Le basi teologiche dell’impegno civile di Ugo Bassi
La statura politica ed il
ruolo di patriota svolto da Ugo Bassi nel periodo risorgimentale, trovano un
ancoraggio profondo, indissolubile e coerente, nella sua figura di sacerdote
ispirato ad una interpretazione radicale e socialmente orientata del messaggio
evangelico. Egli ha incarnato nel suo stesso vissuto quella predicazione
rivoluzionaria che rappresenta, insieme alla biografia di partigiano
dell’indipendenza, il lascito più originale di questo martire della libertà.
Tralasciando gli aspetti più legati al secolo, cercheremo di illuminare e
ricostruire le basi teologiche del suo agire, di quella «teologia
politica» come Carl Schmitt definiva il pensiero di san Paolo, che va,
dunque, in
primis ricercata nella formazione dottrinale di Ugo Bassi innervata,
com’è noto, dalla sua appartenenza alla scuola dei padri Barnabiti.
Ora, senza entrare in profondità nelle vicende di questo Ordine, vale qui la
pena richiamarne le origini per così dire remote, la genesi, che ben spiega su
quali basi spirituali e simboliche il Bassi si sia accostato alle Sacre
Scritture, soprattutto per inquadrare lo spirito dei tempi nei quali venne
formandosi l’orizzonte dottrinale da cui si sviluppò il loro ruolo nel sociale.
Per farlo dobbiamo necessariamente risalire il filo della storia sino alla
nascita dei gruppi evangelici all’interno di quella nuova relazione tra l’uomo,
il Creato ed i suoi simboli, che fu la teologia del XII secolo: la Prima
Scolastica, al cui interno, vasto e accogliente come una Cattedrale gotica,
pieno di fermenti e dibattiti teologici, di germi di rinnovamento e di
allegorie, trovarono posto proprio quei movimenti che fondarono la predicazione
di Ugo Bassi molti secoli dopo.
Per tornare alle appartenenze del nostro, dobbiamo cominciare col ricordare che
i Padri Barnabiti, ovvero l’Ordine dei Chierici
Regolari di san Paolo, come di fatto si chiamano, fu pensato nel 1532 da
Antonio Maria Zaccaria, Bartolomeo Ferrari e Jacopo Antonio Morigia quando,
entrati in contatto con la realtà dell’oratorio dell’Eterna Sapienza a Milano,
si accorsero che la sua missione era in crisi e pensarono così di trasformarlo
in una nuova formazione religiosa che avrebbe dovuto essere composta da tre
collegi: sacerdoti, religiose e laici. Il collegio maschile venne approvato nel
1533 da Clemente VII, mentre due anni dopo Paolo III, con la bolla Debitum pastoralis autorizzava
il collegio femminile a costituirsi in monastero, ponendolo sotto
la regola di sant’Agostino. Subito dopo lo Zaccaria si fece promotore anche del
collegio dei laici, che furono chiamati “coniugati” di san Paolo.
Sin dalle prime uscite pubbliche il nuovo Ordine si impose ai milanesi per le
sue pratiche, il modo di predicare, di vestire e le sue penitenze. A causa del
loro zelo religioso nel richiamarsi al Vangelo furono anche accusati di
pelagianesimo, la dottrina cristiana, poi condannata come eretica, secondo la
quale il peccato originale fu dei soli progenitori ma non macchiò la natura
umana, che ne subì solo le conseguenze. Da questo discende che la volontà
dell’essere umano è in grado di scegliere ed attuare il bene senza la necessità
della grazia divina. L’umanità ha dunque la possibilità, per mezzo della
propria volontà, di obbedire al Vangelo e quindi, conseguentemente, di
assumersi la responsabilità piena dei suoi peccati; i peccatori sono veri e
propri criminali che hanno bisogno per l’espiazione dell’esempio di Gesù e del
suo perdono. E già questo
ci illumina sul substrato dottrinale dell’azione del Bassi, certamente
influenzato dall’idea di praticare il Vangelo come forma di autodeterminazione,
ma soprattutto, lo chiariremo analizzando alcuni passaggi delle sue prediche,
dalla necessità di mettere l’essere umano nella condizione di scegliere
attraverso quella che teologicamente verrà definita nella Scolastica l’«intelligenza evangelica». Questo tratto
della sua cultura teologica emerge chiaramente dall’ultimo discorso di fronte
al plotone di esecuzione, in cui la radice evangelica dell’impegno sociale rifulge
chiarissima ma, come vedremo anche riprendendo alcuni passaggi di un suo
dialogo mentre difendeva Venezia, egli non si ferma certo alla vicinanza con i
derelitti ed alle opere di carità, bensì cerca una soluzione politica di lungo
periodo per attuare l’orizzonte evangelico in tutta la sua radicalità.
E dunque negli echi del pelagianesimo possiamo trovare già le tracce della
visione dottrinale del Bassi ma, ancor più interessante ai nostri fini, è
certamente l’accusa rivolta ai primi Barnabiti di essere seguaci dei Poveri di
Lione, cioè dei Valdesi, che poi sarebbero divenuti tra i principali gruppi
evangelici. Sorti come movimento pauperistico e scomunicati dalla Chiesa
cattolica nel 1184, nel 1523 aderirono alla Riforma protestante nella corrente
calvinista. Per confutare tali accuse le autorità civili ed ecclesiastiche
milanesi sottoposero i Barnabiti a due processi; interessante notare come
proprio alla vigilia del primo, iniziato il 5 ottobre 1534 e conclusosi senza
alcuna sentenza, essi iniziarono a praticare la vita comunitaria in povertà. Il
secondo processo iniziò nel giugno 1536 e terminò con una assoluzione.
Nonostante questo, anzi, proprio per questo, è evidente che nel clima
della piena Rinascenza il Vaticano è ancora sensibile a queste eresie e cerca
di sradicarle totalmente dall’orizzonte dei fedeli. Ma volgiamoci adesso decisamente verso il XII secolo per cercare di
capire il clima teologico che si respirava in quel periodo, dal quale Ugo Bassi
sembra uscito senza soluzione di continuità. In coerenza con il contenuto delle
nostra relazione analizzeremo dunque i due pilastri principali della teologia
del XII secolo e vedremo come ne derivi l’impostazione teologica del nostro
patriota sacerdote e massone.
Il primo pilastro della Scolastica è decisamente la «scoperta» della
Natura, qui con la maiuscola, la Natura naturans di
Aristotele, con tutte le implicazioni e le analogie tra micro e macrocosmo che
consentiranno all’uomo medioevale di cominciare quella elevazione verso il
cielo che vedrà nell’architettura gotica il suo mutus liber e
nell’Alchimia la sua Arte sacra. Quando parliamo di «scoperta» della Natura non
intendiamo il semplice sentimento della stessa espresso dai poeti dell’epoca,
né della sua espressione plastica che pur ne diedero, nei fioriti capitelli
gotici, i Maestri muratori di quel tempo. Parliamo invece di qualcosa di più
profondo; della presa di coscienza cioè, negli uomini del XII secolo, di avere
a che fare con una realtà vivente, presente, intelligibile, le cui forze e
leggi andavano comprese perché essi stessi ne facevano parte. E questa visione,
come si può bene immaginare, aveva implicazioni profonde anche sulla relazione
tra fede e ragione, dove assistiamo ai primi sussulti di quel nuovo equilibrio
che vedrà, ad esempio, la limitazione dei diritti ecclesiali in ambito secolare
voluta dai Re francesi Filippo Augusto e Luigi IX, pur canonizzato come santo,
ed il ricorso a prove razionali nelle contese giudiziarie piuttosto che ai
mezzi dell’ordalia, e così via. Per una descrizione completa di questi aspetti
normativi rinviamo al magistrale volume di Tullio Gregory Anima mundi. La
filosofia di Guglielmo Conches e la Scuola
di Chartres. Ma forse anche in Notre Dame de
Paris di Victor Hugo,
quella scoperta della Natura è descritta altrettanto bene, in particolare nelle
splendide pagine dedicate all’architettura che concepì la celebre Cattedrale
quale compendio dell’Opera alchemica, come ci ricorda Fulcanelli. Ed è dalla convinzione, ripresa dagli Antichi, che l’Universo fosse un
Tutto, un Cosmo tratto dal Caos per volere divino, che nasce il termine universitas usato
in senso assoluto e astratto per designare appunto l’Universo. Senza dubbio un
termine mediato dallo studio di Scoto Eriugena, per il quale la Totalità,
espressione del divino, penetra equamente ed indistintamente ognuna delle
sue parti. Dio, dunque, ha concepito il mondo come un unico organismo vivente.
Per Scoto, inoltre, ragione e fede sono fonti valide di vera conoscenza, per
questo non possono essere in contraddizione; però se così fosse, è la ragione
che deve prevalere. Questa affermazione, assieme alla prospettiva di tendenza
panenteistica che egli sostenne nel De divisione naturae,
gli valsero il sospetto di eresia. Giusto per chiarire il concetto diciamo che
il panteismo e il panenteismo presentano aspetti comuni ma non coincidono
totalmente: il primo vede l’universo pieno di Dio il secondo lo vede come parte
di Dio. E allora, come ci dice Onorio di Autun, il grande testimone di questo
rinnovato uso del termine, universitas-universo,
l’armonia di questo Tutto è tale
proprio perché si esprime nella stessa diversità degli esseri che lo
costituiscono. Est
mundus ordinata collectio creaturarum. L’universitas è
quindi un Cosmo la cui contemplazione riempie di una gioia che avvicina al
divino. Queste schematiche considerazioni sulla cosmo-visione del XII
secolo, sono la prova di un non banale razionalismo ottimista. Tendenze
naturalmente non ben viste dalla Chiesa del tempo; ed è proprio di questo che
Guglielmo di Conches, noto per aver cercato di espandere i limiti
dell’umanesimo cristiano, così si lamenta: «Ignorando le forze della natura,
vogliono che rimaniamo impantanati nella loro ignoranza, negano il diritto alla
ricerca e ci condannano a rimanere come zotici in una fede senza intelligenza».
E Abelardo di Bath, imbevuto di spirito di ricerca e della saggezza dei suoi
maestri arabi, esprime nei medesimi termini la protesta nelle Quaestiones naturales:
«Se trascurassimo di conoscere la
mirabile bellezza razionale dell’universo in cui abitiamo, meriteremmo di
esserne cacciati come un ospite incapace di apprezzare la dimora nella quale
viene accolto». È a questo punto che si manifesta
il parallelismo tra uomo-microcosmo ed universo-macrocosmo. La tesi, già
espressa da Platone il cui pensiero diverrà determinante nella formazione
teologica della Scolastica successiva, sarà così veicolata dal tema di Dionigi
e di Eriugena della «continuità» (continuitas) tra
uomo e cosmo. Come ben rileva Marie Dominique Chenu nel suo La teologia del XII secolo,
questa idea eserciterà all’epoca un fascino pari a quella dell’evoluzione
nel XIX. La chiave dell’intelligenza dell’universo, e dell’uomo al suo interno,
allora, è nell’indagare la relazione ordinata, ma dinamica, che lega tra loro
tutti gli esseri considerati come una «teofania» in cui la causalità e il
significato coincidono. Una visione ecologico-escatologica si direbbe oggi, e
che, trasposta nell’epoca risorgimentale, faceva ricomprendere nelle prediche
di Ugo Bassi anche la contemplazione della bellezza della natura come parte
della liberazione d’Italia. Nell’idea di continuitas è
oltretutto contenuto il concetto che l’attività delle gerarchie divine, che pur
partono dalla Trinità per discendere verso il Mondo, non genera una condizione
di semplice subalternità delle forme inferiori a quelle superiori, ma implica
una partecipazione delle prime al Principio increato dalla Tearchia, così Dionigi
chiama la Trinità, che si trasmette dunque direttamente fino ai limiti
dell’universo ma che, al tempo stesso, unifica tutte le creature nell’ordine e
nella conoscenza, costituendo così, in definitiva, le forme della
partecipazione all’Essere del Vero. Non dirà forse Maestro Eckhart: «L’occhio col quale io vedo Dio, è lo stesso
occhio con cui Dio mi vede; l’occhio mio e l’occhio di Dio non sono che un solo
occhio, una sola visione, una sola conoscenza, un solo amore»?. E ancora,
mi si scusi per questo esempio ulteriore tratto dal sufismo; come ci ricorda
Alberto Venturi nel suo L’esoterismo islamico:
«L’espressione «unicità dell’essere» (wahadat al-wugud),
vuole appunto alludere al fatto che ogni essere esistente partecipa dello
stesso Principio essenziale, di un’unica realtà che dà esistenza al tutto e che
tutto contiene, ma, si badi bene, senza che ciò comporti confusione tra l’Uno
ed il molteplice». Con queste premesse teologiche è facile allora capire il
senso profondo, teofanico appunto, dell’afflato verso l’eguaglianza e la pari
dignità di tutti gli uomini e di tutto il vivente così profondamente sentiti e
predicati da Ugo Bassi. Il secondo pilastro di cui vogliamo brevemente
parlare sono decisamente i movimenti evangelici, la grande fonte di ispirazione
dottrinale ed esegetica del Bassi. Dom André Wilmart, monaco benedettino, noto
medievalista e liturgista, grande esperto della spiritualità medioevale,
affermava appunto che l’origine della spiritualità moderna socialmente
orientata si colloca proprio nel XII secolo. Ora, per non dilungarci troppo e
dovendo scegliere tra i tanti esempi possibili, cominciamo con una citazione di
Stefano di Muret, modesto patrono di un gruppo di «poveri di Cristo», morto nel
1124 che, a chi gli domandava a quali principii ispirarsi per essere un buon
cristiano rispondeva: «Se vi domandano a quale Ordine appartenete,
rispondete a quello del Vangelo, che è alla base di tutte le regole. Questa sia
la vostra risposta a quanti pongono un simile interrogativo. Quanto a me, non
accetterò mai di essere chiamato monaco, o canonico, o eremita: questi titoli
sono così alti per me ed implicano una tale misura di perfezione che non
presumerò certo di applicarmeli». Sette secoli dopo, l’essenza di
questa modestia evangelica riecheggia, speculare, nella invettiva contro «Roma
sentina di vizi», pronunciata a Bologna da Ugo Bassi: «Il libro
di Dio» - dunque il Vangelo - «è troppo completo, perché Papi e dottori
vi possano aggiungere qualche cosa del loro. Ogni cristiano giuri sulla vita
dei propri figli e metta in pegno le proprie sostanze che ne osserverà i
precetti. Chi può si dica cristiano.... se no si chiarisca per infame, per eretico, per rinnegato colui
che tradisce i divini precetti; esca fuori della chiesa, sia da tutti riprovato
e maledetto». Questo proposito
radicale aveva trovato la sua efficacia istituzionale nella Cristianità quando
Francesco di Assisi, presentandosi ad Innocenzo III vincolato dal Concilio
lateranense a non ammettere nuovi Ordini religiosi, gli rispose: «Non ho una
regola nuova; la mia sola regola è il Vangelo». Così il Nuovo Testamento
affermava la sua irriducibile originalità e radicalità nell’organizzazione
della società e del pensiero umano. Il caso di san Francesco, per certi versi
il prototipo dell’operatore socio-evangelico, ci dice dell’incontro tra le
Sacre Scritture ed una società nuova che doveva essere per cosi dire
ribattezzata. Il punto di partenza è evidentemente la povertà, considerata qui
non solo come ascesi morale, ma condizione per l’affermazione del Regno di Dio
in questo mondo. Al tempo stesso, questi movimenti combattono la povertà
economica e quella sociale, proprio come forme che impediscono la povertà
evangelica intesa sia come comunanza di beni sia come rinuncia ai privilegi. La
caratteristica più acuta di questa povertà evangelica è dunque la sensibilità
alla miseria dei poveri che andava riscattata in questo mondo per affermare il
disegno di Dio. E qui si innesta una componente fondamentale per capire
l’ispirazione teologica di Ugo Bassi, e cioè che per questi movimenti i poveri
sono i «nuovi profeti» nati per annunciare il messaggio messianico. È
oltretutto chiaro come, da Francesco di Assisi a Pier Damiani, questa
tradizione profetica conserva ed afferma il rifiuto di scendere a compromessi
col mondo feudale e con la sua ricca chiesa, una contraddizione che così faceva
riflettere Ottone di Frisinga: «Certo sarebbe preferibile una Chiesa povera
a quella ricca, ma se la prima è migliore la seconda è più felice!». Simili
posizioni, comuni a molti alti prelati infeudati, doveva alimentare la rivolta
morale dei movimenti evangelici e provocare così il risveglio di
quell’intelligenza del mistero cristiano che avrebbe portato un radicale
progresso, non solo in teologia, ma anche nella relazione tra la società ed il
clero. Giusto per sostanziare: Francesco era figlio di un commerciante di
stoffe e si fece frate e Valdo era a sua volta un commerciante di Lione che
diede vita autonomamente ad una confraternita; esponenti dunque di strati
sociali che anelavano a liberarsi dal giogo feudale anche con atti radicali
come quelli testimoniati dal poverello di Assisi. In questi passaggi
teologico-politici ritroviamo la fonte delle parole di Ugo Bassi quando dice,
nel suo intervento durante la difesa di Venezia: «Fate come i feudatari di Francia, che in un sol giorno rinunziarono
generosamente ai loro privilegi, e le classi furono eguagliate. Riunitevi nelle
piazze, il migliore di voi divenga il sacerdote di Cristo... si fondi la chiesa
evangelica, si adotti la dottrina di Cristo, nulla più nulla meno. Il popolo
elegga nei pubblici comizi i suoi parrochi ed i suoi Vescovi. I ricchi sulla
mensa sacra vengano a deporre 1’obolo della carità da distribuirsi al povero
fratello; e quella sarà la vera comunione». E dunque il Vangelo, come
dicono sia Francesco sia Ugo Bassi, va praticato sine glossa,
senza quelle spiegazioni cioè che ne svigoriscono il senso per adeguarne
il contenuto alle condizioni terrene date, e la sua testimonianza è il solo
veicolo omogeneo a questa comunicazione. Nascono così le tre operazioni del legere, disputare,
praticare il Vangelo, nelle quali Ugo Bassi è indiscutibile maestro.
L’autentica funziona magistrale della sacra pagina comporta dunque la
predicazione, e la parola di Dio non si compie che nella trasmissione del suo
messaggio. Esegesi, dogmatica e predicazione sono solidali per chi vuole che si
realizzi il Vangelo attraverso una partecipazione all’azione presente della
parola. Alano di Lilla, uno degli autori cari all’agnostico Borges, che lo cita
nel suo racconto l’Aleph,
non considerava forse la predicazione della parola di Dio come l’atto supremo
del cristiano giunto alla perfezione?
Ascoltiamo ancora Ugo Bassi: «Io
parlai al popolo con quella libertà di cui il Redentore fu primo a darne
esempio, il quale se accoglieva di buon grado il pubblicano, non risparmiava
mai gli Scribi e i Farisei. Se io mi mostrai poco amico dei grandi, è che la
maggior parte di costoro, assorbendo più di quanto lor spetta dei beni della
terra, lasciano l’altra parte dei loro fratelli nello squallore e nella
abbiezione; se io divisi i miei denari cogli orfani, colle vedove, coi
derelitti, è che lo stesso Redentore li raccomanda nelle sue sante pagine del
Vangelo. Gesù Cristo costituì gli uomini in comunanza, e venne a effondere il
suo sangue qui in terra per rannodare gli uomini, e stringerli cosi ad un
patto, affinché alcuno non potesse godere il superfluo, quand’altri non fosse
provveduto del necessario; che lasciò appunto il suo Vangelo qui in terra per
insegnare a tutelare il debole contro il potente, l’oppresso contro
l’oppressore. Deplorabile esempio! Il suo Vicario, i suoi seguaci si sono
collegati coi tiranni, ed eglino stessi col male esempio preparano
l’umanità ad ogni sorta di usurpazione, di sacrilegi, di avarizia, e di
barbarie! Apostati in veste di agnelli, siete entrati entro la greggia fedele
per divorare gli armenti. Voi adunque siete fuori del Vangelo, fuori della
comunione dei fedeli. Indietro nemici della religione e di Dio... indietro!!...
Noi faremo causa contro di voi!!... La società si scuote dal suo profondo
letargo; alfine si alza! E noi, forti della parola del Vangelo, spiegheremo il
temuto stendardo. Stendardo precorso dalle riforme, dalle costituzioni, dalle
repubbliche: stendardo che in mezzo ad un’aureola di luce si presenta sovra un
lontano orizzonte, e viene salutato e benedetto dai popoli. È il medesimo
stendardo che sollevò Gesù Cristo al tempo dell’abbrutimento e dell’oltraggioso
servaggio; il suo simbolo è la croce; il suo motto è libertà,
fratellanza, scritto sopra il libro degli Evangeli. Né ciò solamente egli
vedeva, ma affermata cogli altri principii, la sublime eguaglianza nel perdono!».
La chiarezza e l’aderenza di queste parole alla visione del Vangelo come
prefigurazione ma anche pratica concreta verso un ordine terreno basato sul
trinomio che campeggia all’Oriente di ogni tempio latomistico ci pare così
evidente che non dobbiamo ulteriormente commentarle. Ultimo elemento, ma non certo per importanza, che caratterizza questo
periodo e questo movimento, è la ripresa nella Cristianità degli Ordini
cavallereschi. Cavalieri del Tempio, Cavalieri del Santo Sepolcro, sono, alle
frontiere interne ed esterne, milizie che si ispirano alla povertà evangelica;
pensiamo solo al nome dei Templari: Pauperes commilitones
Christi templique Salomonis. E
forse proprio in questo Ordine possiamo ritrovare quella
combinazione tra povertà evangelica e militanza guerriera, fervore religioso e
impegno nella difesa militare dei valori, così consustanziali alla figura di
Ugo Bassi.
Ecco dunque che le idee di Libertà, Uguaglianza, Fratellanza divengono
le componenti stesse della simbologia della croce, dove la Libertà, cioè il
libero arbitrio, rappresenta il suo asse principiale e le sue due braccia,
Eguaglianza e Fraternità, raffigurano il piano sul quale essa deve
necessariamente svilupparsi. La simbologia della croce era così importante per Ugo
Bassi, che egli ne aveva con sé una tricolore, come ci ricorda questo brano
delle Memorie tratto
dalla descrizione della sua predicazione in Bologna: «La solennità del gesto, la maestà degli sguardi e del portamento,
l’abito severo, la croce tricolore sul mantello; il Cristo velato nella destra,
formavano di lui un terribile inesorabile giudice in quel momento. Il popolo bolognese fu
testimonio di tutto questo». Diremo che il Cristo velato
fu consegnato da Pio IX ai volontari che partivano per la guerra contro
l’Austria, ordinando il Pontefice di scoprirlo soltanto il giorno che fosse
stata liberata l’Italia. Possiamo dunque immaginare la reazione di Ugo Bassi al
tradimento del Pontefice. Dobbiamo necessariamente finire qui la nostra relazione ma, in chiusura,
lasciateci riportare almeno l’incipit del suo discorso durante la difesa di
Venezia nel 1848, il cui testo completo si trova nel libro di memorie a lui
dedicato dall’amico Gualtieri ed edito in Bologna nel 1861, e che vale la pena
leggere, dato che si tratta di una vera e propria summa non solo del suo
orizzonte teologico e sociale, ma della temperie risorgimentale in generale.
Ecco dunque le sue parole: «Figlio
mio. Quando al Signore piacerà ritogliere l’Italia dalle mani dell’Austriaco
ladrone, credi tu che l’opera della rigenerazione sia compiuta? Quando l’Italia
fosse una repubblica e tutti fossimo cittadini di una sol patria e avessimo
libere leggi, e il nostro senato, e poderose flotte e forti eserciti, e
fiorissero le lettere, l’arti, il commercio; un gran passo resta a farsi
dall’umanità a cui non pensano i suoi politici ed i suoi guerrieri. Quando
avrai distrutto il dispotismo del tiranno, contro il quale gli uomini sono
almeno affratellati, l’odio il più difficile a vincersi è il dispotismo di
famiglia. A dispetto di tutte le leggi e di tutti i sacri nomi di questo mondo,
a dispetto di tutte le insegne più venerande, delle forme di governo più
libero, tu avrai in ogni casa un despota, in ogni officina un barbaro padrone;
sarà il medesimo che farà rumore sulle piazze esaltando la libertà per tornare
nella sua casa col fiero cipiglio per tribolare la vita dei suoi soggetti. E i
governi a ciò non penseranno; egoisti ambiziosi anch’essi cercheranno
perpetuare il loro nome con monumenti di vanagloria».
Qui siano di fronte ad una visione profetica di alta valenza sociale,
quasi una prefigurazione della necessità di vigilare sempre sulla realizzazione
dei caposaldi della nostra Costituzione inscritti nella sua Prima Parte,
un’opera ancora tutta da compire.
Raffaele K. Salinari
Per gentile concessione del prof. Raffaele Salinari, docente dell'Università di Bologna "Alama Mater Studiorum". Relazione tenuta l''11 novembre 2017 per il Convegno su Ugo Bassi organizzato dalla R.L. Ugo Bassi di Bologna.
Per gentile concessione del prof. Raffaele Salinari, docente dell'Università di Bologna "Alama Mater Studiorum". Relazione tenuta l''11 novembre 2017 per il Convegno su Ugo Bassi organizzato dalla R.L. Ugo Bassi di Bologna.
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