per Dio ma per sé, quando ciò
che in certi tempi si sottrae al ventre, non lo si distribuisce ai
bisognosi, ma lo si custodisce per offrirlo di nuovo al ventre in
altri momenti. E così, affinché la golosità non faccia decadere
gli uni dalla stabilità dello spirito, e la mortificazione della
carne non faccia inciampare gli altri con l’orgoglio, ascoltino i
golosi dalla bocca della Verità: Badate
a voi stessi, che
i vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell’ubriachezza
e nelle preoccupazioni di questo mondo (Lc.
21, 34). E quindi aggiunge a ciò l’utile timore: E
sopravvenga improvviso su di voi quel giorno. Infatti
sopravverrà come un laccio su tutti coloro che siedono sulla faccia
di tutta la terra (Lc.
21, 35). E i temperanti ascoltino: Non
ciò che entra nella bocca corrompe l’uomo, ma
ciò che esce dalla bocca corrompe l’uomo (Mt.
15, 11). Ascoltino i golosi: Il
cibo è per il ventre e il ventre è per i cibi: ma
Dio distruggerà questi e quello (1
Cor. 6, 13). E ancora: Non
in gozzoviglie e ubriachezze (Rom.
13, 13). E ancora: Il
cibo non ci raccomanda a Dio (1
Cor. 8, 8). Ascoltino i temperanti: Perché
tutto è puro per i puri; ma
per i corrotti e gli infedeli niente è puro (Tit.
1, 15). Ascoltino i golosi: Loro
dio è il ventre e la loro gloria in ciò che è la loro
vergogna (Fil.
3, 19). Ascoltino i temperanti: Alcuni
si allontaneranno dalla fede (1
Tim. 4, 1); e poco dopo: Alcuni
proibiscono di sposarsi, vogliono
che ci si astenga dai cibi, che
Dio ha creato perché siano presi con rendimento di grazie dai fedeli
e da coloro che hanno conosciuto la verità (1
Tim. 4, 3). Ascoltino i golosi: È
bene non mangiare carne e non bere vino, né
ciò, per
cui il tuo fratello si scandalizza (Rom.
14, 21). Ascoltino i temperanti: Prendi
un poco di vino per via dello stomaco e delle tue frequenti
debolezze (1
Tim. 5, 23). Ciò perché gli uni non imparino a non desiderare
disordinatamente i cibi della carne e gli altri non osino condannare
ciò che essi non desiderano e tuttavia è stato creato da Dio.
20
— Come si devono ammonire coloro che distribuiscono i
propri beni e coloro che rapiscono quelli altrui
Diverso
è il modo di ammonire coloro che già elargiscono i propri beni con
misericordia, e coloro che ancora si danno da fare per rapire i beni
degli altri. I primi infatti bisogna ammonirli a non innalzarsi con
pensiero superbo su coloro a cui elargiscono i beni terreni, e non si
stimino migliori perché vedono gli altri sostenuti coi loro mezzi.
Infatti il padrone di una casa terrena, nel distribuire i ruoli e i
servizi dei servi, stabilisce questi a governare e quelli a essere
governati dagli altri. Ordina ai primi di provvedere il necessario ai
secondi, e a questi di prendere ciò che hanno ricevuto da quelli. E
tuttavia spesso coloro che governano, dispiacciono al padrone di
casa, e restano invece nella sua grazia coloro che sono governati.
Coloro che sono dispensatori si trovano a meritare la sua ira; gli
altri, che sottostanno alla distribuzione fatta dai primi, restano
senza ricevere danno. Dunque, bisogna ammonire coloro che già
dispensano con misericordia ciò che possiedono, a riconoscersi come
posti dal Padrone celeste a dispensare aiuti temporali, e a offrirli
tanto più umilmente quanto più capiscono che quel che dispensano è
roba altrui. E quando considerano di essere stati costituiti nel
servizio di coloro cui elargiscono i beni ricevuti, la superbia non
esalti il loro animo, ma lo trattenga invece il timore. Perciò è
necessario che badino con grande cura a non distribuire in modo
indegno i beni che gli sono stati affidati, e a darne così a chi non
devono darne, o a non darne affatto a chi devono qualcosa; a dare
molto a chi devono dar poco, o a darne poco a chi devono dar molto; a
disperdere inutilmente, per precipitazione, ciò che distribuiscono o
a tardare a dare a chi chiede, affliggendolo così in modo colpevole.
Non si insinui qui l’intenzione di ricevere gratitudine; e il
desiderio di una lode passeggera non estingua lo splendore del
donare. L’offerta del dono non sia accompagnata da una opprimente
tristezza, ma neppure l’animo di chi offre si rallegri più del
conveniente; e quando avranno compiuto tutto per bene, non
attribuiscano nessun merito a se stessi così da perdere, tutto in
una volta, quanto di bene hanno compiuto. Infatti, per non attribuire
a sé la virtù della propria liberalità, ascoltino ciò che è
scritto: Se
qualcuno esercita un ufficio, lo
faccia secondo la capacità che Dio gli comunica (1
Pt. 4, 11). Per non gioire smodatamente delle proprie
beneficenze, ascoltino ciò che è scritto: Quando
avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo
servi inutili, abbiamo
fatto quello che dovevamo fare (Lc.
17, 10). E perché la tristezza non guasti la liberalità,
ascoltino ciò che è scritto: Dio
ama chi dà con gioia (2
Cor. 9, 7). Affinché non cerchino una lode passeggera in cambio
del dono, ascoltino ciò che è scritto: Non
sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra (Mt.
6, 3), cioè: a un dono fatto con intenzione pia, non si mescoli la
gloria della vita presente, e il desiderio della lode non tocchi
un’azione giusta. Affinché non cerchino il contraccambio della
grazia fatta, ascoltino ciò che è scritto: Quando
fai un pranzo o una cena, non
invitare i tuoi amici o i tuoi fratelli o i parenti o i vicini
ricchi, perché
non avvenga che essi ti ricambino l’invito e tu ne abbia il
compenso; invece, quando
fai un pranzo, invita
i poveri, i
malati, gli
zoppi, i
ciechi; e
sarai beato perché loro non hanno da restituirti (Lc.
14, 12 ss.). E affinché non si tardi a dare ciò che va dato in
fretta, ascoltino ciò che è scritto: Non
dire al tuo amico: Va’
e ritorna e domani ti darò, quando
puoi dare subito (Prov.
3, 28). Affinché, sotto il pretesto della liberalità, non dissipino
inutilmente ciò che possiedono, ascoltino ciò che è
scritto: Sudi, l’elemosina
nella tua mano[1]. E
perché non diano poco là dove è necessario molto, ascoltino ciò
che è scritto: Chi
semina con parsimonia, mieterà
pure con parsimonia (2
Cor. 9, 6). Affinché, dove basta poco non offrano molto, e poi
loro stessi, non potendo in alcun modo sopportare l’indigenza,
erompano nell’impazienza, ascoltino ciò che è scritto: Non
perché ci sia sollievo per gli altri e tribolazione per voi, ma
perché nell’uguaglianza, la
vostra abbondanza supplisca la loro indigenza, e
la loro abbondanza venga a supplire la vostra indigenza (2
Cor. 8, 13-14). Infatti, quando l’animo di chi dà non sa
sopportare l’indigenza, se si priva di molto cerca un’occasione
di impazienza contro se stesso. Poiché prima bisogna predisporre
l’animo alla pazienza e solo allora distribuire molto o anche
tutto, perché non vada perduta la mercede della liberalità
prestata; e la mormorazione che inoltre si aggiungerebbe non faccia
perire più gravemente l’anima per il fatto che non si riesce a
sopportare in pace l’improvviso bisogno. Affinché non avvenga che
non diano nulla affatto a coloro cui qualcosa, anche poco, bisogna
dare, ascoltino ciò che è scritto: Da’
a chiunque ti chiede (Lc.
6, 30). Ma affinché non diano, anche poco, a chi non debbono
assolutamente nulla, ascoltino ciò che è scritto: Da’
al buono e non accogliere il peccatore: fa’
il bene all’umile e non dare all’empio (Sir.
12, 5-6). E ancora: Poni
il tuo pane e il tuo vino sul sepolcro del giusto, e
non mangiarne né berne insieme con i peccatori (Tob.
4, 18). Infatti offre ai peccatori il suo pane e il suo vino colui
che dà sussidi agli iniqui perché sono iniqui; perciò anche
parecchi ricchi di questo mondo, mentre i poveri di Cristo sono
afflitti dalla fame, mantengono con effusa liberalità gli istrioni.
Chi invece dà il suo pane a un povero, anche peccatore, non perché
è peccatore ma perché è uomo, evidentemente non mantiene un
peccatore ma un povero giusto, poiché in lui non ama la colpa ma la.
natura. Bisogna ammonire coloro che già distribuiscono i propri beni
con misericordia, ad attendere con gran cura, mentre le elemosine
redimono i peccati commessi, a non commetterne degli altri; e non
stimino venale la giustizia di Dio così da pensare di poter peccare
impunemente proprio mentre si preoccupano di distribuire denari per i
peccati. Infatti l’anima
vale più del cibo e il corpo più del vestito (Mt.
6, 25); chi allora dà cibo o vestito ai poveri, ma si macchia
con l’iniquità dell’anima o del corpo, ha offerto ciò che vale
di meno alla giustizia e ciò che vale di più al peccato; infatti, a
Dio ha dato i suoi beni, e al diavolo se stesso. Al contrario,
bisogna ammonire coloro che ancora si danno da fare per rapire i beni
degli altri, ad ascoltare con sollecitudine quanto dice il Signore
venendo al giudizio. Infatti dice: Ho
avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho
avuto sete e non mi avete dato da bere; ero
pellegrino e non mi avete accolto, nudo
e non mi avete coperto, infermo
e in carcere e non mi avete visitato (Mt.
25, 42-43). E ad essi, subito prima dice: Allontanatevi
da me, maledetti, nel
fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e i suoi
angeli (Mt.
25, 41). Ecco, quelli non ascoltano affatto questa sentenza
perché abbiano commesso rapine e ogni genere di violenze, ma
tuttavia vengono abbandonati al fuoco dell’eterna geenna. Da ciò
bisogna dedurre quanto sarà grande la pena che colpirà coloro che
rapiscono i beni altrui, se vengono colpiti con una punizione tanto
grande coloro che semplicemente conservano troppo gelosamente i
propri. Valutino con quale peccato li avvince il bene rapito se
quello che non è stato semplicemente partecipato sottopone a una
tale pena. Valutino che cosa meriti una ingiustizia inferta, se è
degno di così grande castigo l’avere mancato di offrire pietà.
Quando si propongono di rubare i beni altrui, ascoltino ciò che è
scritto: Guai
a colui che moltiplica i beni non propri: fino
a quando accumula contro di sé denso fango? (Ab.
2, 6). Per un avaro, cioè, accumulare il peso di denso fango
significa accumulare guadagni terrestri col peso del peccato. Quando
bramano di dilatare sempre più l’ampiezza della loro abitazione,
ascoltino ciò che è scritto: Guai
a voi
che aggiungete casa a casa e unite campi a campi fino ai confini del
paese. Forse
abitate solo voi in mezzo alla terra? (Is.
5, 8). Come se dicesse apertamente: Fin dove volete estendervi,
voi che, in questo mondo che è di tutti, non potete avere altri
partecipi della vostra fortuna? In effetti voi opprimete i vostri
vicini, ma trovate sempre contro chi farvi valere per estendervi.
Quando anelano ad aumentare il loro denaro, ascoltino ciò che è
scritto: L’avaro
non si riempie col denaro e chi ama le ricchezze non trarrà frutto
da esse (Qo.
5, 9). Certo ne trarrebbe frutto se volesse distribuirle bene senza
amarle, ma chi le conserva con amore le abbandonerà assolutamente
senza frutto. Quando ardono di riempirsi di tutte le ricchezze
insieme, ascoltino ciò che è scritto: Chi
ha fretta di arricchirsi non sarà senza colpa (Prov.
28, 20); infatti è certo, che chi aspira ad aumentare le sue
ricchezze, trascura di evitare il peccato e, catturato come un
uccello, mentre fissa avidamente l’esca di beni terreni, non si
accorge da quale laccio di peccato resta strangolato. Quando
desiderano guadagni di qualsiasi genere, del mondo presente, e
ignorano i danni che dovranno patire in quello futuro, ascoltino ciò
che è scritto: L’eredità
per la quale ci si affretta in principio, alla
fine non avrà benedizione (Prov.
20, 21). Cioè, da questa vita noi traiamo inizio per giungere a
ottenere benedizione alla fine; pertanto, chi ha fretta di ereditare
in principio, taglia via da sé la sorte della benedizione alla fine.
Poiché, mentre per il peccato di avarizia bramano di moltiplicare
qui i loro beni, là resteranno diseredati del patrimonio eterno.
Quando o ambiscono a molti beni o possono raggiungere tutto quanto
hanno ambito, ascoltino ciò che è scritto: Che
cosa giova all’uomo se guadagna tutto il mondo ma reca danno alla
sua anima? (Mt.
16, 26). È come se la Verità dicesse apertamente: Che cosa
giova all’uomo raccogliere tutto quello che esiste fuori di lui, se
danna questa sola cosa che è lui stesso? Tuttavia spesso si corregge
più rapidamente l’avarizia degli uomini rapaci, se nelle parole di
chi li ammonisce si dimostra quanto sia fugace la vita presente; se
si richiama la memoria di coloro che a lungo hanno cercato di
arricchire in questa vita e tuttavia non poterono restare a lungo a
godere delle ricchezze ottenute, poiché la morte improvvisa, di
colpo e tutto in una volta, ha portato via tutto ciò che, non di
colpo né tutto in una volta, la loro iniquità aveva messo insieme;
ed essi non solamente lasciarono qui le ricchezze rubate, ma
condussero con sé, al giudizio, le accuse di rapina. Ascoltino
dunque gli esempi offerti da costoro, che senza dubbio loro stessi
condannano a parole, affinché quando queste parole di condanna
rientrano nel loro cuore, arrossiscano almeno di imitare coloro che
giudicano.
21
— Come bisogna ammonire coloro che non bramano i beni
altrui, ma si tengono i propri e coloro che pur
distribuendo i propri, rapiscono tuttavia quelli degli
altri
Diverso
è il modo di ammonire coloro che né bramano i beni altrui né
elargiscono i propri; e coloro che distribuiscono i beni che hanno e
tuttavia non desistono di rapire quelli altrui. Bisogna ammonire
coloro che né bramano i beni altrui né elargiscono i propri, a
sapere che quella terra dalla quale sono stati presi è comune a
tutti gli uomini e perciò produce anche i mezzi di sopravvivenza a
tutti allo stesso modo. Pertanto vanamente si considerano innocenti
coloro che rivendicano ad uso privato il dono comune di Dio; i quali,
quando non distribuiscono ciò che hanno ricevuto, operano in qualche
modo l’assassinio del prossimo; perché quasi ogni giorno ne
uccidono tanti, quanti sono i poveri che muoiono mentre essi
nascondono presso di sé quegli aiuti che erano loro. Infatti, quando
distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra
ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene; e assolviamo
piuttosto a un debito di giustizia più che compiere opere di
misericordia. Perciò la Verità stessa parlando di nome non bisogna
ostentare la misericordia, dice: Badate
di non fare la vostra giustizia davanti agli uomini (Mt.
6, 1). E a ciò si accorda pure il salmista che
dice: Disperse, diede
ai poveri, la
sua giustizia rimane in eterno (Sal.
111, 9). Infatti, dopo avere nominato la liberalità esercitata
verso i poveri, preferisce chiamarla giustizia e non misericordia,
poiché è certamente giusto che quanto viene distribuito dal comune
Signore, chiunque ne riceve lo usi a vantaggio comune. Perciò anche
Salomone dice: Chi
è giusto darà e non cesserà (Prov.
21, 26). Bisogna anche ammonirli a stare molto attenti che
l’agricoltore esigente si lamenta contro il fico che non dà frutto
perché, oltre a ciò, tiene occupato il terreno. Il fico, cioè,
tiene il terreno occupato senza frutto quando l’animo degli avari
conserva inutilmente ciò che avrebbe potuto giovare a molti. Il fico
occupa senza frutto il terreno quando lo stolto opprime con l’ombra
della pigrizia un luogo che un altro sarebbe stato in grado di
sfruttare col sole delle buone opere. Costoro tuttavia spesso
sogliono dire: Usiamo ciò che ci è stato dato e non cerchiamo la
roba d’altri, e se non agiamo in modo degno di una ricompensa di
misericordia, tuttavia non commettiamo nulla di male. E pensano così
perché evidentemente chiudono l’orecchio del cuore alle parole
celesti; infatti neppure il ricco dell’Evangelo, che vestiva di
porpora e di bisso e banchettava splendidamente ogni giorno (cf. Lc.
16, 19 ss.), aveva rapito i beni altrui, ma è dimostrato che egli
aveva usato dei propri senza frutto; e dopo questa vita lo accolse la
geenna vendicatrice, non perché aveva compiuto qualcosa di illecito,
ma perché si era dato tutto alle cose lecite con uso smodato.
Bisogna ammonire questi avari a rendersi conto che la prima offesa la
fanno a Dio, poiché a colui che dà loro tutto, essi non rendono
alcun sacrificio di misericordia. Perciò il salmista dice: Non
darà a Dio la sua espiazione né il prezzo del riscatto della sua
anima (Sal.
48, 8-9). Infatti dare il prezzo del riscatto è rendere una
buona opera alla grazia che ci previene. Perciò Giovanni esclama: La
scure è ormai alla radice dell’albero. Ogni
albero che non fa buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco (Lc.
3, 9). Dunque, coloro che si giudicano innocenti perché non
rubano i beni altrui, faranno bene a prevedere il colpo della scure
vicina e a rigettare il torpore di una improvvida sicurezza,
affinché, mentre trascurano di portare il frutto di buone opere, non
vengano tagliati via del tutto dalla presente vita, come da una
rigogliosa radice. Al contrario, bisogna ammonire coloro che
distribuiscono ciò che hanno e poi non cessano di rapire i beni
altrui, a non aspirare di apparire sommamente munifici e così
divenire peggiori sotto l’apparenza del bene. Costoro infatti,
distribuendo senza discrezione i propri beni, non solo, come abbiamo
già detto, cadono nella mormorazione dell’impazienza, ma poi,
costretti dal bisogno, ripiegano fino all’avarizia. Che cosa c’è
dunque di più infelice dell’animo di coloro per i quali l’avarizia
nasce dalla liberalità e la messe dei peccati è come avesse il suo
seme nella virtù? Così bisogna innanzi tutto ammonirli a sapere
conservare con raziocinio i propri beni e quindi a non ambire a
quelli degli altri; se infatti la colpa non viene bruciata alla
radice proprio nel suo stesso espandersi, la spina dell’avarizia,
diffondendosi per i rami, non si secca mai. Pertanto si toglie
l’occasione di rubare, se in precedenza si stabiliscono con
chiarezza i limiti del diritto di possedere. Allora solo, coloro che
sono stati così ammoniti, ascoltino in che modo devono distribuire,
secondo misericordia, ciò che possiedono; cioè, quando avranno
imparato a non mescolare il bene della misericordia con la malizia
del furto, giacché essi ricercano poi, con la violenza, ciò che
hanno elargito con la misericordia. Ma altra cosa è fare
misericordia per i peccati e altra peccare per fare misericordia;
che, fra l’altro, non si può nemmeno più chiamare misericordia,
poiché non può dare dolce frutto l’albero che diviene amaro per
il veleno di una radice pestifera. È perciò, infatti, che per mezzo
del profeta il Signore rimprovera gli stessi sacrifici
dicendo: Io, il
Signore, che
ama la giustizia e odia la rapina nel sacrificio (Is.
61, 8). Perciò ancora disse: Abominevoli
sono i sacrifici degli empi, che
vengono offerti dal delitto (Prov.
21, 27). Poiché essi spesso sottraggono anche ai poveri ciò
che offrono a Dio. Ma con quanto biasimo li rifiuti, il Signore lo
dimostra dicendo, per mezzo di un sapiente: Chi
offre un sacrificio con le sostanze dei poveri è come uno che immola
un figlio alla vista di suo padre (Sir.
34, 24). Infatti, che cosa può esserci di pila insopportabile
che la morte del figlio davanti agli occhi del padre? Si manifesta
così con quanta ira sia riguardato questo sacrificio che viene
paragonato al dolore di un padre privato del figlio. E tuttavia
spesso pesano quel che danno, ma omettono di considerare quel che
rubano. Contano quel che danno come fosse una paga, ma rifiutano di
pesare attentamente le colpe. Ascoltino pertanto ciò che è
scritto: Chi ha
raccolto le paghe le ha messe in un sacchetto bucato (Ag.
1, 6), poiché si vede, quando si mette il denaro in un
sacchetto bucato, ma non si vede quando lo si perde. Pertanto, coloro
che guardano a quanto elargiscono, ma non considerano quanto
rapiscono, mettono le paghe in un sacchetto bucato, perché
certamente le accumulano guardando alla speranza di ricompensa cui si
affidano; ma senza guardare le perdono.
22
— Come bisogna ammonire i litigiosi e i pacifici
Diverso
è il modo di ammonire i litigiosi e i pacifici. Infatti, i litigiosi
bisogna ammonirli a sapere con assoluta certezza che, per quanto
grandi siano le virtù di cui abbondano, non di meno non possono
diventare spirituali, se trascurano di restare uniti al prossimo
nella concordia. Poiché è scritto: Frutto, poi, dello
spirito è carità, gioia, pace (Gal.
5, 22). Dunque, chi non ha cura di conservare la pace, rifiuta
di portare il frutto dello spirito. Perciò Paolo dice: Dal
momento che ci sono fra voi gelosie e contese, non siete
carnali? (1 Cor. 3, 3). Perciò di nuovo dice
pure: Cercate la pace con tutti e una vita santa senza la
quale nessuno vedrà Dio (Ebr. 12, 14). Perciò ancora
ammonisce dicendo: Solleciti a conservare l’unità dello
spirito: nel vincolo della pace: un solo
corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati ad una
sola speranza della vostra chiamata (Ef. 4, 3-4). Dunque,
non si giunge all’unica speranza della chiamata se non si corre
verso di essa con l’animo unito al prossimo. Ma spesso ci sono
alcuni che, quanto più sono i doni particolari che ricevono, tanto
più insuperbiscono perdendo il dono più grande che è quello della
concordia; come sarebbe uno che soggioga la propria carne più degli
altri, frenando la gola, e trascuri di andare d’accordo con coloro
a cui è superiore nell’astinenza. Ma chi separa l’astinenza
dalla concordia, consideri ciò che dice il salmista: Lodatelo
col timpano e il coro (Sal. 150, 4). Infatti il
timpano suona per la percussione di una pelle secca, invece nel coro
le voci concordano tutte insieme; e così chi affligge il corpo ma
abbandona la concordia, loda certo Dio col timpano, ma non lo loda
col coro. Spesso, poi, una maggiore scienza, mentre innalza certuni,
li divide dalla comunione con gli altri, e in un certo senso, quanto
più sanno, tanto più diventano incapaci della virtù della
concordia.
Dunque,
costoro ascoltino che cosa dice la Verità in persona: Abbiate
sale in voi e abbiate pace tra voi (Mc.
9, 49). La sapienza, cioè, non è un dono di virtù, ma
causa di condanna. Infatti, quanto più uno è sapiente, tanto più
gravemente pecca, e perciò meriterà il supplizio senza possibilità
di scusa, perché, se avesse voluto, con la sua prudenza avrebbe
potuto evitare il peccato. A costoro è detto giustamente per mezzo
di Giacomo: Che
se avete zelo amaro e ci sono contese nel vostro cuore, non
gloriatevi e non dite menzogne contro la verità. Questa
non è sapienza che scende dall’alto, ma
è sapienza terrena, animale, diabolica. Invece, la
sapienza che è dall’alto, innanzitutto
è pudica, quindi
pacifica (Giac.
3, 14-15.17). Pudica, cioè, perché è casta nell’intendere,
e pacifica perché non si separa affatto con l’esaltazione dalla
comunione col prossimo. Bisogna ammonire i litigiosi a conoscere che
non immolano alcun sacrificio di opere buone a Dio, per tutto il
tempo in cui non concordano nella carità col prossimo. Infatti, è
scritto: Se
mentre offri il tuo dono all’altare ti ricordi che il tuo fratello
ha qualche cosa contro di te, lascia
là il tuo dono e va’ prima a riconciliarti col tuo fratello e poi
vieni a offrire il tuo dono (Mt.
5, 23-24). Da questo precetto, bisogna considerare di chi sia la
offerta che viene respinta e quanto sia intollerabile la colpa che
viene così indicata. Infatti, se tutti i peccati vengono cancellati
per il bene compiuto in seguito, consideriamo quanto sia grande il
peccato della discordia, che se non viene distrutto radicalmente non
permette al bene di seguirlo. Bisogna ammonire i litigiosi, se
distolgono gli orecchi dai precetti celesti, ad aprire gli occhi del
cuore a considerare come si comportano le creature degli ordini più
bassi; come gli uccelli di una stessa specie, volando tutti insieme
non si lasciano, gli uni con gli altri; e come gli animali, che pure
sono senza intelligenza, pascolano a gruppi. Poiché, se guardiamo
con attenzione, la natura irrazionale nell’accordo con se stessa
indica quanto sia grande il peccato che la natura razionale commette
con la discordia; poiché questa, con l’applicazione della ragione,
ha perduto ciò che quella custodisce per istinto naturale. Bisogna,
al contrario, ammonire i pacifici, a non amare più del necessario la
pace che possiedono, così da non aspirare a raggiungere quella
eterna. Spesso infatti la tranquillità esteriore tenta più
gravemente l’attenzione degli animi così che quanto meno moleste
sono le condizioni in cui essi si trovano, tanto meno amabili
divengono quelle cui sono chiamati; e quanto più dilettano le
presenti, tanto meno si ricercano le eterne. Per cui, la Verità
stessa, distinguendo la pace terrena da quella celeste e volendo
eccitare i discepoli, dalla pace presente a quella eterna,
dice: Lascio a
voi la pace, vi
do la mia pace (Gv.
14, 27). Lascio, cioè, la pace transitoria e do quella
durevole. Se dunque il cuore si fissa in quella pace che è stata
lasciata, non perviene mai a quella che deve essere data. Pertanto
bisogna conservare la pace presente in modo da amarla e insieme
disprezzarla, affinché, se la si ama smodatamente, l’animo
dell’amante non sia colto in peccato. Perciò bisogna anche
ammonire i pacifici, a non rinunciare a rimproverare i cattivi
costumi degli uomini, per un eccessivo desiderio di assicurarsi una
pace umana, così che, consentendo ai peccatori, non si distacchino
dalla pace del loro Creatore; e mentre temono all’esterno gli
improperi degli uomini, non siano colpiti dalla rottura dell’alleanza
interiore. Che cos’è infatti una pace passeggera se non
un’impronta della pace eterna? Che cosa ci può essere di più
stolto che amare delle impronte sulla polvere e non amare la persona
che ve le ha impresse? Perciò David, stringendosi tutto alla
alleanza della pace interiore, afferma di non conservare la concordia
coi malvagi dicendo: Non
odio forse, Dio, quelli
che ti odiano, e
non mi struggo sopra i tuoi nemici? Li odio di un odio perfetto, sono
divenuti miei nemici (Sal.
138, 21-22). Infatti, odiare i nemici di Dio con odio perfetto
significa amare che essi esistano e rimproverare ciò che essi fanno;
perseguire i costumi dei cattivi e giovare alla loro vita. Bisogna
dunque considerare con quanta colpa si conserva la pace coi malvagi,
se ci si acquieta nella rinuncia a riprenderli, dal momento che un
profeta così grande offre come un sacrificio a Dio il fatto di avere
eccitato contro di sé, per Dio, l’inimicizia degli empi. Perciò
si dice che la tribù di Levi, impugnate le spade, percorrendo tutto
l’accampamento, poiché non volle risparmiare i peccatori che
meritavano di essere colpiti, consacrò la mano di Dio (cf. Es. 32,
27 ss.). Perciò Finees, disprezzando il favore di uomini peccatori,
colpi coloro che si univano con le madianite e con la sua ira placò
l’ira del Signore (cf. Num. 25, 9). Perciò la Verità stessa
dice: Non
pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra. Non
sono venuto a portare la pace ma la spada (Mt.
10, 34). Infatti, quando incautamente stringiamo amicizia coi
malvagi, ci leghiamo alle loro colpe. Perciò Giosafat che è
esaltato con tanti elogi riguardo alla sua vita passata, quasi in
punto di morte viene rimproverato per la sua amicizia col re Achab; a
lui infatti è detto dal Signore, per mezzo del profeta: Hai
portato aiuto all’empio e ti sei unito, per
l’amicizia, con
coloro che odiano il Signore; perciò
meriteresti l’ira del Signore, ma
in te sono state trovate opere buone perché hai tolto i boschi sacri
dalla terra di Giuda (2
Cr. 19, 2-3). Quanto più la nostra vita concorda per l’amicizia
coi perversi tanto phi, solo per questo, essa si distingue ormai da
colui che è sommamente giusto. Bisogna ammonire i pacifici di non
temere di turbare la propria pace temporale, se ricorrono a parole di
correzione. E ancora bisogna ammonirli a conservare interiormente con
intatto amore la medesima pace che esteriormente si turba per la voce
alzata nell’invettiva. David mostra di avere saggiamente conservato
ambedue quando dice: Con
coloro che odiano la pace ero pacifico, quando
parlavo con loro mi facevano guerra senza motivo (Sal.
119, 7). Ecco, quando parlava gli facevano guerra; e tuttavia
anche così era pacifico, perché né cessava di rimproverare coloro
che infuriavano né tralasciava di amare coloro che rimproverava.
Perciò anche Paolo dice: Se
è possibile, per
quanto sta in voi, abbiate
pace con tutti gli uomini (Rom.
12, 18). Volendo esortare i discepoli ad avere pace con tutti,
premise: Se è
possibile, e
aggiunse: per
quanto sta in voi. Poiché
era difficile che potessero essere in pace con tutti se avessero
dovuto rimproverare delle cattive azioni. Ma quando, per il nostro
rimprovero, la pace esteriore resta turbata nei cuori dei malvagi, è
necessario che essa si conservi inviolata nel nostro cuore. Perciò
dice giustamente: per
quanto sta in voi, come
se dicesse: Poiché la pace consiste nel consenso di due parti, se
essa viene cacciata da coloro che sono rimproverati, sia conservata
tuttavia integra nel cuore di voi che rimproverate. Perciò
lo stesso, di nuovo, ammonisce i discepoli dicendo: Se
qualcuno non ubbidisce a quanto diciamo con questa
lettera, notatelo, e
non mescolatevi con lui, affinché
resti confuso (2
Tess. 3, 14). E subito aggiunge: E
non consideratelo come nemico ma correggetelo come un fratello (2
Tess. 3, 15); come se dicesse: Sciogliete la pace esterna con
lui, ma quella interiore riguardo a lui custoditela nel fondo del
cuore, affinché il vostro dissenso ferisca il cuore del peccatore in
modo che, tuttavia, non si allontani dai vostri cuori la pace che non
avrete rinnegato.
23
— Come si devono ammonire i seminatori di discordie e gli
operatori di pace
Diverso
è il modo di ammonire i seminatori di discordie e gli operatori di
pace. I primi bisogna ammonirli a riconoscere di chi sono seguaci,
poiché è dell’angelo apostata che sta scritto, quando fu seminata
la zizzania tra il buon seme: Un
nemico ha fatto questo (Mt.
13, 28). E di un suo membro è anche detto, per mezzo di
Salomone: L’apostata, uomo
inutile, avanza
con volto maligno, fa
cenno con gli occhi, stropiccia
col piede, parla
col dito, con
cuore malvagio concepisce il male, e
in ogni tempo semina discordie (Prov.
6, 12). Ecco, chiama prima apostata colui che vuole chiamare
seminatore di discordie, perché, se per la perversione del cuore non
fosse caduto prima, interiormente, dal cospetto del Creatore — allo
stesso modo dell’angelo insuperbito — non sarebbe poi uscito a
seminare discordie all’esterno, lui che bene viene descritto come
chi fa cenno con gli occhi, parla con le dita e stropiccia col piede.
Poiché è all’interno, la custodia che conserva l’ordinato
comportamento esterno delle membra. Ma chi ha perduto l’equilibrio
dell’animo si abbandona, al di fuori, a movimenti scomposti, e con
la mobilità esteriore indica come nessuna radice lo tenga saldo
interiormente. Ascoltino i seminatori di discordie ciò che è
scritto: Beati
gli operatori di pace poiché saranno chiamati figli di Dio (Mt.
5, 9), e traggano da ciò, inversamente, la conclusione che, se
saranno chiamati figli di Dio coloro che operano la pace, sono senza
dubbio figli di Satana coloro che la turbano. Ma tutti coloro che, a
causa della discordia, si separano dalla pianta verde dell’amore,
inaridiscono. E quantunque essi producano frutti di buone opere nelle
loro azioni, questi non valgono assolutamente nulla perché non
nascono dall’unità della carità. Perciò considerino, i
seminatori di discordie, in quanti molteplici modi peccano, loro che,
nel commettere una sola azione malvagia, di fatto sradicano dai cuori
umani tutte insieme le virtù. Ma poiché nulla è più prezioso per
Dio della virtù dell’amore, niente è più desiderabile dal
diavolo che la distruzione della carità. Dunque, chiunque seminando
discordie uccide l’amore del prossimo, serve come familiare al
nemico di Dio perché, sottraendo ai cuori feriti la virtù, per la
cui perdita egli cadde, taglia ad essi la via dell’ascesi
spirituale. Al contrario, bisogna ammonire gli operatori di pace a
non trarre con leggerezza il peso di un’azione così importante,
quando non conoscano le persone tra cui debbono stabilire la pace.
Infatti, come è molto dannoso che non ci sia pace tra i buoni, cos’
è dannosissimo che ci sia pace tra i cattivi. Pertanto, se la
malizia dei malvagi li unisce nella pace, certo la loro forza si
accresce di cattive azioni, perché quanto più concordano nel male
tanto più vigorosamente si buttano ad affliggere i buoni. Perciò
infatti la voce divina parlando contro gli strumenti di quel dannato,
cioè contro i predicatori dell’Anticristo, dice al beato
Giobbe: Le
membra della sua carne congiunte fra loro (Giob.
41, 14). Perciò dei suoi satelliti si dice, sotto l’immagine
delle squame: Una
si congiunge all’altra e neppure un soffio passa fra di esse (Giob.
41, 7). Poiché i seguaci di quello, quanto meno sono divisi tra
di loro dall’ostilità, frutto della discordia, tanto più
gravemente si uniscono per la strage dei buoni. Dunque, colui che
unisce gli iniqui, facendo pace fra loro, dispensa forze
all’iniquità, poiché perseguitando i buoni unanimemente, li
affliggono ancor peggio. Perciò l’egregio predicatore, prigioniero
per la grave persecuzione di Farisei e Sadducei, vedendoli
pericolosamente uniti contro di sé, curò di dividerli fra di loro,
quando gridò dicendo: Fratelli, io
sono Fariseo figlio di Farisei e vengo giudicato riguardo alla
speranza nella risurrezione dei morti (Atti,
23, 6). E poiché i Sadducei negavano la risurrezione dei morti
e la speranza in essa, mentre i Farisei ci credevano, secondo i
precetti della parola divina, si creò una divisione nell’unanimità
dei persecutori, e per questa Paolo usci illeso da quella turba che
prima, unita, lo aveva ferocemente stretto. Pertanto bisogna ammonire
coloro che si applicano a ristabilire la pace, ad infondere
innanzitutto nei cuori dei malvagi l’amore della pace interiore,
perché poi la pace esteriore possa giovare a loro, così che il
riceverla, mentre il loro cuore è intento alla esperienza della pace
intima, valga a non trascinarli al male; e mentre guardano avanti,
verso la pace celeste non si servano in alcun modo di quella terrena
per divenire peggiori. Ma quando i malvagi sono tali che non sono
capaci di nuocere ai buoni, anche se lo desiderano, è certo che tra
costoro occorre stabilire la pace terrena anche prima che essi siano
in grado di conoscere quella celeste, affinché coloro che la malizia
della propria empietà esaspera contro l’amore di Dio, divengano
mansueti almeno per l’amore del prossimo; e passino, come partendo
da ciò che è vicino, a qualcosa di migliore, cioè ascendano a
quella pace del Creatore che è loro lontana.
24
— Come si devono ammonire gli ignoranti nella dottrina
sacra e i dotti che però non sono umili
Diverso
è il modo di ammonire coloro che non intendono rettamente le parole
della legge sacra e coloro che certo le intendono rettamente ma non
ne parlano umilmente. I primi vanno ammoniti a considerare che essi
mutano, per sé, un sanissimo bicchiere di vino in un bicchiere di
veleno, e con un ferro da chirurgo, si feriscono con una ferita
mortale, quando con esso uccidono ciò che in loro è sano, mentre
avrebbero dovuto tagliare ciò che è malato. Bisogna ammonirli a
considerare come la Sacra Scrittura sia per noi quale lampada posta
nella notte della vita presente (cf. Sal. 118, 105), ma se essi non
intendono rettamente le sue parole è come se quelle si oscurassero
perdendo la loro luce. Certo non sarebbe un errore intenzionale a
trascinarli a una comprensione distorta, se prima non li avesse
gonfiati la superbia. Infatti, considerandosi più sapienti degli
altri, rifiutano con disprezzo di seguirli sulla via di una migliore
comprensione, e per estorcere, all’autorità dell’opinione del
volgo, il nome di scienza per il proprio insegnamento, si danno un
gran daffare a demolire le rette interpretazioni di altri e a
rafforzare i propri errori.
Perciò
giustamente si dice per mezzo del profeta: Sventrarono
le donne incinte in Galaad per allargare i loro territori (Am.
1, 13). Infatti con Galaad si intende il «cumulo della
testimonianza», e poiché tutta insieme, la congregazione della
Chiesa, attraverso la confessione [dei suoi membri], serve alla
testimonianza della verità, non è senza senso che per Galaad si
intenda la Chiesa che, per bocca di tutti i fedeli, attesta ciò che
è vero riguardo a Dio. Per donne incinte si intendono le anime che
in virtù dell’amore divino, concepiscono la comprensione della
Parola e giungono al compimento del tempo sono pronte a partorire,
con la manifestazione delle opere, quella comprensione che avevano
concepita. E dilatare il proprio territorio significa estendere la
fama della propria opinione. Dunque, sventrarono le donne incinte in
Galaad per allargare il proprio territorio, poiché evidentemente gli
eretici uccidono, con una predicazione perversa, i cuori dei fedeli
che già avevano concepito una qualche comprensione della verità, e
diffondono la fama di una loro scienza. Con la spada dell’errore
squarciano i cuori dei piccoli, già gravidi della concezione della
Parola, e creano, per il proprio errore, la opinione di dottrina.
Dunque, quando ci sforziamo di istruire costoro perché non errino
col pensiero, è necessario che prima li ammoniamo a non cercare una
gloria vana. Infatti, se si strappa la radice dell’esaltazione, di
conseguenza i rami della dottrina depravata inaridiscono. Bisogna
ammonirli anche che, col generare errori e discordie, non mutino in
sacrificio a Satana proprio quella legge di Dio data precisamente per
impedire sacrifici a Satana. Perciò attraverso il profeta il Signore
si lamenta dicendo: Ho
dato loro frumento, vino
e olio, e
per loro ho moltiplicato argento e oro che hanno usato per Baal (Os.
2, 8).
Dunque,
riceviamo frumento dal Signore quando in espressioni oscure, tolta la
copertura della lettera, attraverso il midollo dello spirito,
cogliamo l’intimo della legge. Il Signore poi ci offre il suo vino
quando ci inebria con l’alta predicazione della sua Scrittura. E ci
dà pure il suo olio quando, con precetti più aperti, dispone con
dolce leggerezza la nostra vita. Moltiplica l’argento, quando ci
amministra parole piene della luce della verità. E ci arricchisce
pure d’oro quando irraggia il nostro cuore con la percezione del
sommo fulgore. Tutte queste cose gli eretici le offrono a Baal,
poiché, con la comprensione corrotta, pervertono ogni cosa nei cuori
dei loro ascoltatori. E col frumento di Dio, col vino e l’olio e
ugualmente l’argento e l’oro, immolano un sacrificio a Satana,
poiché piegano parole di pace all’errore che genera discordia.
Perciò bisogna ammonirli a considerare che quando, con animo
perverso, creano discordia, per giusto giudizio di Dio, sono loro
stessi a morire uccisi da parole di vita. Al contrario, bisogna
ammonire coloro che intendono, certo rettamente, le parole della
legge, ma non ne parlano umilmente, ad esaminare se stessi alla luce
dei discorsi sacri, prima di proporli agli altri, perché non accada
che nel perseguire le azioni altrui, trascurino se stessi; e mentre
intendono rettamente ogni cosa della Sacra Scrittura non tralascino
di fare attenzione solamente a ciò che in essa si dice contro coloro
che si esaltano. Poiché è disonesto e ignorante, il medico che
desidera curare la ferita altrui e ignora quella di cui egli stesso
soffre. Pertanto, coloro che non predicano umilmente le parole di
Dio, bisogna certamente ammonirli — quando si applicano a medicare
i malati — a esaminare anzitutto il veleno della peste che portano
addosso, affinché mentre curano gli altri non muoiano loro. Bisogna
ammonirli a considerare che lo spirito con cui parlano non contrasti
con la santità della Parola, e non accada che nella loro
predicazione dicano una cosa e ne mostrino un’altra. Ascoltino
dunque ciò che è scritto: Se
uno parla, siano
come discorsi di Dio (1
Pt. 4,11). Pertanto perché coloro che pronunciano parole che
non sono loro proprie, se ne vantano come se fossero loro? Ascoltino
ciò che sta scritto: Parliamo
come da Dio, di
fronte a Dio, in
Cristo (2 Cor.
2, 17). Infatti parla da Dio, di fronte a Dio, colui che capisce di
avere ricevuto da Dio la parola della predicazione e cerca, con essa,
di piacere a Dio e non agli uomini. Ascoltino ciò che è scritto: È
abominazione del Signore ogni arrogante (Prov.
16, 5). Poiché, evidentemente, mentre cerca la propria gloria nella
parola di Dio, usurpa il diritto di colui che la dà, e non teme di
posporre alla lode di sé colui dal quale ha ricevuto proprio ciò
che viene lodato. Ascoltino ciò che viene detto al predicatore per
mezzo di Salomone: Bevi
l’acqua della tua cisterna e quella che sgorga dal tuo pozzo; le
tue sorgenti scorrano al di fuori e dividi le acque nelle
piazze. Abbile
tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te (Prov.
5, 15-17). Dunque, il predicatore beve acqua dalla sua cisterna,
quando rientrando nel suo cuore ascolta, lui per primo, ciò che
dice. Beve l’acqua che scorre dal suo pozzo, se viene irrigato
dalla sua parola. Ed è ben detto ciò che si aggiunge: Le
tue sorgenti scorrano al di fuori e dividi le acque nelle
piazze (Prov.
5, 16); poiché è giusto che beva lui, prima, e poi predicando
faccia rifluire sugli altri. Infatti, fare scorrere le fonti al di
fuori significa infondere esteriormente agli altri la forza della
predicazione. Dividere poi le acque nelle piazze corrisponde a
dispensare il divino discorso ad un grande numero di ascoltatori a
seconda della qualità di ciascuno. E poiché per lo più, mentre la
parola di Dio si diffonde e giunge a conoscenza di molti, si insinua
il desiderio di una gloria vana, dopo che è stato detto: Dividi
le acque sulle piazze, giustamente
si soggiunge: abbila
tu solo e non vi siano stranieri partecipi con te. Chiama
cioè stranieri gli spiriti maligni dei quali, per mezzo del profeta
si dice, con la voce di un uomo nella tentazione: Stranieri
sono insorti contro di me e dei forti hanno cercato la mia vita (Sal.
53, 5). Dice dunque: Dividi le acque nelle piazze e tuttavia abbile
tu solo; come se dicesse apertamente: È necessario che tu serva
esteriormente la predicazione in modo da non unirti, attraverso
l’esaltazione, agli spiriti iniqui e da non ammettere, nel
ministero della parola divina, i tuoi nemici coane tuoi partecipi.
Pertanto, dividiamo l’acqua nelle piazze e tuttavia la possediamo
da soli, quando esteriormente diffondiamo ampiamente la predicazione
e tuttavia non aspiriamo affatto ad ottenere la lode degli uomini
attraverso di essa.
25
— Come bisogna ammonire coloro che rifiutano l’ufficio
della predicazione per eccessiva umiltà e coloro che se ne
impadroniscono con fretta precipitosa
Diverso
è il modo di ammonire coloro che, pur essendo in grado di predicare
degnamente, temono di farlo per eccessiva umiltà, e quelli a cui
sarebbe proibito da qualche difetto o dall’età e tuttavia
l’irruenza li spinge a farlo. Infatti, coloro che potrebbero
predicare utilmente ma ne rifuggono per umiltà eccessiva bisogna
ammonirli, a dedurre da esempi di minor conto, l’entità di quel
che essi trascurano affatto in cose di maggior conto. Se infatti essi
nascondessero, a dei prossimi bisognosi, del denaro in loro possesso,
ne faciliterebbero senz’altro la rovina. Vedano allora con quale
colpa si legano, dal momento che, sottraendo a dei fratelli peccatori
la parola della predicazione, nascondono medicine di vita ad anime
che stanno morendo. Perciò dice bene un sapiente: Sapienza
nascosta e tesoro non visto, quale utilità in
ambedue? (Sir. 20, 32). Se la fame sfinisse la
popolazione ed essi custodissero nascosto del frumento, sarebbero
senza dubbio autori di morte. Considerino dunque con che pena
meritano di essere colpiti loro, che, mentre le anime muoiono di fame
della Parola, non distribuiscono il pane della grazia ricevuta.
Perciò bene è detto per mezzo di Salomone: Chi nasconde il
grano sarà maledetto tra i popoli (Prov. 11, 26); poiché
nascondere il grano significa trattenere presso di sé le parole
della predicazione santa. Una tale persona viene maledetta tra i
popoli perché per la ‘sola colpa del silenzio, viene condannata in
proporzione a quella che sarà la pena di molti, che avrebbe potuto
correggere.
Se
ci fosse chi conosce bene l’arte medica e vedesse una ferita da
incidere e tuttavia ricusasse di farlo, peccherebbe certamente come
responsabile della morte del fratello solo per pigrizia. Vedano
dunque quanto sia grande la colpa in cui si avvolgono, coloro che
mentre riconoscono le ferite dei cuori trascurano di curarle col
taglio delle parole. Perciò è anche ben detto per mezzo del
profeta: Maledetto
chi tiene lontano la sua spada dal sangue (Ger.
48, 10), poiché tener lontano la spada dal sangue corrisponde a
trattenere la parola della predicazione dall’uccidere la vita
carnale. E di questa spada di nuovo è detto: E
la mia spada mangerà le carni (Deut.
32, 42). Costoro dunque, quando nascondono presso chi sé la parola
della predicazione, ascoltino con terrore le divine. sentenze
pronunciate contro di loro. Ascoltino che colui, il quale non volle
commerciare il talento, lo perdette insieme con la sentenza di
condanna (cf. Mt. 25, 24 ss.). Ascoltino come Paolo tanto più si
considerò puro del sangue dei suoi prossimi, quanto più non li
risparmiò dal colpire i loro vizi dicendo: Affermo
davanti a voi, oggi, che
sono puro del sangue di tutti: infatti
non mi sottrassi dall’annunziarvi ogni consigliò di Dio (Atti,
20, 26-27). Ascoltino ciò che Giovanni ammonisce con voce angelica,
quando è detto: Chi
ascolta dica: Vieni (Ap.
22, 17); certo, perché colui nel quale si insinua una voce interiore
chiami altri e trascini là, dove egli stesso è rapito, affinché
non trovi le porte chiuse, nonostante sia stato invitato, se si
avvicina a mani vuote a colui che lo chiama. Ascoltino Isaia, il
quale, poiché aveva taciuto dal ministero della parola, illuminato
dalla luce celeste, con grande voce di pentimento, rimprovera se
stesso dicendo: Guai
a me, perché
ho taciuto (Is.
5, 5). Ascoltino ciò che è promesso per mezzo di Salomone, cioè
che sarà moltiplicata la scienza della predicazione in colui che
avendola già ottenuta non si trattiene da essa per il vizio della
indolenza. Dice infatti: L’anima
che benedice sarà impinguata e chi inebria è lui pure
inebriato (Prov.
11, 25). Infatti, chi benedice esteriormente predicando,
accoglie la pinguedine della crescita interiore; e mentre non cessa
di inebriare l’animo degli ascoltatori col vino della Parola,
cresce a sua volta inebriato dalla bevanda del dono così
moltiplicato. Ascoltino ciò che David offri in dono a Dio, poiché
non nascose la grazia della predicazione che aveva ricevuto,
dicendo: Ecco, non
terrò chiuse le mie labbra, Signore, tu
lo sai: non
ho nascosto nel mio cuore la tua giustizia, la
tua verità e la tua salvezza ho proclamato (Sal.
39, 10-11). Ascoltino ciò che si dice nel colloquio dello sposo con
la sposa: Tu
che abiti nei giardini, gli
amici [ti] ascoltano; fammi
udire la tua voce (Cant.
8, 13). È la Chiesa che abita nei giardini, e conserva le
pianticelle ben coltivate delle virtù per un rigoglio interiore. E
gli amici che ascoltano la sua voce sono gli eletti e coloro che
desiderano la parola della sua predicazione. Ed anche lo sposo
desidera di udire quella voce, poiché anch’egli anela alla sua
predicazione attraverso le anime dei suoi eletti. Ascoltino come
Mosé, vedendo che Dio era adirato col popolo e ordinando di dare il
via alla vendetta, con la spada, dichiarò che erano dalla parte di
Dio coloro che senza esitazione avrebbero colpito il delitto dei
peccatori, dicendo: Se
uno è del Signore, si
unisca a me; ponga
ogni uomo la spada sulla sua coscia: andate
e tornate da porta a porta attraversando l’accampamento nel mezzo e
ciascuno uccida il fratello e l’amico e il suo prossimo (Es.
32, 27). Porre la spada sulla coscia è anteporre l’amore
della predicazione ai piaceri della carne, poiché, quando uno
desidera di parlare di cose sante, bisogna che abbia cura di
sottomettere le suggestioni illecite. Andare, poi, da una porta
all’altra è passare col rimprovero da un vizio all’altro, poiché
da essi entra la morte per l’anima. Attraversare il campo nel mezzo
significa vivere nella Chiesa con tanto disinteresse che colui il
quale rimprovera le colpe dei peccatori non si deve piegare a
favorire alcuno. Perciò giustamente si aggiunge: L’uomo
forte uccida il fratello, l’amico
e il suo prossimo. Cioè,
uccide il fratello, l’amico, il prossimo, colui che quando scopre
qualcosa degno di punizione, non risparmia dalla spada del rimprovero
neppure coloro che ama per legame di parentela. Se dunque è detto
appartenente a Dio colui che è eccitato dallo zelo dell’amore
divino a colpire i vizi, negano certamente di essere di Dio coloro
che rifiutano di rimproverare, in quanto possono, la vita di uomini
carnali. Al contrario, coloro ai quali, o una imperfezione naturale o
l’età proibisce l’ufficio della predicazione e tuttavia vi sono
spinti dall’irruenza, bisogna ammonirli a non tagliarsi la via di
un miglioramento successivo coll’arrogarsi, nella loro irruenza, il
peso di un ufficio così grave; e a non perdere anche ciò che
avrebbero potuto compiere, prima o poi ma al tempo giusto,
coll’impadronirsi, fuori tempo, di ciò di cui non sono capaci; e
quindi di non mostrare di avere giustamente perduto questa scienza
della predicazione, perché si sono sforzati a ostentarla
impropriamente. Bisogna ammonirli a considerare che, se i piccoli
degli uccelli vogliono volare prima di avere tutte le penne, dal
luogo che abbandonano, nella brama di salire in alto, precipitano nel
profondo. Bisogna ammonirli a considerare che, se si pone il peso di
una travatura sopra strutture recenti e non ancora consolidate, non
si fabbrica una abitazione ma un crollo. Bisogna ammonirli a
considerare che se le donne partorissero i figli concepiti prima che
fossero pienamente formati, non riempirebbero le case, ma le tombe. È
perciò, infatti, che la Verità stessa, che pure avrebbe potuto dare
subito una tale forza a chi voleva, per lasciare un esempio a quelli
che sarebbero venuti in seguito, perché non avessero la presunzione
di predicare quando non fossero ancora in grado di farlo, dopo avere
pienamente istruito i discepoli sulla virtù della predicazione,
aggiunse immediatamente: Voi
però rimanete nella città finché siate rivestiti della virtù
dall’alto (Lc.
24, 49). Dunque noi restiamo in città se ci chiudiamo nel
chiostro del nostro animo per non andare vagando coi discorsi
all’esterno; e usciamo invece fuori di noi stessi per istruire
anche gli altri, solo allora quando ci siamo rivestiti pienamente
della virtù divina. Perciò è detto per mezzo di un
sapiente: Giovane, parla
solo se ti è proprio necessario, e
se sei interrogato due volte, allora
incomincia a parlare (Sir.
32, 10). È perciò che il medesimo nostro Redentore, pur essendo
creatore e sempre, nella manifestazione della sua potenza, dottore
degli angeli, nei cieli; in terra, non volle essere maestro degli
uomini prima dei trent’anni; ciò evidentemente per infondere nei
precipitosi la forza di un sanissimo timore, in quanto anch’egli
stesso che non avrebbe potuto cadere, non predicava la grazia di una
vita perfetta se non dopo avere compiuto l’età; poiché sta
scritto: Quando
ebbe dodici anni, il
bambino Gesù rimase a Gerusalemme (Lc.
2, 42), e poco dopo si aggiunge di lui, il quale era stato
ricercato dai genitori: Lo
trovarono nel Tempio che sedeva in mezzo ai dottori, li
ascoltava e interrogava (Lc.
2, 46). Dunque, bisogna considerare attentamente che, quando si parla
di Gesù dodicenne che sedeva in mezzo ai dottori, si dice che viene
trovato a interrogare, non a insegnare. Con questi esempi,
evidentemente, si vuole dimostrare che nessuno, che non ne abbia la
forza, deve osare insegnare, se quel bambino, con le sue domande,
volle essere istruito; lui, che per la potenza della sua divinità
aveva dispensato la parola della scienza ai suoi stessi dottori. Ma
quando per mezzo di Paolo si dice al discepolo: Ordina
queste cose e insegna; nessuno
disprezzi la tua adolescenza (1
Tim. 4, 11-12), dobbiamo intendere che, nel discorso sacro, talvolta
la giovinezza è chiamata adolescenza. E ciò si dimostra subito
citando ad esempio le parole di Salomone: Gioisci
giovane, nella
tua adolescenza (Qo.
11, 9). Infatti se non avesse inteso l’una e l’altra come
una cosa sola, non avrebbe chiamato giovane colui che ammoniva nella
sua adolescenza.
26
— Come bisogna ammonire coloro a cui tutto, e
coloro a cui nulla accade secondo la loro volontà
Diverso
è il modo di ammonire coloro che prosperano nei beni temporali, in
tutto quanto desiderano, e coloro che, pure accesi di desiderio delle
cose mondane, durano la fatica di una pesante fortuna avversa.
Infatti, i primi bisogna ammonirli a non trascurare di cercare colui
che dà, dal momento che hanno tutto quanto basta al loro desiderio;
e a non fissare il proprio animo nelle cose che sono loro date, così
da amare il cammino verso la patria, invece che la patria stessa; a
non mutare gli aiuti ricevuti per il viaggio in ostacoli al
raggiungimento della meta e, dilettati dalla luce notturna della
luna, a non rifuggire dalla vista luminosa del sole. Così, bisogna
ammonirli a non credere che tutti quanti i beni che conseguono in
questo mondo siano il premio di quel che hanno meritato, e non,
invece, sollievo dalla sventura; levino la mente contro i favori del
mondo, per non soccombere in essi col cuore tutto preso dal loro
diletto. Infatti, chiunque nella considerazione del suo cuore non
reprime la prosperità di cui gode con l’amore di una migliore
vita, rende i vantaggi di una vita che passa occasione di una morte
perpetua. È perciò infatti che coloro i quali si rallegrano dei
successi di questo mondo vengono rimproverati, in persona degli
Idumei che si lasciarono vincere dalla loro prosperità, quando è
detto: Si
presero la mia terra in eredità con gioia, con
tutto il cuore, con
tutta l’anima (Ez.
36, 5). E da queste parole si può considerare che non è solamente
perché godono, ma è perché godono con tutto il cuore e con tutta
l’anima che vengono colpiti con un severo rimprovero. Perciò dice
Salomone: Il
rifiuto dei piccoli li ucciderà e la prosperità degli stolti li
perderà (Prov.
1, 32). Perciò Paolo ammonisce dicendo: Chi
compra come se non possedesse, chi
usa di questo mondo come se non ne usasse (1
Cor. 7, 30). Ciò, per dire che quanto abbiamo in abbondanza
deve servirci esteriormente così da non distoglierci l’animo
dall’amore della gioia celeste. Le cose che ci offrono un aiuto,
finché siamo nell’esilio, non indeboliscano in noi il lutto
dell’intimo stato di pellegrini; e non godiamo, come gente felice,
di beni passeggeri, noi che ora ci vediamo infelici, lontano da
quelli eterni. È perciò infatti che la Chiesa dice, con la voce
degli eletti: La
sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia (Cant.
2, 6). Dio ha posto la sua sinistra, cioè la prosperità della
vita presente, sotto il capo, e la preme la tensione verso l’amore
sommo; ma la destra di Dio l’abbraccia poiché la Chiesa nella
offerta di sé è tutta contenuta nella sua eterna beatitudine.
Perciò ancora è detto per mezzo di Salomone: Lunghezza
di giorni nella sua destra, e
nella sua sinistra le sue ricchezze e la sua gloria (Prov.
3, 16). E insegna, così, come si debbano usare ricchezze e gloria
che egli pone nella mano sinistra. Perciò dice il salmista: La tua
destra mi fa salvo (Sal. 107, 7). Infatti non dice mano, ma destra,
evidentemente per indicare, dicendo destra, che era la salvezza
eterna che egli cercava. Perciò ancora è scritto: La
tua destra Signore ha infranto i nemici (Es.
15, 6. LXX); infatti i nemici di Dio, quantunque nella sua
sinistra si avvantaggino, dalla destra sono infranti, poiché per lo
pin la vita presente innalza i malvagi, ma l’avvento della felicità
eterna li condanna. Bisogna ammonire coloro che godono della
prosperità in questo mondo, a considerare accortamente che la
prosperità di questa vita talvolta è data proprio per incitare ad
una vita migliore e altra volta invece per una più piena dannazione
eterna. È perciò infatti che viene promessa al popolo
israelita la terra di Canaan, perché prima o poi sia incitato alle
speranze eterne. Né d’altra parte quel rozzo popolo avrebbe
creduto alle promesse di Dio,. riguardanti il futuro, se non avesse
ricevuto, da colui che le aveva fatte, qualcosa anche al presente.
Dunque, per dare una più solida certezza alla [sua] fede nei beni
eterni, non è solo con la speranza che lo si attira a quei beni, ma
è pure coi beni temporali che lo si conduce a sperare. E ciò è
chiaramente attestato dal salmista che dice: Diede
ad essi i territori delle genti e possedettero il frutto delle
fatiche di quei popoli, perché
custodissero i suoi decreti e ricercassero la sua legge (Sal.
104, 44). Ma quando l’anima dell’uomo non corrisponde con le
buone opere a Dio, che è largo verso di essa, proprio a causa di
quei beni che si crede le siano alimento alla pietà, essa viene più
giustamente condannata. Perciò, infatti, si dice ancora per mezzo
del salmista: Li
hai abbattuti mentre si consolavano (Sal.
72, 18). Poiché, quando i reprobi non corrispondono ai doni di Dio
con opere di giustizia, quando abbandonano completamente se stessi in
questa vita e si lasciano andare alla sovrabbondanza del benessere,
ciò per cui esteriormente hanno successo è la causa della loro
caduta spirituale. Ed è perciò che al ricco tormentato nell’inferno
si dice: Hai
ricevuto beni nella tua vita (Lc.
16, 25). Infatti anche il cattivo riceve beni in questa vita, proprio
per questo, cioè per ricevere più pienamente il male nell’altra;
poiché qui non si è convertito neppure per mezzo di quei beni. Al
contrario, coloro che pure accesi di desiderio delle cose mondane,
durano la fatica di una pesante fortuna avversa, bisogna ammonirli ad
apprezzare con attenta considerazione, con quanta grazia il Creatore,
che dispone tutto, vigila su di loro, non permettendo che si lascino
andare ai loro desideri. Giacché, al malato senza speranza di
guarigione, il medico concede di prendere tutto ciò che desidera, ma
chi si crede possa guarire, si proibiscono molte cose di cui egli
sente voglia. Inoltre, non diamo soldi in mano ai bambini, ai quali
pure riserviamo tutto intero il patrimonio in quanto ne sono eredi.
Perciò dunque, gioiscano della speranza della eredità eterna,
coloro che sono umiliati dall’avversità della vita temporale,
perché, se la dispensazione divina non li riguardasse come fatti per
la salvezza eterna, non li frenerebbe sotto il governo della
disciplina. Pertanto bisogna ammonire coloro che, accesi dal
desiderio di beni temporali, durano la fatica di una pesante fortuna
avversa, a considerare con premura che spesso anche i giusti, quando
la potenza mondana li esalta, sono afferrati come in un laccio dalla
colpa. Così, come abbiamo già detto nella prima parte di
quest’opera (I, par. 3), David amato da Dio fu più giusto nel
periodo del suo servizio che quando giunse al regno. Infatti, da
servo, per amore della giustizia, ebbe timore di colpire l’avversario
che aveva nelle mani (cf. 1 Sam. 24, 18); da re, invece, indotto
dalla lussuria, uccise un soldato devoto con studiata frode (cf. 2
Sam. 11, 7). Chi, dunque, potrà cercare senza danno ricchezze,
potere e gloria se queste cose furono dannose perfino a colui che le
ebbe senza averle cercate? Chi, in mezzo ad esse, potrà salvarsi
senza correre la fatica di un grande pericolo, se colui che era stato
preparato ad esse dalla scelta di Dio rimase turbato dalla colpa
che vi si era insinuata? Bisogna ammonirli a considerare come non si
ricorda che Salomone — il quale viene descritto come chi cadde
nell’idolatria pur dopo aver ricevuto tanta sapienza (1 Re, 11, 4
ss.) — avesse avuto in questa vita alcuna avversità prima di
cadere, ma dopo che gli fu concessa la sapienza, lasciò andare
completamente il suo cuore, che nessuna tribolazione, neppure la più
piccola, aveva custodito con la sua disciplina.
27
— Come si devono ammonire i coniugati e i celibi
Diverso
è il modo di ammonire quelli che sono vincolati dal matrimonio, e
quelli che sono liberi dal vincolo matrimoniale. Bisogna ammonire i
primi, quando pensano vicendevolmente l’uno all’altro, a
studiarsi di piacere al coniuge in modo da non dispiacere al
Creatore; e trattino le cose di questo mondo così: da non
tralasciare di aspirare a quelle che sono di Dio; e godano dei beni
presenti così da temere tuttavia, con viva attenzione, i mali
eterni; e piangano i mali presenti in modo dà fissare però, con
intatta consolazione, la loro speranza nei beni eterni, dal momento
che sanno che ciò che fanno passa, e ciò cui aspirano resta; né i
mali del mondo spezzino il loro cuore; poiché la speranza dei beni
eterni lo conforta; né i beni della vita presente lo ingannino,
poiché lo rattrista il timore dei mali del giudizio futuro. E così,
l’animo degli sposi cristiani è insieme debole e fedele, tale che
non è capace di disprezzare pienamente tutti i beni temporali, e
tuttavia è capace di unirsi, nel desiderio, alle realtà eterne; e
quantunque per ora giaccia nel piacere della carne, si rinvigorisce
con l’alimento della speranza celeste. Dunque se nel viaggio usa
delle cose del mondo, spera in quelle di Dio come frutto della meta
raggiunta; e non si consegni interamente a ciò che fa per non cadere
del tutto da ciò che avrebbe dovuto sperare con forza. Paolo esprime
bene e brevemente ciò, dicendo: Chi
ha moglie sia come se non l’avesse; e
chi piange come se non piangesse; e
chi gode come se non godesse (1
Cor. 7, 29-30). Poiché ha moglie come se non l’avesse, colui che
con lei usa della consolazione della carne, in modo che mai,
tuttavia, per amore di lei, si piega, dalla rettitudine della
migliore intenzione, ad azioni depravate. Ha moglie come se non
l’avesse, colui che, vedendo come tutte le cose sono transitorie,
tollera per necessità la cura della carne, ma lo spirito attende con
tutto il desiderio le gioie eterne. Piangere non piangendo è
piangere le avversità esteriori sapendo tuttavia godere della
consolazione della speranza eterna. E, ancora, godere non godendo è
innalzare tanto l’animo dalle bassezze, che esso non cessi mai di
temere le realtà supreme. E qui, appropriatamente, poco dopo
aggiunge pure: Passa, infatti, la
figura di questo mondo (1
Cor. 7, 31). Come se dicesse apertamente: Non amate stabilmente
il mondo, dal momento che ciò stesso che amate non può rimanere;
vanamente fissate il cuore come se foste destinati a rimanere, mentre
fugge colui stesso che amate. Bisogna ammonire i coniugi a tollerare
a vicenda, con pazienza, ciò in cui talvolta l’uno dispiace
all’altro; e a salvarsi esortandosi a vicenda. Infatti è
scritto: Portate
a vicenda i vostri pesi e così adempirete la legge di Cristo (Gal.
6, 2). E la legge di Cristo è la carità; poiché per essa egli ci
ha donato largamente i suoi beni e con mitezza ha portato i
nostri mali. Dunque, adempiremo la legge di Cristo come i suoi
imitatori quando offriremo benignamente i nostri beni e sosterremo
con spirito di pietà i mali del nostro prossimo. Bisogna ammonirli
pure a badare, ciascuno di essi, non tanto a ciò che l’uno deve
sopportare dall’altro quanto a ciò che l’altro deve sopportare
di suo. Se infatti ciascuno considera i pesi che lui fa portare,
porta a sua volta più leggermente i pesi altrui che deve sostenere.
Bisogna ammonire gli sposi a ricordarsi che essi sono uniti allo
scopo di avere figli, e quando, servendo ad una unione sfrenata,
mutano il momento della propagazione in pratica del piacere,
considerino che, anche se ciò non avviene al di fuori dell’unione
matrimoniale, tuttavia nel matrimonio stesso essi oltrepassano i
diritti del matrimonio. Per cui è necessario che, con frequenti
orazioni, cancellino ciò che, per la mescolanza col piacere, macchia
la bellezza dell’atto coniugale. È perciò infatti che l’Apostolo,
esperto di medicina celeste, non ammaestrò tanto i sani, quanto
mostrò i rimedi ai malati dicendo: Quanto
a ciò che mi avete scritto: È
bene per l’uomo non toccare donna; ma
per rimedio alla fornicazione ciascuno abbia la propria moglie e
ciascuna abbia il proprio marito (1
Cor. 7, 1-2). Ma se mise avanti il timore della fornicazione,
certo non stabili il precetto per quelli che stanno saldi in piedi,
bensì mostrò un letto a coloro che cadono perché non rovinassero
in terra. Perciò ancora, ai vacillanti, aggiunse: Il
marito dia alla moglie ciò che le deve e così la moglie al
marito (1 Cor.
7, 3); ma, nel fare ad essi qualche concessione riguardo al
piacere, nell’ambito di una onestissima unione, aggiunse: Ma
questo lo dico per indulgenza, non
per comando (1
Cor. 7, 6); e accenna evidentemente che si tratta di colpa; poiché
parla di un oggetto di indulgenza, ma di colpa tale che tanto più
presto è condonata in quanto con essa non si compie qualcosa di
illecito in sé, ma piuttosto non si contiene, in un ambito di
moderazione, ciò che di per sé è lecito. Ed è ciò che Lot
esprime bene in se stesso quando fugge Sodoma in fiamme e tuttavia,
trovando Segor, non sali subito la montagna (cf. Gen. 19, 30).
Fuggire Sodoma in fiamme significa rinunciare agli incendi illeciti
della carne, e l’altezza dei monti è la purezza delle persone
continenti. Ora, sono certamente come chi sta sul monte perfino
coloro che, pur aderendo all’unione carnale, tuttavia non si
abbandonano ad alcun piacere della carne al di fuori di quell’atto
compiuto per avere figli. Stare sul monte, cioè, significa non
cercare nella carne se non il frutto della generazione. Stare sul
monte significa non aderire carnalmente alla carne. Ma poiché ci
sono molti che rinunciano ai peccati della carne e tuttavia, posti
nello stato matrimoniale; non ne osservano solamente i diritti del
suo debito uso, usci appunto Lot da Sodoma e tuttavia non giunse
subito sui monti, a indicare che quando già è abbandonata la vita
degna di condanna, l’altezza della continenza coniugale non è però
ancora raggiunta in tutta la sua perfezione. Ma c’è nel mezzo la
città di Segor, per salvare il debole che fugge, poiché
naturalmente, quando i coniugi si uniscono a causa dell’incontinenza,
fuggono la caduta del peccato e tuttavia si salvano per
condiscendenza. È come se trovassero una piccola città che li
difende dal fuoco, poiché una tale vita coniugale non è certo
mirabile per la virtù e tuttavia è sicura dal castigo. Perciò il
medesimo Lot dice all’angelo: C’è
qui vicino una piccola città in cui posso rifugiarmi e mi salverò
in essa. Non
è forse modesta, e
la mia anima vivrà in essa? (Gen.
19, 20). Dunque, è detta vicino e tuttavia è indicata come sicura
per la salvezza, poiché la vita coniugale non è separata di molto
dal mondo e tuttavia non è estranea alla gioia della salvezza. I
coniugi però, in tale stato, custodiscono la loro vita come in una
piccola città, quando intercedono per se stessi con suppliche
assidue. Perciò viene detto anche al medesimo Lot, per mezzo
dell’angelo: Ecco, ho
ascoltato le tue preghiere anche in questo: non
distruggerò la città in favore della quale hai parlato (Gen.
19, 21); poiché è chiaro che non è condannata quella vita
matrimoniale in cui i coniugi si rivolgono a Dio con la supplica,
riguardo alla quale anche Paolo ammonisce dicendo: Non
privatevi l’uno dell’altro se non d’accordo e per un tempo
stabilito, per
essere liberi per la preghiera (1
Cor. 7, 5). Al contrario, coloro che non sono legati nel
matrimonio bisogna ammonirli a servire tanto pin rettamente i
comandamenti divini quanto meno li inclina alle cure del mondo il
giogo dell’unione carnale; e poiché non sono gravati dal peso
lecito del matrimonio, non gravi su di loro il peso illecito della
preoccupazione terrena, ma l’ultimo giorno li trovi tanto più
pronti quanto più leggeri; e poiché, liberi come sono, possono
compiere opere tanto più meritorie, non le trascurino così da
meritare, per questo, supplizi tanto più gravi. Ascoltino
l’Apostolo, il quale, volendo formare alcuni alla grazia del
celibato, non disprezzò il matrimonio, ma respinse le cure mondane
che nascono da esso dicendo: Ciò
lo dico per vostra utilità, non
per gettarvi un laccio; ma
per indicarvi ciò che è onesto e offre la possibilità di servire
Dio senza impedimento (1
Cor. 7, 35). Dal matrimonio, dunque, procedono le preoccupazioni
terrene, e perciò il maestro delle genti volle persuadere i suoi
ascoltatori a cose migliori perché non si legassero alla
preoccupazione terrena. Pertanto, il celibe, trattenuto
dall’impedimento delle cure temporali, è uno che non si è
sottoposto al matrimonio e tuttavia non è sfuggito ai suoi pesi.
Bisogna ammonire i celibi a non pensare di potersi unire a donne di
liberi costumi, senza incorrere nel giudizio di condanna. Infatti,
quando Paolo inserì il vizio della fornicazione fra tanti peccati
esecrabili, indicò la sua gravità dicendo: Né
i fornicatori né gli idolatri né gli adulteri né gli effeminati né
gli omosessuali né i ladri né gli avari né gli ubriachi né i
maldicenti né i rapaci possiederanno il regno di Dio (1
Cor. 6, 9-10). E ancora: I
fornicatori e gli adulteri li giudicherà Dio (Ebr.
13, 4). Pertanto se sopportano le. tempeste delle tentazioni con
pericolo della salvezza, bisogna ammonirli a cercare il porto del
matrimonio, infatti è scritto: È meglio
sposarsi che ardere (1
Cor. 7, 9). Non è colpa se si sposano, purché in precedenza
non si siano impegnati con voti a uno stato di vita più perfetto.
Infatti, chi si era proposto un bene maggiore, rende illecito il bene
minore che prima gli sarebbe stato lecito. Perciò è
scritto: Nessuno
che mette la mano all’aratro e si volta a guardare indietro è
adatto al regno dei cieli (Lc.
9, 62). Dunque, chi si era rivolto a un interesse più forte è
convinto a guardare indietro se, abbandonati i beni maggiori, ripiega
sui minimi.
28
— Come bisogna ammonire quelli che hanno esperienza dei
peccati della carne e quelli che non l’hanno
Diverso
è il modo di ammonire coloro che conoscono i peccati della carne e
quelli che ne sono ignari. Quelli che ne hanno esperienza, bisogna
ammonirli a temere il mare, almeno dopo il naufragio, e a guardarsi
con orrore dai pericoli della loro perdizione che già conoscono; ed
essi, che sono stati salvati dalla pietà di Dio dopo avere commesso
il male, non debbano morire ripetendolo malvagiamente. Così,
all’anima che pecca e non cessa mai dal peccare è detto: Sei
divenuta sfrontata come una meretrice e non vuoi arrossire (Ger.
3, 3). Pertanto bisogna ammonirli, se non hanno voluto
conservare integri i beni naturali ricevuti, ad applicarsi, a
riparare almeno quelli infranti. È assolutamente necessario, per
loro, considerare quanti sono quelli che, in un così grande numero
di fedeli, si custodiscono illibati e convertono gli altri
dall’errore. Come pensano di difendersi costoro se, mentre altri
restano saldi nella loro integrità, essi non rinsaviscono neppure
dopo avere sentito il danno? Come pensano che potranno difendersi se,
mentre molti conducono con sé altri al Regno, essi non riconducono
neppure se stessi al Signore che li attende? Bisogna ammonirli a
considerare i peccati passati e ad evitare i futuri. Perciò, il
Signore, per mezzo del profeta, ricorda alle menti corrotte in questo
mondo — rappresentate dalla Giudea — le colpe commesse, affinché
arrossiscano di contaminarsi con colpe future, dicendo: Hanno
fornicato in Egitto, hanno
fornicato nella loro adolescenza; là
fu compresso il loro petto e furono violati i loro seni
verginali (Ez.
23, 3). In Egitto viene compresso il petto, quando la volontà
del cuore dell’uomo soggiace al turpe desiderio di questo mondo. In
Egitto vengono violati i seni verginali, quando i sensi naturali
ancora integri in se stessi, restano viziati dalla corruzione della
concupiscenza che preme. Bisogna ammonire coloro che hanno esperienza
di peccati della carne a guardare con vigile cura, con, quanta
benevolenza Dio ci allarghi il seno della sua pietà, quando dopo il
peccato ritorniamo a Lui, là dove dice, per mezzo del profeta: Se
un uomo avrà rimandato la moglie ed essa andandosene prenderà un
altro marito, forse
egli tornerà ancora da lei? Non sarà stata macchiata e contaminata
quella donna? Ma tu hai fornicato con molti amanti, tuttavia
ritorna a me, dice
il Signore (Ger.
3, 1). Ecco, una donna fornicatrice e per questo abbandonata è
proposta come un esempio di giustizia; e a noi, se dopo la caduta
ritorniamo, non viene offerta giustizia ma pietà. Da ciò possiamo
renderci conto di quanto sia grande la iniquità con cui pecchiamo se
non torniamo a lui dopo il peccato, mentre lui ci risparmia con tanta
pietà quando ancora lo stiamo compiendo; o quale sarà l’indulgenza
per gli iniqui, che egli non cessa di chiamare dopo la colpa. Questa
misericordia della chiamata è ben espressa per mezzo del profeta
quando si dice all’uomo che si è ribellato: E
i tuoi occhi vedranno il tuo maestro e le tue orecchie udranno la
parola di chi ti ammonisce dietro le spalle (Is.
30, 20). Poiché il Signore ammoni di fronte il genere umano,
quando in paradiso, all’uomo appena creato, e ancor saldo nel suo
libero arbitrio, stabili quello che avrebbe potuto fare e non fare.
Ma l’uomo voltò le spalle di fronte a Dio, quando insuperbendo
disprezzò i suoi ordini. E tuttavia il Signore non l’abbandonò
nella superbia, lui che diede la legge per richiamarlo, mandò angeli
ad esortarlo e apparve egli stesso nella nostra carne mortale.
Dunque, stando dietro le nostre spalle, ci ammonisce, lui che anche
disprezzato ci chiamò a riottenere la grazia. Ciò che dunque poté
essere detto al profeta in generale per tutti gli uomini insieme, è
necessario sentirlo in particolare dei singoli. Infatti, quando uno
conosce i precetti della volontà di Dio, prima di commettere il
peccato è come se ascoltasse le parole del suo ammonimento standogli
di fronte. Ed è ancora stare davanti al suo volto, il non
disprezzare Dio col peccato. Ma quando, abbandonato il bene
dell’innocenza, l’uomo brama e sceglie l’iniquità, ha già
voltato le spalle al suo volto. E tuttavia ancora, standogli dietro
le spalle, il Signore lo segue e lo ammonisce e vuole persuaderlo,
anche dopo la colpa, a ritornare a lui. Richiama chi si è rivolto
indietro, non riguarda le colpe commesse, dilata il seno della sua
misericordia a colui che ritorna. Ascoltiamo dunque la voce che ci
ammonisce se, almeno dopo il peccato, ritorniamo al Signore che ci
invita. Se non vogliamo temere la giustizia, dobbiamo arrossire della
pietà di chi ci chiama perché è tanto più grave l’iniquità con
cui egli è disprezzato, quanto più, pur disprezzato, egli non
disdegna di chiamare ancora. Al contrario, bisogna ammonire coloro
che non hanno esperienza di peccati della carne, a temere con tanta
maggior cura di rovinare nel precipizio, quanto più in alto stanno.
Bisogna ammonirli a sapere che quanto è più in vista il posto in
cui sono collocati, tanto più frequenti sono le frecce con cui
l’insidiatore li assale. Egli con tanto maggior ardore suole
rialzarsi, quanta più è la forza da cui si vede vinto; e tanto più
si indigna d’essere vinto, in quanto vede combattergli contro gli
integri accampamenti della carne inferma. Bisogna ammonirli a non
cessare di raccogliere i premi [della vittoria], e così, senza
dubbio, calpesteranno volentieri le fatiche delle tentazioni che
devono sopportare. Se infatti si mira alla felicità a cui si attinge
eternamente, diviene lieve ciò che si fatica ed è però passeggero.
Ascoltino ciò che è detto per mezzo del profeta: Queste
cose dice il Signore agli eunuchi che hanno osservato i miei
sabati, che
hanno scelto ciò che io voglio e hanno mantenuto il mio patto: darò
loro nella mia casa e nelle mie mura un luogo e un nome migliore che
ai figli e alle figlie (Is.
56, 4-5). Sono eunuchi coloro che, trattenuti i moti della
carne, tagliano in se stessi l’amore dell’opera iniqua. E quale
sia il posto che essi hanno presso il Padre, è manifesto, poiché
nella casa del Padre, cioè nella dimora eterna, essi sono preferiti
anche ai figli. Ascoltino ciò che è detto per mezzo di
Giovanni: Questi
sono coloro che non si sono contaminati con donne: infatti
sono vergini e seguono l’Agnello dovunque vada (Ap.
14, 4). E cantano quel cantico che nessuno può pronunciare se non
quei centoquarantaquattromila. Cantare poi, loro soli, il canto
all’Agnello è godere con lui in eterno, sopra tutti i fedeli,
anche dell’incorruzione della carne. E che tuttavia gli altri
eletti possano sentire il cantico, pur non potendo pronunciarlo, è
perché la carità li fa lieti della eccelsa beatitudine di quelli,
quantunque loro non possano raggiungerla. Ascoltino, gli ignari dei
peccati della carne, ciò che la Verità stessa dice di questa
integrità: Non
tutti comprendono questa parola (Mt.
19, 11). Accenna alla sua grandezza negando che sia di tutti; e
avvertendo che difficilmente è compresa, fa intendere a chi ascolta
con quanta cautela, quando si sia compresa, debba essere conservata.
Bisogna dunque ammonire coloro che non hanno esperienza di peccati
della carne, a sapere che la verginità è superiore al matrimonio, e
tuttavia a non esaltarsi nei confronti degli sposati affinché,
scegliendo la verginità e posponendosi agli altri, non abbandonino
ciò che stimano il meglio e si custodiscano dall’esaltarsi
vanamente. Bisogna ammonirli a considerare che spesso la vita delle
persone continenti deve arrossire del confronto con l’operosità di
chi vive nel secolo, quando questi operano oltre ciò che è
richiesto dalla loro situazione, e quelli non eccitano il loro cuore
in corrispondenza al loro stato. Perciò è ben detto per mezzo del
profeta: Arrossisci, Sidone, dice
il mare (Is.
23, 4). Infatti, quando la vita di colui che appare ben difeso
e, in un certo senso, stabile, viene riprovata nel confronto con
quella di chi vive nel secolo, sbattuto dai flutti di questo mondo, è
come se Sidone fosse indotta alla vergogna dalla voce del mare.
Giacché spesso molti che, dopo aver commesso peccati della carne,
ritornano al Signore, si prestano con tanto più ardore nelle buone
opere, quanto più si vedono degni di condanna per quelle cattive. E
d’altra parte, certuni che perseverano nell’integrità del corpo,
vedendo di avere meno di che dolersi, pensano che sia pienamente
sufficiente, quanto a loro, l’innocenza della propria vita e non
infiammano il loro spirito con alcuno stimolo che ne ecciti il
fervore. Così accade per lo più che sia più gradita a Dio una vita
ardente d’amore dopo il peccato, che una innocenza giacente nel
torpore della propria sicurezza. Perciò è detto per voce del
Giudice: Le
saranno rimessi i molti peccati perché ha molto
amato (Lc. 7,
47); e: Ci sarà
più gioia in cielo per un peccatore pentito che per novantanove
giusti per i quali non c’è bisogno di penitenza (Lc.
15, 7). E lo possiamo capire facilmente dalla stessa pratica se
pensiamo a come giudichiamo noi con la nostra mente: infatti noi
apprezziamo di più una terra che arata — dopo essere stata coperta
di spine — produce ricchi frutti, di quella che non ha mai avuto
spine e tuttavia, anche coltivata, produce messe sterile. Bisogna
ammonire gli ignari del peccato carnale, a non preferirsi agli altri
per via dell’eccellenza di uno stato superiore, quando ignorano
quanto siano migliori le opere di quelli dello stato inferiore,
poiché, nell’esame del giusto Giudice, la qualità delle azioni
muta i meriti dello stato di vita. Chi infatti — per trarre esempi
dalla realtà — non sa che nella natura delle gemme il carbonchio è
più prezioso del giacinto? Ma tuttavia, il colore ceruleo del
giacinto è preferito al pallido carbonchio, poiché ciò in cui
quello è inferiore per lo stato naturale viene avvalorato dalla
bellezza dell’aspetto, e questo, che per lo stato naturale è più
prezioso, viene oscurato dalla qualità del colore. Così dunque fra
gli uomini: alcuni, posti in uno stato superiore, sono peggiori:
altri, posti in uno stato inferiore, sono migliori: perché questi,
vivendo bene, vanno oltre la sorte della condizione più bassa;
mentre quelli diminuiscono il merito della condizione superiore,
perché non le corrispondono con i costumi.
29
— Come bisogna ammonire coloro che piangono peccati di
opere e coloro che piangono peccati solo di pensiero
Diverso
è il modo di ammonire coloro che piangono peccati di opere, e coloro
che piangono peccati di pensiero. Bisogna ammonire i primi a lavare
con un pianto perfetto i peccati compiuti, per non essere
maggiormente stretti dal debito dell’azione commessa, ma diminuire
col pianto la soddisfazione dovuta. Poiché è scritto: Ci
ha dato da bere lacrime in misura (Sal.
79, 6), per dire, cioè, che l’animo di ciascuno, nel suo
pentimento, beva tante lacrime di compunzione, quanto ricorda di
essersi inaridito lontano da Dio, nelle colpe. Bisogna ammonirli a
ricondurre incessantemente davanti ai propri occhi i peccati
commessi, e ad agire nella propria vita in modo che quelli non
debbano più essere veduti dal severo Giudice. Perciò David, quando
pregava dicendo: Distogli
i tuoi occhi dai miei peccati (Sal.
50, 11), poco sopra aveva detto: Il
mio delitto mi sta sempre davanti (Sal.
50, 5); come se dicesse: Chiedo di non guardare al mio peccato perché
io stesso non cesso di guardarlo. Perciò anche, per mezzo del
profeta, il Signore dice: E
non mi ricorderò dei tuoi peccati, ma
tu ricordateli (Is.
43, 25-26. LXX). Bisogna ammonirli a considerare i peccati uno
per uno, e mentre per ciascuno piangono la sozzura del loro errore,
con le lacrime purifichino insieme sé e quelli, interamente. Perciò
è detto bene, per mezzo di Geremia, pensando ai singoli peccati
della Giudea: Il
mio occhio ha fatto scendere acque divise (Lam.
3, 48); poiché noi facciamo scendere dagli occhi corsi d’acqua
divisi, quando spargiamo per ogni singolo peccato la sua parte di
lacrime. Infatti l’animo non prova dolore nello stesso unico
momento per tutti i peccati insieme, ma mentre la memoria è toccata
più acutamente ora dall’uno ora dall’altro, commovendosi per
ciascuno singolarmente, essa si purifica di tutti insieme. Bisogna
ammonirli a confidare con certezza nella misericordia che chiedono,
per non morire sotto la forza di una eccessiva afflizione. Poiché
infatti non sarebbe pietà, nel Signore, porre davanti agli occhi dei
peccatori i peccati da piangere, se per parte sua volesse poi
colpirli severamente. È evidente infatti, che egli ha voluto
sottrarre al suo giudizio coloro che ha fatto giudici di se stessi,
prevenendoli con la sua misericordia. Perciò infatti è
scritto: Preveniamo
il volto del Signore con la confessione (Sal.
94, 2). Perciò è detto per mezzo di Paolo: Se
ci giudicassimo da noi stessi non verremmo giudicati (1
Cor. 11, 31). E ancora bisogna ammonirli ad avere così quella
fiducia che viene dalla speranza, e tuttavia a non intorpidire in una
incauta sicurezza. Spesso, infatti, l’astuto avversario, quando
vede l’animo, che egli insidia col peccato, afflitto per la propria
rovina, lo seduce con gli allettamenti di una pestifera sicurezza.
Ciò è espresso in figura dove si ricorda l’episodio di Dina. È
scritto: Dina
usci per vedere le donne di quella regione; ma
quando la vide Sichem, figlio
di Emor eveo, principe
di quel paese, si
innamorò di lei e la rapi e dormi con lei violando la sua verginità
e la sua anima si uni con lei e alleviò con le carezze la sua
tristezza (Gen.
34, 1-3). E Dina esce per vedere le donne della regione straniera,
ogni volta che un’anima, trascurando l’oggetto del suo proprio
amore e curandosi di attività che le sono estranee, vaga al di fuori
della sua condizione e del suo proprio stato. E allora Sichem,
principe del paese, la viola, ovvero il diavolo, trovatala presa da
occupazioni esterne, la corrompe; e
la sua anima si uni con lei, poiché
la vede unita a sé nell’iniquità. E quando l’anima, rientrata
in sé dalla colpa, si accusa e tenta di piangere il peccato
commesso, allora il corruttore richiama ai suoi occhi le speranze e
le sicurezze vane, per sottrarla alla utile tristezza; perciò
giustamente si aggiunge: e
alleviò con le carezze la sua tristezza. Ora,
infatti, le parla dei più gravi peccati di altri; ora le dice che
quanto ha fatto non è niente e ora che Dio è misericordioso ora le
promette che ci sarà in seguito dell’altro tempo per fare
penitenza, affinché l’anima condotta attraverso questi inganni
tenga in sospeso l’intenzione del pentimento, e poiché, ora,
nessun peccato la rattrista, non riceva, poi, alcun bene, e sia,
allora, più pienamente sommersa dai supplizi, essa che, ora, gode
perfino nei peccati. Bisogna, invece, ammonire coloro che piangono
peccati di pensiero, a considerare accuratamente tra le pieghe
misteriose dell’animo, se hanno peccato solamente col piacere o
anche col consenso. Spesso, infatti, il cuore è tentato e trae
piacere dalla malizia della carne, e tuttavia contrasta con la
ragione a quella malizia; cosicché, nel segreto del pensiero, ciò
che piace rattrista, e ciò che rattrista piace. Ma talvolta l’animo
viene talmente assorbito nel baratro della tentazione da non
resisterle affatto, e, invece, da seguirla deliberatamente dove il
piacere lo spinge; e così che, se si offre la possibilità
esteriore, è pronto a consumare gli intimi desideri, attuandoli coi
fatti. E ciò non è più colpa di pensiero, quando la colpisce la
giusta punizione del severo Giudice, ma è peccato di opera, poiché
quantunque la mancanza della possibilità di attuazione distolga
esteriormente il peccato, nell’intimo, la volontà l’ha compiuto
con l’opera del consenso. Nel progenitore abbiamo imparato che sono
tre i modi con cui perfezioniamo la malizia di ogni colpa: la
suggestione, il piacere, il consenso. La prima si compie attraverso
il nemico, il secondo attraverso la carne, il terzo con lo spirito.
Infatti, l’insidiatore suggerisce il male, la carne si sottopone al
piacere e, all’ultimo, lo spirito vinto consente ad esso. In
effetti, il serpente suggerì il male, Eva, come carne, si sottomise
al piacere; Adamo, come spirito, vinto dalla suggestione e dal
piacere, acconsenti (cf. Gen. 3, 1 ss.). E così, riconosciamo il
peccato dalla suggestione, restiamo vinti dal piacere e ci leghiamo
col consenso. Pertanto, bisogna ammonire coloro che piangono peccati
di pensiero, a considerare con cura l’entità della loro caduta nel
peccato, affinché la misura del loro pianto corrisponda alla rovina
interiore che essi avvertono in se stessi e valga a risollevarli, e
non siano indotti ad attuare, con le opere, quei cattivi pensieri che
meno li affliggono. Ma soprattutto bisogna incutere timore in loro,
non però in modo che ne restino, anche per poco, spezzati. Poiché
spesso Dio misericordioso tanto più in fretta lava i peccati del
cuore, in quanto non permette che essi sfocino nelle opere; e il male
solamente pensato è più rapidamente sciolto, poiché non si lega
così strettamente all’effetto dell’opera. Perciò è detto bene
per mezzo del salmista: Dissi: confesserò
contro di me le mie iniquità al Signore e tu hai rimesso
l’empietà (Sal.
31, 3) del mio cuore. Egli infatti ha sottoposto l’empietà del
cuore, poiché ha indicato di voler confessare i peccati di pensiero.
E mentre dice: Dissi: confesserò, e
subito aggiunse: E
tu hai rimesso, mostra
quanto sia facile su di essi il perdono: mentre ancora si ripromette
di chiedere ha già ottenuto, perché, dato che la colpa non era
pervenuta all’atto, la penitenza non dovesse giungere al grado del
supplizio, ma l’afflizione del pensiero lavasse il cuore che solo
la malizia del pensiero aveva macchiato.
30
— Come bisogna ammonire coloro che non si astengono dai
peccati che piangono, e coloro che si astengono da quelli
commessi ma non li piangono
Diverso
è il modo di ammonire coloro che piangono i peccati commessi e
tuttavia non se ne staccano, e quelli che se ne staccano e tuttavia
non li piangono. Infatti, bisogna ammonire i primi a sapere
considerare con cura che invano si purificano piangendo, coloro che
si macchiano vivendo nel peccato, poiché si lavano con le lacrime
per poter ritornare, lavati, alla lordura. Perciò infatti è
scritto: Il
cane è ritornato al suo vomito e la scrofa lavata a rotolarsi nel
fango (2 Pt.
2, 22). Il cane, cioè, quando vomita rigetta certamente il cibo
che gli opprimeva lo stomaco, ma quando ritorna al vomito, di cui si
era alleggerito, si appesantisce di nuovo. E coloro che piangono i
peccati commessi, certamente rigettano, confessandola, la malizia con
cui si erano malamente saziati e che opprimeva l’intimo dell’animo,
ma la riprendono su di sé quando la ripetono dopo averla confessata.
E la scrofa, con l’arrotolarsi nel fango dopo essersi lavata,
ritorna più sporca di prima. E chi piange i peccati, e tuttavia non
rinuncia ad essi, si sottopone alla pena di una colpa maggiore,
poiché disprezza proprio quel perdono che poté ottenere con le
lacrime, ed è come se si rotolasse nell’acqua fangosa; poiché,
mentre sottrae al suo pianto la purezza della vita [ottenuta con
esso], davanti agli occhi di Dio rende sordide perfino quelle
lacrime. Perciò ancora è scritto: Non
dire due volte una parola nella preghiera (Sir.
7, 15); infatti, dire due volte una parola nella preghiera
corrisponde a commettere, dopo il pianto, ciò che è necessario
tornare a piangere. Perciò è detto per mezzo di
Isaia: Lavatevi, siate
puri (Is. 1,
16); infatti, chi non custodisce l’innocenza della vita dopo il
pianto, trascura di conservarsi puro dopo il lavacro. Pertanto, si
lavano e tuttavia non sono puri, coloro che non cessano di piangere i
peccati commessi, ma continuano a commettere azioni degne di pianto.
Perciò è detto, per mezzo di un sapiente: Se
uno si lava dopo aver toccato un morto e poi lo tocca di nuovo, che
cosa serve che si sia lavato? (Sir.
34, 30). Si lava, cioè, dopo aver toccato un morto, chi si
purifica col pianto dal peccato; ma tocca il morto dopo il lavacro,
colui che dopo le lacrime ripete la colpa. Bisogna ammonire coloro
che piangono i peccati commessi e tuttavia non se ne staccano, a
riconoscersi, davanti agli occhi del Giudice severo, simili a quelli
che si presentano di fronte a certi uomini e li blandiscono mostrando
grande sottomissione, ma allontanandosi procurano loro inimicizie e
danni con effetti atroci. Che cosa significa infatti piangere la
colpa se non mostrare a Dio l’umiltà della propria devozione? E
che cos’è comportarsi iniquamente dopo avere pianto il peccato, se
non praticare superba inimicizia verso colui che si era pregato? Così
attesta Giacomo che dice: Chi
vuole essere amico di questo secolo, si
costituisce nemico di Dio (Giac.
4, 4). Bisogna ammonire coloro che piangono i peccati e tuttavia
non se ne staccano, a considerare attentamente che per lo più tanto
inutilmente i cattivi si muovono a compunzione per la giustizia,
quanto spesso i buoni sono tentati al male senza danno. Avviene cioè
che, per una mirabile misura della loro disposizione interiore,
corrispondente ai loro meriti, quando quelli fanno qualcosa di buono
che tuttavia non portano a termine, assumono una superba fiducia,
perfino mentre continuano a compiere il male; e costoro — quando
vengono tentati dal male cui per altro non consentono — quanto più
la loro debolezza li fa esitanti, tanto più, attraverso l’umiltà,
puntano i passi del loro cuore, con fermezza e verità, alla
giustizia. Balaam, infatti, guardando agli attendamenti dei giusti
dice: Muoia la
mia anima la morte dei giusti e i miei ultimi momenti siano simili a
quelli di costoro (Num.
23, 10); ma quando si fu allontanato il tempo della compunzione,
offrì il suo consiglio contro la vita di coloro ai quali aveva
chiesto di divenire simile anche nella morte. E quando trovò
un’occasione per [soddisfare] la sua avarizia, subito dimenticò
tutto quanto aveva desiderato per sé nell’innocenza (cf. Ap. 2,
14). Perciò, invero, il maestro e predicatore delle genti, Paolo,
dice: Vedo
un’altra legge, nelle
mie membra, lottare
contro la legge dello spirito e condurmi prigioniero sotto la legge
del peccato che è nelle mie membra (Rom.
7, 23). Egli certamente viene tentato, proprio per essere più
fortemente consolidato nel bene dalla consapevolezza della propria
infermità. Com’è dunque che quello è portato alla compunzione e
tuttavia ciò non lo fa avvicinare alla giustizia; mentre questi è
tentato eppure la colpa non lo macchia, se non che — come
apertamente si manifesta — il bene incompiuto non giova ai cattivi
né il male non consumato non condanna i buoni? Al contrario, bisogna
ammonire coloro che si staccano dal peccato e però non lo piangono,
a non stimare perdonate quelle colpe che essi non purificano col
pianto, anche sé non le moltiplicano col loro agire. Infatti, uno
scrittore che cessa dallo scrivere non cancella ciò che ha scritto
in precedenza solo per il fatto di non aggiungervi altri scritti. Né
è sufficiente che uno che proferisce ingiurie taccia, per dare
soddisfazione, mentre è necessario che contraddica con parole di
umile sottomissione quelle pronunciate precedentemente con superbia.
Né un debitore è assolto perché non aggiunge debiti a debiti, ma
lo è se scioglie quelli con cui è legato. E cose, quando pecchiamo
nei confronti di Dio, non diamo soddisfazione solamente se cessiamo
di peccare, ma non facciano seguire anche le lacrime, di contro a
quei piaceri che abbiamo amato. Se infatti in questa vita non ci
fossimo macchiati di nessuna colpa di opere, la stessa nostra
innocenza, finché ancora siamo qui, non sarebbe sufficiente alla
nostra sicurezza, perché molte azioni illecite busserebbero alla
nostra anima; con quale pensiero, allora, si sente sicuro, uno che
per le colpe che ha commesso è testimone a se stesso di non essere
innocente? Né, d’altra parte, Dio si pasce delle nostre
sofferenze, ma invece cura le malattie dei peccati con medicamenti
contrari ad essi, affinché noi, che ci siamo allontanati, presi dal
diletto dei piaceri, ritorniamo amareggiati nel pianto e, dopo essere
caduti lasciandoci andare ad azioni illecite, ci rialziamo
trattenendoci anche da quelle lecite; e il cuore che era stato invaso
da una gioia insana, arda di una tristezza salutare: esso, che
l’esaltazione della superbia aveva ferito, sia curato
dall’abiezione di una vita umile. Perciò, infatti, è scritto: Ho
detto agli iniqui: non
agite iniquamente, e
ai peccatori: non
alzate la testa (Sal.
74, 5). E i peccatori alzano la testa se non si umiliano a penitenza
per la cognizione della propria iniquità. Perciò di nuovo è
detto: Un cuore
contrito e umiliato Dio non disprezza (Sal.
50, 19). Infatti, chi piange i peccati ma non se ne distacca,
spezza il suo cuore ma non si cura di umiliarlo; chi poi ha già
lasciato il peccato ma non lo piange, umilia già il cuore, ma
tuttavia rifiuta di spezzarlo. Perciò Paolo dice: Voi
foste tutte queste cose, ma
siete stati lavati, ma
siete stati santificati (1
Cor. 6, 11); perché, cioè, una vita più corretta santifica
coloro che l’afflizione delle lacrime, lavandoli, rende puri.
Perciò Pietro, vedendo alcuni atterriti dalla considerazione dei
loro peccati, li ammonisce dicendo: Fate
penitenza: ciascuno
di voi sia battezzato (Atti,
2, 38). Volendo parlare del Battesimo, premette il pianto della
penitenza, affinché, prima, versassero su di sé l’acqua della
propria afflizione e, quindi, si lavassero col sacramento del
Battesimo. Con quale pensiero vivono sicuri del perdono, coloro che
trascurano di piangere le colpe passate, quando lo stesso sommo
Pastore della Chiesa credette che si dovesse aggiungere anche la
penitenza al sacramento che principalmente estingue i peccati?
31
— Come bisogna ammonire coloro che lodano le azioni
illecite di cui sono consapevoli; e coloro che, pur
condannandole, tuttavia non se ne guardano
Diverso
è il modo di ammonire coloro che addirittura lodano le azioni
illecite che compiono; e quelli che accusano le loro depravazioni ma
non le evitano. Bisogna ammonire i primi, infatti, a considerare che
spesso peccano più con le parole che con le opere. Infatti, con le
opere compiono il male solo per se stessi; ma con la bocca offrono il
male a tante persone quante sono le menti di coloro che ascoltano e
che essi istruiscono con la lode dell’iniquità. Bisogna ammonirli
a temere almeno di seminare quei mali che essi trascurano di
sradicare. Bisogna ammonirli ad accontentarsi della loro personale
perdizione. E ancora — se non temono di essere malvagi —, bisogna
ammonirli ad arrossire almeno di mostrarsi ciò che sono. Spesso,
infatti, si fugge la colpa volendo nasconderla, perché se l’animo
arrossisce di apparire ciò che, tuttavia, non teme di essere,
avviene talvolta che arrossisca di essere ciò che evita di apparire.
Ma quando il peccatore si fa notare con impudenza, quanto più
liberamente compie qualsiasi mala azione, tanto più la considera
anche lecita, e quanto più la giudica lecita senza dubbio affonda in
essa maggiormente. Perciò è scritto: Hanno
reso pubblico il loro peccato, come
Sodoma, e
non l’hanno nascosto (Is.
3, 9). Infatti, se Sodoma avesse nascosto il proprio peccato, avrebbe
peccato ancora nel timore, ma aveva perduto fino in fondo i freni del
timore, essa che non andava a cercare le tenebre per commettere la
colpa. Perciò di nuovo è scritto: Il
grido di Sodoma e di Gomorra si è moltiplicato (Gen.
18, 20); poiché il peccato è detto voce quando
è azione colpevole, ma è detto anche grido quando
è commesso in libertà. Al contrario, bisogna ammonire coloro che
accusano le loro depravazioni, ma non le evitano, a considerare
prudentemente che cosa diranno a propria scusa di fronte al severo
giudizio di Dio, essi che, secondo il loro stesso giudizio, sono
inescusabili riguardo alle loro colpe. Così, che altro sono costoro,
se non accusatori di se stessi? Parlano contro le colpe, e con le
loro opere trascinano se stessi come rei. Bisogna ammonirli a vedere
che è dalla sentenza ancora nascosta del giudizio che la loro mente
è illuminata perché veda il male che commette; e tuttavia non cerca
di vincerlo. Così quanto meglio vede, tanto peggio va in rovina
perché riceve la luce dell’intelligenza e non abbandona le tenebre
dell’agire depravato. Infatti, poiché trascurano la scienza
ricevuta in aiuto, la voltano in testimonianza contro di sé; e con
quella luce di intelligenza, che certo avevano ricevuto per poter
cancellare i peccati, aumentano il castigo. La loro malizia, cioè,
quando opera quel male che pur discerne e giudica, degusta già qui
il giudizio futuro poiché, mentre si conserva colpevole per il
castigo eterno, neppure qui, intanto, è assolta dal suo stesso
esame; e tanto più gravi tormenti dovrà ricevere là, quanto più,
qui, non abbandona il male anche quando essa stessa lo condanna.
Perciò,
infatti, la Verità dice: Il servo, che conosceva
la volontà del suo Signore e non ha preparato né ha fatto secondo
la sua volontà, riceverà molte percosse (Lc.
12, 47). Perciò dice il salmista: Discendano vivi
nell’inferno (Sal. 54, 16). Perché vivi sanno e sentono
le cose che si compiono intorno a loro, i morti invece non possono
sentire nulla. Così scenderebbero morti nell’inferno se
commettessero il male senza conoscerlo, ma quando conoscono il male,
e ciononostante lo fanno, discendono nell’inferno di iniquità,
viventi, miseri e consapevoli.
32
— Come bisogna ammonire coloro che peccano per impulso e
coloro che peccano deliberatamente
Diverso
è il modo di ammonire coloro che sono vinti da una improvvisa
concupiscenza, e coloro che restano prigionieri della colpa con
deliberazione. Bisogna ammonire i primi a badare a se stessi, dovendo
affrontare quotidianamente la guerra della vita presente, e a
proteggere, con lo scudo di un pronto timore, il cuore che non è in
grado di prevedere le ferite che può ricevere; abbiano così grande
terrore dei dardi nascosti dell’insidioso nemico, e in un
combattimento tanto oscuro si trincerino negli accampamenti del
cuore, con una attenzione continua. Infatti, se il cuore è
abbandonato dalla sollecita vigilanza, resta aperto alle ferite,
poiché l’astuto nemico colpisce il petto tanto più liberamente,
quanto più lo sorprende nudo della corazza della previdenza. Bisogna
ammonire coloro che restano vinti da una improvvisa concupiscenza a
distogliersi dalla eccessiva cura delle cose terrene, poiché
mentre si coinvolgono smodatamente in realtà transitorie, ignorano
da quali dardi di colpe restano trafitti. Perciò, la voce di chi è
colpito mentre dorme viene anche espressa per mezzo di Salomone, il
quale dice: Mi
colpirono, ma
non sentii dolore; mi
trascinarono e non me ne accorsi. Quando
veglierò e ritroverò ancora il vino? (Prov.
23, 35). La mente che dorme dimentica della sua sollecitudine
viene colpita e non sente dolore, perché, come non vede i mali
incombenti, così non riconosce neppure quelli che ha commesso; viene
trascinata e non se ne accorge, perché è condotta attraverso le
seduzioni dei vizi e tuttavia non si alza per custodirsi. Essa, in
verità, desidera vegliare per ritrovare ancora il vino, perché
quantunque sia oppressa dal terrore del sonno, via dalla custodia di
se stessa, si sforza tuttavia di vegliare per le cure del secolo, per
essere sempre ebbra dai piaceri; e mentre dorme, rispetto a ciò per
cui avrebbe dovuto prudentemente vegliare, desidera di essere sveglia
per altre cose per le quali avrebbe potuto lodevolmente dormire.
Perciò più sopra, sta scritto: E
sarai come chi dorme in mezzo al mare e come un pilota assopito che
ha lasciato il timone (Prov.
23, 34). Infatti dorme in mezzo al mare, colui che, posto nelle
tentazioni di questo mondo, trascura di prevedere i moti erompenti
dei vizi, come cumuli di onde sovrastanti; ed è come un pilota che
perde il timone, la mente che perde la tensione sollecita a governare
la nave del corpo. Poiché è perdere il timone in mare il non
mantenere una attenzione previdente, tra le tempeste di questo
secolo. Infatti, se il pilota stringe con attenta cura il timone, ora
dirige la nave contro i flutti ora taglia obliquamente l’impeto dei
venti. Così, quando la mente governa l’anima con vigilanza, ora
calpesta e vince alcune passioni ora, con previdenza, ne aggira
altre, e così., con fatica sottomette quelle presenti, e con la
previdenza si rafforza contro i combattimenti futuri. Perciò ancora
si dice, dei forti combattenti, della patria celeste: La
spada di ognuno è sulla coscia per via dei timori notturni (Cant.
3, 8). Si pone la spada sulla coscia, quando con la punta della
santa predicazione si doma la malvagia suggestione della carne. Con
la notte, poi, si esprime la cecità della nostra debolezza, poiché
di notte non si vede nulla di ciò che può sovrastare ostilmente. E
la spada di ognuno è posta sulla coscia per i timori notturni,
poiché evidentemente gli uomini santi, col fatto che temono le
tentazioni che non vedono, si mantengono sempre pronti alla tensione
del combattimento. Perciò, ancora, si dice della sposa: Il
tuo naso come torre che è nel Libano (Cant.
7, 4); infatti, ciò che non vediamo con gli occhi spesso lo
prevediamo dall’odore. Col naso, poi, distinguiamo anche gli odori
buoni dai cattivi. Dunque, che cosa si designa con naso della Chiesa,
se non la previdente discrezione dei santi? E il naso è anche detto
simile a una torre che è nel Libano, poiché la previdenza discreta
dei santi è posta tanto in alto che vede le lotte delle tentazioni
prima che vengano, e quando sono venute gli sta contro ben difesa.
Infatti, le lotte future che vengono previste, quando si sono fatte
presenti hanno minor forza, poiché quando uno si fa sempre più
preparato contro i colpi, il nemico che si crede inatteso viene reso
impotente proprio perché è stato previsto. Al contrario, bisogna
ammonire coloro che si fanno prigionieri della colpa con
deliberazione, a considerare con attenta previdenza che, col compiere
il male deliberatamente, provocano contro di sé un giudizio più
severo, così che li colpisce una sentenza tanto più dura, quanto
più strettamente li legano alla colpa i vincoli della deliberazione.
Forse laverebbero più in fretta i loro peccati col pentimento, se vi
fossero caduti solamente per precipitazione; infatti il peccato
indurito dal consiglio è anche più duro da assolvere, e se la mente
non disprezzasse in ogni modo i beni eterni, non perirebbe cadendo
nella colpa deliberata. Dunque, coloro che cadono per la
precipitazione e coloro che periscono per la deliberazione
differiscono in ciò, che questi ultimi, quando peccando cadono dalla
condizione di giustizia, per lo più cadono insieme anche nel laccio
della disperazione. Perciò, per mezzo del profeta, il Signore
rimprovera non tanto i peccati di precipitazione quanto quelli dovuti
a una passione coltivata, dicendo: Che
non erompa come fuoco il mio sdegno e si accenda, e
non ci sia chi lo spegne, per
la malizia delle vostre passioni. Quindi,
una seconda volta irato, dice: Vi
visiterò secondo il frutto delle vostre passioni (Ger.
4, 4; 23, 2). Dunque, i peccati commessi con deliberazione
differiscono dagli altri, perché il Signore non persegue tanto il
fatto del peccato, quanto la premeditazione del peccato; giacché,
nel fatto, si pecca spesso per debolezza, spesso per negligenza; ma
nella premeditazione, si pecca sempre per intenzione maliziosa. Al
contrario, bene si dice, per mezzo del profeta, a proposito dell’uomo
beato: Non
siede nella cattedra di pestilenza (Sal.
1, 1). Cattedra suole essere il seggio del giudice o del
presidente, e sedere nella cattedra di pestilenza corrisponde a
compiere il peccato con giudizio deliberato: sedere nella cattedra di
pestilenza corrisponde a discernere il male con la ragione e tuttavia
commetterlo con deliberazione. È come chi siede su una cattedra di
consiglio perverso chi è innalzato da una esaltazione iniqua tanto
grande da tentare di compiere il male perfino attraverso il
consiglio. E come coloro che, sostenuti dall’autorità della
cattedra, sono superiori alle folle che li assistono, così i
peccati, ricercati con premeditazione, superano quelli di coloro che
rovinano per precipitazione. Pertanto bisogna ammonire chi si lega
alla colpa anche con la deliberazione, a dedurre da tutto ciò quale
sarà la vendetta con cui, prima o poi, dovranno essere colpiti, loro
che ora si fanno non compagni ma principi dei peccatori.
33
— Come bisogna ammonire coloro che cadono in peccati minimi
ma frequenti, e coloro che guardandosi dai minimi restano
talvolta sommersi da quelli gravi
Diverso
è il modo di ammonire coloro che commettono spesso peccati, sia pur
minimi, e coloro che si custodiscono dai piccoli, ma talvolta
affondano nei gravi. Bisogna ammonire coloro che cadono
frequentemente in colpe sia pur piccole, a non considerare quali, ma
quanti peccati, commettono. Infatti, se quando pesano le loro azioni
disdegnano di temerle, devono averne paura quando le contano. Poiché
sono profondi i gorghi dei fiumi, e sono piccole ma innumerevoli le
gocce di pioggia che li riempiono; e la sentina che cresce
nascostamente produce lo stesso effetto di una tempesta che infuria
palesemente. E sono piccolissime le ferite che si aprono nelle membra
per la scabbia, ma quando la loro quantità, divenuta innumerevole,
si estende, uccide la vita del corpo come una grave ferita inflitta
nel petto. Perciò è scritto: Chi
disprezza le cose piccole a poco a poco viene meno (Sir.
19, 1). Infatti, chi trascura di piangere e di evitare i peccati
minimi cade dalla condizione di giustizia, non di colpo, ma, poco
alla volta, tutto. Bisogna ammonire coloro che frequentemente cadono
in cose minime, a considerare con cura che spesso si pecca più
rovinosamente con una colpa piccola che con una più grande. Poiché,
la più grande, quanto prima è riconosciuta come colpa, tanto più
rapidamente viene emendata: mentre la minore, che è valutata nulla,
ha effetti tanto peggiori, quanto più tranquillamente continua a
essere praticata. Per cui avviene spesso che il cuore avvezzo a
peccati leggeri non ha in orrore neppure quelli gravi e, nutrito
dalle colpe, giunge a una certa sicurezza nel male; e tanto disdegna
di temere le colpe più gravi, quanto, nelle più piccole, ha
imparato a peccare senza timore. Al contrario, bisogna ammonire
coloro che si guardano dalle colpe piccole, ma talvolta sprofondano
nelle gravi, ad aprire gli occhi su se stessi con sollecitudine,
giacché, mentre il loro cuore si esalta perché si custodisce dalle
piccole colpe, essi vengono divorati, dallo stesso baratro della loro
esaltazione, a commettere peccati ancora più gravi; e, mentre al di
fuori dominano le piccole colpe ma dentro si gonfiano di vanagloria,
finiscono con l’abbattere anche al di fuori, con colpe più gravi,
l’animo che, dentro, è stato vinto dalla malattia della superbia.
Pertanto bisogna ammonire coloro che si custodiscono dai peccati
piccoli ma talvolta sprofondano nei gravi, a non cadere,
interiormente, là dove, esteriormente, stimano di stare in piedi;
e, nella retribuzione del Giudice severo, l’esaltazione non divenga
una via di minore giustizia, che trascini alla fossa della colpa più
grave. Infatti, coloro che, esaltatisi vanamente, attribuiscono alle
proprie forze la custodia di un bene minimo, giustamente abbandonati,
si coprono di colpe più gravi e, cadendo, imparano che il loro stare
in piedi non derivava da loro; ciò, affinché mali immensi umilino
il cuore che beni minimi esaltano. Bisogna ammonirli a considerare
che, con colpe più gravi si caricano di una grossa responsabilità,
e tuttavia spesso nelle piccole buone azioni che custodiscono,
peccano più rovinosamente perché, con le prime compiono cose
inique, ma per mezzo delle altre tengono coperta agli uomini la loro
iniquità. Per cui avviene che, quando commettono davanti a Dio i
peccati maggiori, ciò è iniquità aperta; e quando custodiscono
piccole buone azioni davanti agli uomini, è santità simulata.
Perciò infatti si dice dei Farisei: Filtrano
il moscerino e inghiottiscono il cammello (Mt.
23, 24); come se dicesse apertamente: lasciate da parte i
peccati piccoli e divorate quelli grandi. È perciò che ancora si
sentono rimproverare dalla bocca della Verità: Pagate
la decima della menta, dell’aneto, e
del cimino e trascurate ciò che è più importante nella legge: la
giustizia, la
misericordia, la
fedeltà (Mt.
23, 23). E occorre ascoltare con attenzione, perché quando
parla delle decime più piccole, ricorda intenzionalmente, fra le
erbe, le ultime ma profumate; certo per mostrare che i simulatori,
quando custodiscono le piccole buone azioni, cercano di spandere
l’odore di una santa opinione di se stessi; e quantunque tralascino
di compiere i beni più grandi, hanno cura dei piccoli che, a
giudizio umano, spandono profumo in lungo e in largo.
34
— Come bisogna ammonire coloro che non incominciano neppure
a fare il bene, e coloro che dopo averlo incominciato non
lo portano a termine
Diverso
è il modo di ammonire coloro che non incominciano neppure a fare il
bene e coloro che, dopo averlo incominciato, non lo portano a
termine. Quanto ai primi, non bisogna far loro presente,
innanzitutto, ciò che devono sanamente amare, ma distruggere ciò a
cui si applicano maliziosamente. Infatti, non vanno dietro a ciò di
cui sentono parlare senza averne l’esperienza, se prima non
comprendono quanto sia nocivo quello che hanno sperimentato; giacché
non desidera di essere rialzato, colui che ignora perfino di essere
caduto; e colui che non sente il dolore della ferita, non ricerca il
rimedio per sanarla. Dunque, bisogna prima mostrare quanto sia vano
ciò che amano, e poi con molta cautela bisogna insinuare quanto sia
utile quello che tralasciano. Vedano, prima, che quel che amano è da
fuggire, e poi, senza difficoltà, si renderanno conto che è amabile
ciò che fuggono. Accolgono meglio, infatti, ciò di cui non hanno
esperienza, se riconoscono per vero quanto è stato loro dimostrato
su ciò che conoscono per esperienza. Allora, dunque, imparano con
pieno desiderio a cercare le cose vere e buone, quando cioè abbiano
compreso con giudizio sicuro di essere stati vanamente attaccati a
cose false. Ascoltino quindi, che il piacere dei beni presenti è
destinato a passare ben presto, e tuttavia la loro causa permarrà
per una vendetta senza fine, poiché, ora, viene sottratto loro,
contro voglia, ciò che piace; e, allora, ciò che procura dolore,
sarà loro riservato come supplizio, ancora contro voglia. E così
abbiano un salutare terrore delle medesime cose da cui traggono un
piacere che li danna, affinché l’animo, che resta colpito alla
vista dei danni profondi della sua propria rovina e si accorge di
essere giunto sull’orlo del precipizio, rivolga indietro i suoi
passi e, nel vivo timore di ciò che prima amava, impari ad amare ciò
che disprezzava. Perciò viene detto a Geremia, mandato a
predicare: Ecco, oggi
ti ho costituito sopra le genti e sopra i regni, perché
tu sradichi e distrugga, disperda
e dissipi, ed
edifichi e pianti (Ger.
1, 10); perché, se prima non avesse distrutto ciò che era
perverso, non avrebbe potuto edificare utilmente ciò che era retto;
se non avesse sradicato dai cuori dei suoi ascoltatori le spine di un
amore vano, è certo che, invano, avrebbe piantato in loro le parole
della santa predicazione. Perciò Pietro, prima abbatte per poi
costruire, quando non ammoniva i Giudei riguardo a ciò che ormai
avrebbero dovuto fare, ma li rimproverava di ciò che avevano fatto,
dicendo: Gesù
Nazareno, uomo
approvato da Dio tra voi, per
i miracoli, i
prodigi, i
segni che Dio operò in mezzo a voi, attraverso
lui, come
voi sapete: quest’uomo, consegnato
per un disegno prestabilito dalla prescienza di Dio, lo
avete ucciso inchiodandolo per mano di empi, ma
Dio lo ha risuscitato, avendo
sciolto le doglie dell’inferno (Atti,
2, 22-24). Disse così, evidentemente, affinché, abbattuti
dalla consapevolezza della propria crudeltà, con quanta maggior
tensione avrebbero ricercato l’edificazione della santa
predicazione, tanto più utilmente l’ascoltassero. E quindi, subito
rispondono: Che
cosa dobbiamo fare, allora, fratelli? E
ad essi viene detto: Fate
penitenza e ciascuno di voi sia battezzato (Atti,
2, 37-38). Essi non avrebbero certamente fatto alcun conto di
queste parole di edificazione, se prima non avessero trovato la
salutare rovina della loro propria distruzione. Perciò Paolo, quando
risplendette su di lui la luce mandata dal cielo, non udì ciò che
avrebbe dovuto fare di bene, ma ciò che aveva fatto di male.
Infatti, quando prostrato chiedeva: Chi
sei, Signore? Gli
fu subito risposto: Io
sono Gesù Nazareno che tu perseguiti. E
alla sua seconda immediata richiesta: Signore, che
cosa ordini che faccia? Viene
aggiunto subito: Alzati
ed entra in città e là ti sarà detto che cosa è bene che tu
faccia (Atti,
9, 24 ss.; 22, 8 ss.). Ecco, il Signore, parlando dal cielo,
rimprovera le azioni del suo persecutore e tuttavia non mostra
immediatamente che cosa avrebbe dovuto fare. Ecco, ormai tutto
l’edificio del suo orgoglio era crollato e, divenuto umile dopo la
sua rovina, cercava di essere riedificato. Ma la superbia viene
distrutta e tuttavia le parole dell’edificazione vengono ancora
trattenute, evidentemente perché il crudele persecutore giaccia a
lungo abbattuto, e poi, tanto più solidamente risorga nel bene,
quanto più, prima, era caduto, rovesciato fin dalle fondamenta, dal
primitivo errore. Pertanto, coloro che non hanno ancora incominciato
a compiere alcun bene devono, prima, essere rovesciati dalla loro
rigida perversità, dalla mano della correzione; per essere, poi,
rialzati alla condizione di chi agisce rettamente. Poiché è come
quando tagliamo un albero per innalzarlo, poi, alla copertura di un
edificio: esso non viene impiegato immediatamente nella
costruzione, perché prima si secchi il suo umore nocivo; e
quanto più questo si asciuga nel suo interno, tanto più solidamente
può essere sollevato in alto. Al contrario, bisogna ammonire coloro
che non portano a termine il bene iniziato, a considerare con molta
attenzione che, col non adempiere quanto si sono proposti, strappano
via anche ciò a cui avevano dato inizio. Se, infatti, ciò che
sembra di dover fare non cresce per una sollecita applicazione,
diminuisce anche ciò che era stato ben compiuto. Poiché, in questo
mondo, la vita umana è come una nave che sale contro la corrente di
un fiume: non le è permesso di stare ferma in un luogo, perché
scivola di nuovo verso il basso, se non si sforza di salire verso
l’alto. Dunque, se la forte mano di chi opera non conduce a
perfezione il bene intrapreso, la stessa interruzione dell’operare
lotta contro quanto è già stato compiuto. Ed è ciò che è detto
per mezzo di Salomone: Chi
è molle e trascurato nel suo operare è fratello di chi dissipa il
proprio lavoro (Prov.
18, 9). Poiché è chiaro che, chi non esegue rigorosamente quanto ha
iniziato di buono, la trascuratezza della sua negligenza è come la
mano di un distruttore. Perciò l’angelo dice alla Chiesa di
Sardi: Sii
vigilante e consolida le altre cose che stavano per morire, infatti
non trovo complete le tue opere davanti al mio Dio (Ap.
3, 2). Dunque, poiché le sue opere non erano state trovate complete
davanti a Dio, prediceva che sarebbero morte anche quelle altre che
erano state compiute. Infatti, se ciò che in noi è morto non si
riaccende a vita, si estingue anche ciò che, in un certo senso, si
conserva ancora vivo. Bisogna ammonirli a considerare che avrebbe
potuto essere più tollerabile non intraprendere la via del giusto,
piuttosto che tornare indietro dopo averla intrapresa; infatti, se
non si voltassero a guardare indietro, non languirebbero nel torpore,
dopo l’attività iniziata. Ascoltino dunque ciò che è
scritto: Sarebbe
stato meglio non conoscere la via della giustizia che voltarsi
indietro dopo averla conosciuta (2
Pt. 2, 21). Ascoltino ciò che è scritto: Magari
fossi freddo o caldo; ma
poiché sei tiepido e né freddo né caldo, incomincerò
a vomitarti dalla mia bocca (Ap.
3, 15-16). Caldo è chi intraprende attivamente il bene e lo
porta a termine; freddo è chi non incomincia neppure ciò che
dovrebbe terminare. E come dal freddo, attraverso la tiepidezza, si
passa al calore; così dal calore, attraverso la tiepidezza si
ritorna al freddo. Dunque, chi vive avendo perduto il freddo della
incredulità ma non supera la tiepidezza e non aumenta il suo calore
così da ardere; mentre permane nella nociva tiepidezza, senza più
nessuna speranza di quel calore, non fa altro che tornare freddo. Ma,
come prima di diventare tiepido l’essere freddo conservava la
speranza, così ora, la tiepidezza, dopo essere stato freddo, è
senza speranza. Infatti, chi è ancora nel peccato, non perde la
fiducia nella conversione; ma chi, dopo la conversione, è tiepido,
si è sottratto anche quella speranza che poté avere da peccatore.
Si richiede, dunque, che uno sia o caldo o freddo, per non essere
vomitato essendo tiepido, affinché, se non è ancora convertito,
lasci una speranza di conversione riguardo a sé o, se è già
convertito, sia sempre più ardente nella pratica della virtù; e non
sia vomitato come tiepido per essere ritornato a causa della sua
inerzia, dal calore che si era proposto, al freddo dannoso.
35
— Come bisogna ammonire coloro che fanno il male di
nascosto e il bene apertamente; e quelli che agiscono
viceversa
Diverso
è il modo di ammonire coloro che fanno il male di nascosto e il bene
in pubblico, e coloro che nascondono il bene che fanno e tuttavia
lasciano che si pensi pubblicamente male di loro per certe loro
azioni pubbliche. Infatti, bisogna ammonire i primi a valutare la
rapidità con cui i giudizi umani volano via, e come, invece, restano
stabili quelli divini. Bisogna ammonirli a tenere gli occhi della
mente fissi al termine delle cose, poiché l’attestazione delle
lodi umane passa, e la sentenza divina, che penetra ciò che è
nascosto, si rafforza fino alla retribuzione eterna. Pertanto, mentre
pongono i loro peccati davanti al giudizio divino, e le loro azioni
giuste davanti agli occhi degli uomini, il bene che compiono
pubblicamente resta senza testimone, ma non senza testimone eterno
rimane ciò che di male essi compiono di nascosto. Così, nascondendo
agli uomini le proprie colpe, e manifestando le virtù, mentre
nascondono ciò per cui avrebbero dovuto essere puniti; di fatto lo
svelano; e svelando ciò per cui avrebbero potuto essere premiati, di
fatto lo nascondono. Giustamente la Verità li chiama sepolcri
imbiancati, belli all’esterno ma pieni di ossa di morti (cf. Mt.
23, 27), perché occultano all’interno i mali dei vizi, ma con la
dimostrazione di certe azioni blandiscono la vista degli uomini, con
la sola apparenza esteriore della giustizia. Pertanto, bisogna
ammonirli a non disprezzare le azioni rette che compiono, ma ad
attribuire ad esse un più grande merito; infatti, condannano
gravemente ciò che fanno di buono, coloro che stimano un
compenso sufficiente per esso il favore umano, giacché, quando per
una azione retta si cerca una lode passeggera, si vende a poco prezzo
una cosa degna di un compenso eterno. Ed è di un tale prezzo che la
Verità dice: In
verità vi dico, hanno
ricevuto la loro mercede (Mt.
6, 2). Bisogna ammonirli a considerare che mentre si mostrano
malvagi nelle azioni nascoste e tuttavia offrono di sé pubblicamente
esempi di buone opere, indicano che bisogna seguire ciò che essi
fuggono, gridano che è amabile ciò che essi odiano e, da ultimo,
vivono agli occhi degli altri, ma a se stessi muoiono. Al contrario,
bisogna ammonire coloro che fanno nascostamente il bene e tuttavia
per qualche loro azione pubblica permettono che si pensi male di
loro, a non uccidere in sé altri, con l’esempio di una cattiva
stima, mentre vivificano sé stessi, con la potenza di un retto
agire; a non amare il prossimo meno che sé stessi, e a non versare
veleno pestifero nei cuori attenti alla considerazione del loro
esempio, mentre loro stessi bevono vino salubre. Poiché, in questo
caso, non giovano alla vita del prossimo; e nell’altro la gravano
molto; applicandosi, cioè, [da un lato] ad agire rettamente di
nascosto, e [dall’altro] a seminare, per certe loro azioni, una
cattiva opinione di sé come esempio per gli altri. Infatti, chi è
già in grado di mettersi sotto i piedi la brama della lode, opera a
danno dell’edificazione se nasconde il bene che compie; e colui che
non mostra l’azione che deve essere imitata è come se, dopo aver
gettato il seme che deve germinare ne strappasse le radici. Perciò
infatti, la Verità disse, nell’Evangelo: Vedano
le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei
cieli (Mt. 5,
16). Dove pure è pronunciata quell’altra sentenza che sembra
comandare tutto il contrario dicendo: Guardate
di non compiere la vostra giustizia di fronte agli uomini per essere
visti da loro (Mt.
6, 1). Che cosa significa allora che il nostro operare deve
essere compiuto in modo da non essere visto, e tuttavia, secondo il
precetto, deve essere visto, se non che tutto ciò che facciamo deve
essere nascosto perché non siamo noi a riceverne lode, e deve essere
manifestato perché accresciamo così la lode del Padre celeste?
Infatti, quando il Signore ci proibiva di compiere la nostra
giustizia davanti agli uomini, subito aggiunse: Per
essere visti da loro. E
quando comandava che le nostre opere buone dovevano essere viste
dagli uomini, subito aggiunse: Affinché
glorifichino il Padre vostro che è nei cieli. Dunque,
alla fine delle sentenze mostrò in che senso non devono essere viste
e in che senso devono esserlo, affinché il cuore di chi la compie
non cerchi che la sua opera sia veduta, per causa sua, e tuttavia non
la nasconda, a gloria del Padre celeste. Perciò accade che per lo
più un’opera buona possa essere nascosta anche se avviene
pubblicamente e, ancora, sia come pubblica pur compiendosi di
nascosto. Infatti, chi, in un’azione compiuta in pubblico, non
cerca la propria gloria ma quella del Padre celeste, nasconde ciò
che ha fatto, poiché ha considerato come testimone solo colui a cui
si è preoccupato di piacere. E colui che nel suo segreto brama di
essere scoperto e lodato nella sua opera buona, anche se nessuno ha
veduto ciò che egli ha compiuto, egli ha tuttavia fatto ciò davanti
agli uomini, poiché ha condotto con sé, nella sua buona opera,
tanti testimoni quante sono le lodi umane che ha ricercato nel suo
cuore. E quando una cattiva stima, che ha valore anche se non
nasconde un peccato, non viene cancellata dalla mente di chi la
considera, per l’esempio che essa rappresenta è come una colpa
offerta all’imitazione di tutti quelli che vi prestano fede. Perciò
spesso accade che coloro i quali, con negligenza, permettono che si
pensi male di loro, non compiono per se stessi alcuna iniquità e
tuttavia, attraverso tutti coloro che li avranno imitati, peccano
ripetutamente. Perciò, a coloro che mangiano cibi immondi senza
contaminarsi, quanto a sé, ma scandalizzano i deboli con questo modo
di cibarsi, inducendoli in tentazione, Paolo dice: Guardate
che la vostra libertà non diventi inciampo per i deboli (1
Cor. 8, 9). E ancora: E
per la tua coscienza perirà il fratello debole per il quale Cristo è
morto. E
così, peccando
contro i fratelli e colpendo la loro debole coscienza, peccate
contro Cristo (1
Cor. 8, 11-12). Perciò Mosé, dopo aver detto: Non
dirai male di un sordo, aggiunse: Né
porrai un inciampo davanti a un cieco (Lev.
19, 14). Dire male di un sordo equivale a criticare un assente
che non può ascoltare; e porre un inciampo davanti a un cieco
corrisponde ad agire con discernimento e tuttavia offrire occasione
di scandalo a chi non ha la luce della discrezione.
36
— Dell’esortazione che bisogna prestare a molti, tale
da aiutare le virtù dei singoli, così che per essa non
aumentino i vizi contrari a quelle virtù
Queste
sono le avvertenze che il Pastore d’anime deve osservare nella
diversità della predicazione, per contrapporre con sollecitudine
medicine adatte alle ferite dei singoli. Ma se è di grande impegno
il servire alle situazioni individuali, nell’esortazione dei
singoli, se è molto faticoso istruire ciascuno, in quanto lo può
direttamente riguardare, con la dovuta considerazione, tuttavia è di
gran lunga più faticoso farlo, nello stesso tempo e con il medesimo
discorso, nei. confronti di ascoltatori numerosi e sottoposti a
passioni diverse; e il discorso deve essere regolato con tanta arte
da adattarsi ai singoli ascoltatori coi loro diversi vizi, e insieme
da non contraddirsi; da passare tra le passioni seguendo un solo
tracciato, ma come una spada a due tagli, incidendo i tumori dei
pensieri carnali da parti opposte, così che si predichi l’umiltà
ai superbi in modo che però ai timidi non aumenti il timore; ai
timidi si infonda sicurezza, in modo che però non cresca la
sfrenatezza dei superbi. Si predichi agli oziosi e ai torpidi la
sollecitudine del bene operare in modo che però non si accresca la
licenza di una attività smodata negli inquieti. Si ponga una misura
agli inquieti in modo che però il torpore degli oziosi non si senta
sicuro. Si spenga l’ira degli impazienti in modo che però, ai
remissivi e ai tranquilli non aumenti la negligenza. I tranquilli
siano eccitati allo zelo, in modo che però non si aggiunga fuoco
agli iracondi. Si infonda spirito di larghezza nel dare agli avari in
modo che però non si allentino i freni della liberalità smodata ai
prodighi; e si predichi ai prodighi la parsimonia in modo che però
negli avari non aumenti la custodia dei beni destinati a perire. Si
lodi il matrimonio agli incontinenti, in modo che però coloro che
già sono continenti non siano richiamati alla lussuria. Ai
continenti poi si lodi la verginità del corpo in modo che però i
coniugi non siano indotti a disprezzare la fecondità della carne.
Bisogna predicare i beni in modo che d’altro canto non ne traggano
giovamento i mali. Bisogna lodare i beni più alti in modo che non
restino disprezzati i minori; e bisogna alimentare i minori perché
se si pensa che siano per sé sufficienti, non si sia trattenuti
dall’aspirare ai sommi.
37
— Dell’esortazione
che si deve a una persona soggetta a passioni contrarie
È
certo grave fatica per un predicatore essere attento, in un discorso
rivolto a pin persone, ai moti nascosti dei singoli e alle loro cause
e, come avviene negli esercizi in palestra, destreggiarsi nell’arte
di volgersi in diverse direzioni; tuttavia egli si sottopone a una
fatica molto maggiore quando è costretto a predicare a una sola
persona soggetta a vizi opposti. Spesso infatti si dà il caso di
qualcuno di carattere gaio che poi di colpo si deprime terribilmente
per il sopraggiungere di una improvvisa tristezza. Il predicatore
deve allora fare si che venga tolta la tristezza improvvisa ma in
modo che non cresca la gaiezza prodotta dal temperamento; e sia
frenata la gaiezza del temperamento in modo che però non aumenti la
tristezza che viene all’improvviso. Uno è gravato da una abituale
smodata precipitazione, però, ogni tanto, la forza di una improvvisa
paura lo trattiene da qualcosa ché bisogna eseguire con fretta. Un
altro è gravato da una abituale smisurata paura, però ogni tanto è
spinto da una precipitazione temeraria in qualcosa che desidera. E
allora, nel primo, bisogna reprimere la paura sorta improvvisamente
in modo che però non aumenti la precipitazione coltivata a lungo; e
nel secondo bisogna reprimere la precipitazione improvvisa, in modo
che però non si rafforzi la paura dovuta al temperamento. Quale
meraviglia che i medici delle anime abbiano tanta cura di queste
cose, se coloro che non curano i cuori ma i corpi si regolano con una
discrezione cos’ sapiente? Spesso infatti una terribile malattia
opprime un debole corpo e ad essa si deve venire in aiuto con rimedi
vigorosi, ma tuttavia il corpo debole non sostiene il rimedio forte;
allora il medico deve studiare in che modo togliere la malattia
sopravvenuta senza aumentare la sottostante debolezza del corpo,
perché insieme con la malattia non venga meno la vita. Perciò mette
insieme il rimedio con tanta discrezione da ovviare alla malattia e
nello stesso tempo aiutare il malato. Dunque, se la medicina del
corpo, applicata in modo unitario, può agire in sensi opposti (la
medicina infatti è veramente tale quando con essa si rimedia alla
malattia sopravvenuta e si viene in aiuto anche al temperamento che
vi è sottoposto), perché la medicina dell’animo applicata da una
sola e medesima predicazione non dovrebbe essere in grado di ovviare
a malattie morali di diverso ordine, essa che è tanto più
sottilmente praticata, in quanto si tratta di condizioni spirituali?
38
— Talvolta
occorre lasciare sopravvivere vizi più leggeri per togliere i più
gravi
Ma
poiché spesso irrompe una malattia dovuta al concorrere di due vizi,
dei quali forse uno preme in modo più grave dell’altro, più
leggero; è senza subbio più giusto venire in fretta in aiuto contro
quel vizio per cui si corre rapidamente alla morte. E se per evitare
una morte prossima, non si può contenere questo, senza che cresca il
coesistente vizio contrario, occorre che il predicatore tolleri che
attraverso la sua esortazione, questo ultimo, per un artificioso
accomodamento, subisca una crescita, pur di poter trattenere l’altro
dalla vicina morte. Ciò che egli opera non aumenta la malattia del
suo ferito, cui egli applica il rimedio, ma gli conserva la vita
finché trovi il momento adatto per ricercare la sua salvezza. Spesso
avviene che qualcuno, per non sapersi affatto trattenere
dall’ingordigia dei cibi, viene assalito dagli stimoli della
lussuria che ormai sta per vincerlo ed egli, atterrito dal timore di
soccombere in questa lotta, mentre si sforza di contenersi con
l’astinenza, è travagliato dalla tentazione della vanagloria. In
questa situazione non è possibile che si estingua un vizio senza che
se ne alimenti un altro. Dunque, quale peste occorre combattere con
più ardore se non quella che preme con maggiore pericolo? Allora
bisogna tollerare che, provvisoriamente, in chi esercita la virtù
dell’astinenza cresca un po’ di orgoglio purché egli viva,
piuttosto che lo uccida del tutto la lussuria generata
dall’ingordigia. Perciò Paolo, considerando il suo debole
ascoltatore esposto all’alternativa, o di un agire ancora perverso
o di compiacersi per il compenso della lode degli uomini, per il suo
agire retto, dice: Vuoi
non temere l’autorità? Fa’ il bene e riceverai lode da
essa (Rom. 13,
3). Infatti, né il bene va fatto per non dovere temere chi ha
il potere in questo mondo né per ricever con esso la gloria di una
lode passeggera. Ma considerando che un cuore debole non può
giungere a tanta fortezza da voler sfuggire insieme al male e alla
lode, il gran dottore, nella sua ammonizione, mentre gli toglie una
cosa gli concede l’altra; infatti, concedendogli ciò che è più
leggero, gli tolse il più grave, in modo che non essendo in grado di
abbandonare tutto in una sola volta, l’animo veniva lasciato alla
consuetudine di un certo suo vizio per essere liberato senza fatica
da un certo altro.
39
— Non bisogna assolutamente predicare cose troppo alte alle
menti deboli
Occorre
che il predicatore non attiri l’animo del suo ascoltatore al di là
delle sue forze, affinché la corda della mente non si spezzi mentre
viene tesa, per cosa dire, oltre il suo potere. Infatti, quando sono
molti ad ascoltare, i discorsi troppo elevati si devono contenere e
riservare solo per pochi. Perciò la Verità in persona dice: Chi
credi che sia il dispensatore fedele e prudente che il padrone ha
stabilito sulla sua famiglia perché dia a ciascuno a suo tempo la
misura di grano? (Lc.
12, 42). E la misura di grano esprime lo stile del discorso perché
non accada che si dia a un cuore angusto qualcosa che esso non può
contenere e questo si versi al di fuori. Perciò Paolo dice: Non
ho potuto parlarvi come a spirituali, ma
come a carnali. Come
a bambini in Cristo, vi
ho dato da bere latte e non cibo solido (1
Cor. 3, 1). Perciò Mosé, uscendo dall’intimità con Dio,
vela, davanti al popolo, il volto ancora raggiante (cf. Es. 34, 31);
certo perché, alle turbe, esso non parla dei misteri della luce
interiore. Perciò, attraverso di lui, viene prescritto dalla parola
divina che se qualcuno ha scavato una cisterna e ha trascurato di
ricoprirla, deve pagare il prezzo di un bue o di un asino che vi sia
caduto dentro (cf. Es. 21, 33-34). Poiché, se i rozzi cuori dei suoi
ascoltatori non possono contenere le acque correnti della profonda
dottrina cui egli è pervenuto, è considerato reo meritevole di pena
qualora, per le sue parole, una mente, sia pura sia impura, resta
presa nello scandalo. Perciò viene detto al beato Giobbe: Chi
ha dato l’intelligenza al gallo? (Giob.
38, 36). Infatti, il predicatore santo che grida in questo tempo
oscuro è come il gallo che canta nella notte, quando dice: È
ormai ora di sorgere dal sonno (Rom.
13, 11); e ancora: Vegliate, giusti, e
non peccate (1
Cor. 15, 34). Ma il gallo è solito emettere un alto canto nelle ore
più profonde della notte, e invece, quando l’ora del mattino è
più vicina, produce suoni più tenui e leggeri, poiché chi predica
opportunamente grida in modo chiaro ai cuori ancora ottenebrati e non
fa alcun accenno ai misteri nascosti, affinché siano in grado di
ascoltare discorsi più sottili sulle cose celesti quando si
avvicinano alla luce della verità.
40
— La predicazione nelle opere e nelle parole
Ma
ritorniamo soprattutto con ardore di carità a quanto abbiamo già
detto sopra, che cioè ogni predicatore si faccia sentire più con i
fatti che con le parole, e imprima le sue orme per chi lo segue,
attraverso una buona vita, piuttosto che mostrare con le parole la
mèta verso cui essi devono camminare. Poiché anche questo gallo,
che il Signore prende come esempio nelle sue parole, per indicare il
tipo del buon predicatore, quando già si prepara a cantare, prima
scuote le ali e percuotendosi da solo si fa più sveglio; chiaramente
perché è necessario che coloro, i quali si accingono alla santa
predicazione, siano prima vigilanti e dediti al bene operare, perché
non pretendano di scuotere gli altri con le parole, mentre in se
stessi dormono nell’inerzia: scuotano se stessi, prima, con azioni
elevate, e solo allora rendano gli altri solleciti del ben vivere;
prima colpiscano sé con le ali della meditazione e con attento esame
colgano ciò che in loro giace nell’inutile torpore e lo correggano
con severa riprensione; e solo allora regolino con le parole la vita
degli altri. Prima abbiano cura di punire i propri peccati con pianto
e poi denuncino ciò che è degno di punizione negli altri; e prima
di fare risuonare parole di esortazione, gridino con le opere tutto
ciò che hanno intenzione di dire.
PARTE
QUARTA
COME
IL PREDICATORE,
COMPIUTA
OGNI COSA NEL MODO DOVUTO,
DEVE
RITORNARE IN SE STESSO,
PERCHÉ
LA VITA O LA PREDICAZIONE
NON
LO ESALTI
Ma
poiché spesso, quando la predicazione scorre copiosamente nei modi
convenienti, l’animo di chi parla si esalta in se stesso per la
gioia nascosta di questa dimostrazione di sé, è necessaria una
grande cura perché esso si lasci ferire dai morsi del timore e non
accada che colui il quale, curando le loro ferite, richiama gli altri
alla salvezza, si inorgoglisca lui per negligenza della salvezza sua
propria; e mentre giova al prossimo, abbandoni se stesso e cada,
mentre fa rialzare gli altri. Spesso, infatti, la grandezza della
virtù fu occasione di perdizione per alcuni, perché per la
confidenza nelle proprie forze acquistano una disordinata sicurezza,
così che poi, per negligenza, in modo imprevisto muoiono. Infatti,
quando la virtù resiste ai vizi, per un certo piacere di essa,
l’animo ne resta lusingato, e avviene che la mente di chi opera
bene rigetti il timore che la fa essere attenta ai vizi; riposi
sicura nella confidenza di sé; e quando essa è presa nel torpore,
l’astuto seduttore le enumera tutte le sue buone opere e la esalta
nel pensiero orgoglioso di essere superiore agli altri. Quindi, agli
occhi del giusto Giudice, il ricordo della virtù diviene una fossa
per la mente, perché ricordando ciò che ha compiuto, mentre si
innalza in se stessa, cade di fronte all’autore dell’umiltà.
Perciò è detto all’anima che insuperbisce: Quanto
pia sei bella, scendi
e dormi con gli incirconcisi (Ez.
32, 9); come se dicesse apertamente: Poiché ti elevi per la
bellezza della virtù, dalla tua stessa bellezza sei spinta a cadere.
Perciò, l’anima che insuperbisce per la virtù, viene riprovata —
personificata in Gerusalemme — quando è detto: Eri
perfetta nella mia bellezza, che
io avevo posto su di te, dice
il Signore; ma
fidando nella tua bellezza, hai
fornicato nel tuo nome (Ez.
16, 14-15). Giacché l’animo si esalta, per la fiducia nella
propria bellezza, quando lieto per i meriti delle sue virtù, si
gloria ai suoi occhi nella propria sicurezza. Ma attraverso questa
medesima fiducia è condotto alla fornicazione, perché quando i suoi
stessi pensieri illudono la mente prigioniera, gli spiriti maligni la
corrompono, seducendola attraverso innumerevoli vizi. Si noti che è
detto: Hai
fornicato nel tuo nome, perché
quando il cuore abbandona il rispetto della guida celeste, cerca
subito una lode personale, e incomincia ad attribuirsi ogni bene che
ha ricevuto per servire all’annuncio di colui che gliel’ha
donato; desidera dilatare la gloria della sua fama; fa di tutto per
apparire degna di ammirazione a tutti. Pertanto fornica in suo nome,
colei che abbandonando il talamo legale giace sotto lo spirito
corruttore per la brama della lode. Perciò David dice: Ha
consegnato alla prigionia la loro virtù e la loro bellezza in mano
al nemico (Sal.
77, 61). Giacché la virtù è consegnata alla prigionia e la
bellezza in mano all’avversario, quando l’antico nemico domina un
cuore illuso dall’esaltazione per una buona opera; e tuttavia
questa esaltazione della virtù, sebbene non vinca completamente,
tenta spesso, comunque, anche l’animo degli eletti; ma quando, dopo
essersi esaltato, viene abbandonato, allora è richiamato al timore.
Perciò David ancora dice: lo
dissi nel mio benessere: Non
sarò scosso in eterno (Sal.
29, 7). Ma poiché si gonfiò nella confidenza nella propria
virtù, poco dopo aggiunge che cosa dovette sopportare: Hai
distolto il tuo volto e sono stato turbato (Sal.
29, 8); come se dicesse apertamente: Mi sono creduto forte tra
le mie virtù, ma abbandonato, ho riconosciuto quanto è grande la
mia debolezza. Perciò ancora dice: Ho
giurato e stabilito di custodire i giudizi della tua giustizia (Sal.
118, 106). Ma poiché non era in potere della sua forza rimanere
fermo nella custodia che aveva giurato, subito scopri la propria
debolezza, per cui immediatamente si buttò nella preghiera
dicendo: Sono
stato umiliato fino in fondo, Signore, dammi
vita secondo la tua parola (Sal.
118, 107). Poiché spesso la guida celeste prima di fare
progredire coi doni richiama alla mente il ricordo della debolezza,
perché non ci si gonfi per le virtù ricevute. Perciò il profeta
Ezechiele, ogni volta che è condotto a contemplare le cose celesti,
viene chiamato prima figlio
dell’uomo, come
se il Signore lo ammonisse apertamente dicendo: perché tu non
innalzi il tuo cuore nell’esaltazione, considera attentamente ciò
che sei, affinché quando penetri le verità somme riconosca di
essere uomo; e mentre sei rapito al di là di te, tu sia richiamato
sollecitamente a te stesso dal freno della tua debolezza. Perciò è
necessario che quando l’abbondanza delle virtù ci lusinga,
l’occhio della mente ritorni alle sue debolezze e si costringa a
voltarsi indietro per guardare non ciò che ha fatto rettamente, ma
ciò che ha trascurato di fare, perché, mentre nel ricordo della
debolezza, il cuore si abbatte, sia rafforzato nella virtù presso
l’autore dell’umiltà. Poiché spesso Dio onnipotente, quantunque
in gran parte renda perfette le menti delle guide delle anime,
tuttavia, per una piccola parte, le lascia imperfette, affinché,
quando risplendono per le loro ammirabili virtù, si struggano per il
fastidio della propria imperfezione e non si innalzino per quanto è
in loro di grande, mentre ancora si travagliano nel loro sforzo
contro difetti minimi; ma poiché non sono capaci di vincere questi
ultimi resti di imperfezione, non osino insuperbire per i loro atti
eminenti. Ecco, nobilissimo uomo, spinto dalla necessità di accusare
me stesso e tutto attento a mostrare quale debba essere il Pastore,
ho dipinto un uomo bello, io cattivo pittore, che, ancora sbattuto
dai flutti dei peccati, pretendo di guidare gli altri al lido della
perfezione. Ma in questo naufragio della vita, ti supplico,
sostienimi con la tavola della tua preghiera e, poiché il mio peso
mi fa affondare, sollevami con la mano dei tuoi meriti.
COME
IL PREDICATORE,
COMPIUTA
OGNI COSA NEL MODO DOVUTO,
DEVE
RITORNARE IN SE STESSO,
PERCHÉ
LA VITA O LA PREDICAZIONE
NON
LO ESALTI
Ma
poiché spesso, quando la predicazione scorre copiosamente nei modi
convenienti, l’animo di chi parla si esalta in se stesso per la
gioia nascosta di questa dimostrazione di sé, è necessaria una
grande cura perché esso si lasci ferire dai morsi del timore e non
accada che colui il quale, curando le loro ferite, richiama gli altri
alla salvezza, si inorgoglisca lui per negligenza della salvezza sua
propria; e mentre giova al prossimo, abbandoni se stesso e cada,
mentre fa rialzare gli altri. Spesso, infatti, la grandezza della
virtù fu occasione di perdizione per alcuni, perché per la
confidenza nelle proprie forze acquistano una disordinata sicurezza,
così che poi, per negligenza, in modo imprevisto muoiono. Infatti,
quando la virtù resiste ai vizi, per un certo piacere di essa,
l’animo ne resta lusingato, e avviene che la mente di chi opera
bene rigetti il timore che la fa essere attenta ai vizi; riposi
sicura nella confidenza di sé; e quando essa è presa nel torpore,
l’astuto seduttore le enumera tutte le sue buone opere e la esalta
nel pensiero orgoglioso di essere superiore agli altri. Quindi, agli
occhi del giusto Giudice, il ricordo della virtù diviene una fossa
per la mente, perché ricordando ciò che ha compiuto, mentre si
innalza in se stessa, cade di fronte all’autore dell’umiltà.
Perciò è detto all’anima che insuperbisce: Quanto
pia sei bella, scendi
e dormi con gli incirconcisi (Ez.
32, 9); come se dicesse apertamente: Poiché ti elevi per la
bellezza della virtù, dalla tua stessa bellezza sei spinta a cadere.
Perciò, l’anima che insuperbisce per la virtù, viene riprovata —
personificata in Gerusalemme — quando è detto: Eri
perfetta nella mia bellezza, che
io avevo posto su di te, dice
il Signore; ma
fidando nella tua bellezza, hai
fornicato nel tuo nome (Ez.
16, 14-15). Giacché l’animo si esalta, per la fiducia nella
propria bellezza, quando lieto per i meriti delle sue virtù, si
gloria ai suoi occhi nella propria sicurezza. Ma attraverso questa
medesima fiducia è condotto alla fornicazione, perché quando i suoi
stessi pensieri illudono la mente prigioniera, gli spiriti maligni la
corrompono, seducendola attraverso innumerevoli vizi. Si noti che è
detto: Hai
fornicato nel tuo nome, perché
quando il cuore abbandona il rispetto della guida celeste, cerca
subito una lode personale, e incomincia ad attribuirsi ogni bene che
ha ricevuto per servire all’annuncio di colui che gliel’ha
donato; desidera dilatare la gloria della sua fama; fa di tutto per
apparire degna di ammirazione a tutti. Pertanto fornica in suo nome,
colei che abbandonando il talamo legale giace sotto lo spirito
corruttore per la brama della lode. Perciò David dice: Ha
consegnato alla prigionia la loro virtù e la loro bellezza in mano
al nemico (Sal.
77, 61). Giacché la virtù è consegnata alla prigionia e la
bellezza in mano all’avversario, quando l’antico nemico domina un
cuore illuso dall’esaltazione per una buona opera; e tuttavia
questa esaltazione della virtù, sebbene non vinca completamente,
tenta spesso, comunque, anche l’animo degli eletti; ma quando, dopo
essersi esaltato, viene abbandonato, allora è richiamato al timore.
Perciò David ancora dice: lo
dissi nel mio benessere: Non
sarò scosso in eterno (Sal.
29, 7). Ma poiché si gonfiò nella confidenza nella propria
virtù, poco dopo aggiunge che cosa dovette sopportare: Hai
distolto il tuo volto e sono stato turbato (Sal.
29, 8); come se dicesse apertamente: Mi sono creduto forte tra
le mie virtù, ma abbandonato, ho riconosciuto quanto è grande la
mia debolezza. Perciò ancora dice: Ho
giurato e stabilito di custodire i giudizi della tua giustizia (Sal.
118, 106). Ma poiché non era in potere della sua forza rimanere
fermo nella custodia che aveva giurato, subito scopri la propria
debolezza, per cui immediatamente si buttò nella preghiera
dicendo: Sono
stato umiliato fino in fondo, Signore, dammi
vita secondo la tua parola (Sal.
118, 107). Poiché spesso la guida celeste prima di fare
progredire coi doni richiama alla mente il ricordo della debolezza,
perché non ci si gonfi per le virtù ricevute. Perciò il profeta
Ezechiele, ogni volta che è condotto a contemplare le cose celesti,
viene chiamato prima figlio
dell’uomo, come
se il Signore lo ammonisse apertamente dicendo: perché tu non
innalzi il tuo cuore nell’esaltazione, considera attentamente ciò
che sei, affinché quando penetri le verità somme riconosca di
essere uomo; e mentre sei rapito al di là di te, tu sia richiamato
sollecitamente a te stesso dal freno della tua debolezza. Perciò è
necessario che quando l’abbondanza delle virtù ci lusinga,
l’occhio della mente ritorni alle sue debolezze e si costringa a
voltarsi indietro per guardare non ciò che ha fatto rettamente, ma
ciò che ha trascurato di fare, perché, mentre nel ricordo della
debolezza, il cuore si abbatte, sia rafforzato nella virtù presso
l’autore dell’umiltà. Poiché spesso Dio onnipotente, quantunque
in gran parte renda perfette le menti delle guide delle anime,
tuttavia, per una piccola parte, le lascia imperfette, affinché,
quando risplendono per le loro ammirabili virtù, si struggano per il
fastidio della propria imperfezione e non si innalzino per quanto è
in loro di grande, mentre ancora si travagliano nel loro sforzo
contro difetti minimi; ma poiché non sono capaci di vincere questi
ultimi resti di imperfezione, non osino insuperbire per i loro atti
eminenti. Ecco, nobilissimo uomo, spinto dalla necessità di accusare
me stesso e tutto attento a mostrare quale debba essere il Pastore,
ho dipinto un uomo bello, io cattivo pittore, che, ancora sbattuto
dai flutti dei peccati, pretendo di guidare gli altri al lido della
perfezione. Ma in questo naufragio della vita, ti supplico,
sostienimi con la tavola della tua preghiera e, poiché il mio peso
mi fa affondare, sollevami con la mano dei tuoi meriti.