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venerdì 27 novembre 2020

La Maina Terra di amazzoni e guerrieri un territorio greco che i musulmani non sono riusciti mai a domare

 

La Maina

Terra di amazzoni e guerrieri

un territorio greco che i musulmani non sono riusciti mai a domare


La Maina (parte meridionale del territorio dell’antica Sparta) è una penisola del Peloponneso abitato da una popolazione greca che vive in una zona montuosa e impervia e  che termina a Capo Matapan. I manioti furono ultima popolazione greca che non si era ancora convertita al cristianesimo e dove era sopravvissuta l’antica religione pagana ellenica, la loro conversione avvenne a ridosso dell’anno mille, quando da secoli l’impero romano stava combattendo contro le invasioni islamiche nel vicino oriente e che avevano occupato anche diverse isole greche. La conversione fu opera soprattutto di san Nicone il Metanoita, ricordato anche per la fondazione di tre chiese e un monastero a Sparta, dove è sepolto e venerato da secoli. Pur scarsamente abitata (oggigiorno vi vivono poco più di 20.000 persone e, nel passato, raggiunse al massimo 100.000 abitanti) è stata l’unica regione della Grecia rimasta pressoché indipendente per tutto il periodo della denominazione islamica ottomana. I Manioti (detti anche Spartani) infatti abitavano in torri fortificate, in zone difficilmente accessibili e impraticabili e avevano donne tenaci, che combattevano ferocemente insieme ai propri uomini. La Koinon (Comunità) dei manioti fu semi-indipendente per tutto il periodo dell’Impero Romano, che ebbe sempre un forte rispetto per questi discendenti dell’antica Sparta, dove reclutava tra le più efficienti truppe combattenti. Nel 468 distrussero un’armata di vandali e alani mandata da Gaiserico per conquistare la Grecia e durante le invasioni barbariche neppure i Visigoti e gli Avari, che avevano occupato il resto della Grecia, riuscirono a penetrare nei territori di questa bellicosa popolazione. Dopo la conquista crociata di Costantinopoli, che nel nome del cattolicesimo pose fine al millenario impero romano, depredando la città delle sue reliquie (trasportate prevalentemente a Roma) e delle sue ricchezze, i manioti, come un’altra popolazione montanara di fede ortodossa, quella degli zaconi, furono le uniche genti greche i cui territori non furono occupati dalle forze franco-cattoliche del Principato di Acaia. Con la riconquista della Grecia da parte del ricostituito Impero Romano (erroneamente definito bizantino dagli storici contemporanei)  e l’espulsione degli invasori franco-cattolici dalla Laconia, i manioti divennero fedeli sudditi del Despotato di Morea. Dopo la caduta di Costantinopoli (1453) ad opera del Sultano Maometto II iniziò l’aggressione islamica alla Grecia. Nel 1480 l’Impero Ottomano, per sottomettere questo lembo di territorio rimasto indipendente, mandò contro i manioti 2000 fanti e 300 cavalieri che furono attaccati e sterminati dai ribelli manioti guidati dal comandante Kladas, che successivamente, sterminarono tutti i turchi e i mussulmani che ivi si erano insediati nella Piana di Laconia.. Dopo tale atto per oltre un secolo i mussulmani ottomani si ben guardarono di attaccare questi fieri discendenti di Sparta. Soltanto nel primo decennio del XVII secolo un esercito ottomano formato da più di 20.000 uomini e 70 navi riuscì, sia pure per poco, a sottomettere la Maina. Nel 1659 un esercito di 13.000 manioti sconfisse gli ottomani e liberò Calamata (Peleponneso greco) dal giogo islamico e nel 1667 navi corsare maniote attaccarono la flotta turca incendiando numerose navi per aiutare i loro fratelli dell'isola di Candia difesa, dai veneziani. Quando il gran Visir mandò una flotta guidata da Hasan Baba per sottometterli, questi attaccarono le navi e fecero strage dei turchi. Alla fine del XVII secolo, anche grazie al tradimento del potente clan dei Gerakaris, la Mania passò sotto il dominio ottomano e una parte rilevante della popolazione fuggì in Occidente, come i Latriani che nel 1670 si stabilirono a Livorno (dove presero il cognome Medici), altri a Volterra o a Napoli (qui Tomaso Asanis Paleologo fece costruire una chiesa greco-ortodossa). Il clan degli  Stephanopoulos si stabilì in Corsica e da qui successivamente in Sardegna, creando un insediamento a Montresta. Nel ‘700 i manioti si resero nuovamente indipendenti con Sua Altezza Gerakarios Limberakis, governatore della Maina e signore di Rumelia (terra dei Romani). Nel 1770 i Manioni furoni tra i promotori della sollevazione promossa dall’ammiraglio russo conte Aleksey Grigoryevich Orlov. In quell’anno una Legione composta da 500 manioti e 6 russi debellò un contingente di ben 3.500 soldati ottomani. Truppe ottomane che erano penetrate nella Maina vennero attaccate nottetempo ad Almiro dai guerrieri e amazzoni mainite, in tale battaglia  i turchi persero oltre 1.700 uomini a fronte di appena 39 perdite maniote. Dopo la fine della rivolta, volontari manioti combatterono contro gli ottomani e a fianco dei russi in Crimea dove operò una Legione al comando del maggiore Stephanos Mavromicalis. Per sottomettere i manioti la Sublime Porta mandò ingenti truppe turche e albanesi. A Kastania le Case-Torri del clan Kolokotronis resistettero per 12 giorni ad un esercito ottomano di oltre 16.000 uomini guidato da Haci Osman. Le Torri erano difese da 150 manioti in armi, sia uomini che donne, molti dei quali morirono in battaglia e gli altri, catturati furono torturati e uccisi per smembramento. La moglie del comandante Kostantinos Kolokotronis, vestita da guerriero maniota riuscì a fuggire col figlio Theodoros, che successivamente diventerà uno degli eroi dell’indipendentismo greco. Dopo Kastania le truppe ottomane di Haci Osman avanzarono verso Skoutari per attaccare le Torri del clan Grigorakis ma una milizia di clefti manioti (i clefti erano delle milizie irregolari anti-turche, simili agli aiduchi operanti negli altri paesi balcanici e ai cetnici serbi) formata da 5.000 uomini e 2.000 donne attaccò i turchi nella Piana di Agio Pigada. L’esercito ottomano perse oltre 10.000 uomini in battaglia e il resto dovette fuggire e ripiegare verso la Laconia, a dimostrazione che non solo negli uomini ma anche nelle donne della Maina scorreva il sangue guerriero di Sparta. Dopo tale battaglia la Maina fu la base delle milizie ortodosse dei clefti e i suoi porti si trasformarono in basi di pirateria anti-turca. Nel 1803 una flotta ottomana guidata dall’Ammiraglio turco Seremet fu respinta dai manioti della roccaforte di Zatenos e nel 1807 analoga sorte ebbero gli attacchi turchi contro la città di Gytheio. Anche l’attacco ottomano del 1815 fu respinto dai guerrieri mainiti guidati da Theodorobey (Theodoros Zanerakos). Nel 1821 i manioti furono i primi ad aderire militarmente al movimento indipendentista greco Filiki Eteria e davanti alla Chiesa degli Arcangeli Michele e Gabriele di Areopoli iniziarono la guerra d’indipendenza una settimana prima che la sollevazione iniziasse anche nelle altre località greche. La bandiera delle truppe mainote era bianca con una croce blu al centro e il motto “Vittoria o Morte” con sopra lo scudo spartano, non usarono lo slogan “Libertà o Morte” come tutte le altre formazioni dell’Eteria perché la Maina era già da secoli libera dal giogo ottomano. Il 23 marzo 1821 truppe maniote guidate da Petros Mavromicalis, comandante in capo delle truppe spartane (così erano denominate le truppe maniote) liberò Calamata e, successivamente attaccò gli ottomani in Messenia e Laconia. Un contingente spartano di 300 uomini diretto da Theodoros Kolokotronis liberò l’Accadia sconfiggendo un contingente turco di 1.300 uomini, mentre il 12 settembre truppe spartane occuparono Tripoli, capitale ottomana del Peloponneso. Nel 1824 l’esercito ottomano, rafforzato da un enorme armata egiziana al comando del Chedivè (vice-Re) d’Egitto Mehmed Ali riuscì a soffocare l’insurrezione greca e a riprendere il controllo di tutto il territorio, ad eccezione della Maina e della città di Nauplia difesa da contingenti spartani. Il 21 giugno 1826 Mehmed Ali, desideroso di soffocare l’ultimo territorio ribelle della Grecia, attaccò la Maina con 7.000 soldati e due navi da guerra ma fu respinto davanti alle Mura di Vergas da 2.000 guerrieri manioti, rafforzati da 500 rifugiati greci. Le armate islamiche furono costrette ad evacuare la Maina subendo la perdita di oltre 2.500 uomini. Il 24 giugno 1926 il comandante delle forze ottomane-egiziane mandò una flotta contro la città portuale di Areopoli priva di guarnigioni essendo tutti gli uomini a combattere ad Almyro e Vergas, 1.500 soldati egiziani sbarcarono nella Baia di Diros ma alla notizia i sacerdoti ortodossi iniziarono a richiamare il popolo al sono delle campane e centinaia di donne e vecchi che lavoravano nei campi assaltarono i turchi con roncole, falci e forconi ricacciando indietro i soldati islamici che furono costretti a fuggire e risalire sulle navi. Nella battaglia gli egiziani persero 1.000 soldati e le vittoriose donne di Diro sono passate alla storia come “le Amazzoni di Diro”. Ibhraim Pasha al fine di sottomettere la Maina mandò una armata araba di 6.000 uomini che rasero al suolo la Casa-Torre del clan Stathakos ma furono sconfitti a Polytsaravos dalle milizie clefte-spartane forti di 2.500 uomini. Nella battaglia  gli arabi ebbero 400 morti a fronte di appena 9 manioti. Questa battaglia è ritenuta dagli storici come l’inizio della liberazione della Grecia dalla dominazione ottomana. Per concludere vorrei segnalare che in Sardegna, nella zona nota come Pianàrza, tra il fiume Temo e il Monteferru esiste un paese, di nome Montresta (OR) fondato nel 1746 da una cinquantina di famiglie maniote originarie della città di Oitylo e provenienti da un precedente insediamento in Corsica, su un territorio messo loro a disposizione dal Re di Sardegna Carlo Emanuele III. In detta cittadina, che oggi ha poco meno di 500 abitanti, la lingua maniota (una lingua greca arcaica che al pari del griko o greco-salentino ha molti doricismi) è estinta e la popolazione parla italiano o sardo e le uniche testimonianze rimangono in alcuni cognomi, quali Stefanopoli (Stephanopoulos), Comneno o Passero (Psaròs).

mons. Filippo Ortenzi
Rettore Università Ortodossa San Giovanni Crisostomo

domenica 22 novembre 2020

santa Cecilia patrona della Musica

            santa Cecilia patrona della Musica


Santa Cecilia è stata santa sposa e nobile romana convertita al cristianesimo, si narra che il giorno delle nozze nella casa di Cecilia risuonassero organi e lieti canti ai quali la vergine, accompagnandosi, cantava nel suo cuore: “conserva o Signore immacolati il mio cuore e il mio corpo, affinché non resti confusa”. Da questo canto del cuore è stata presa come di protettrice dei musicanti. La santa, insieme al marito Valeriano (anche lui venerato come santo) era dedita alla pietà cristiana e alla sepoltura di tutti i poveri corpi che incontravano lungo la loro strada. La Legenda Aurea narra che papa Urbano I, che aveva convertito il marito di lei Valeriano ed era stato testimone del martirio, «seppellì il corpo di Cecilia tra quelli dei vescovi e consacrò la sua casa trasformandola in una chiesa, così come gli aveva chiesto» oggigiorno tale leggenda è reputata non veritiera in quanto non risultano storicamente persecuzioni anticristiane durante il pontificato di Urbano I (venerato come santo e Confessore dalla Chiesa Cattolica). Sulla santità di Cecilia vi è una prova fisica, infatti nel 1599, durante i restauri della basilica, ordinati dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati venne ritrovato un sarcofago con il corpo di Cecilia incorrotto ed emanante profumo di gigli e di rose. Papa Paolo VI nel 1969 con il motu proprio “Pascalis Mysteri” reputando leggandario e non veritiero il sinassario di santa Cecilia la escluse dall’elenco dei santi insieme a san Giorgio, santa Barbara, san Cristoforo, santa Caterina d’Alessandria e un’altra trentina di santi dei quali non si sono trovate prove certe storiche della  loro  esistenza,  anche  se  nel caso di santa  Cecilia  abbiamo  almeno il corpo incorrotto.        Di questi santi comunque santa Cecilia è l’unica che, su pressione dei musicisti di tutto il mondo, la Chiesa Cattolica ha fatto marcia indietro riammettendone il culto. Per le Chiese Ortodosse che riconoscono particolare valore all'osmogenesi (profumo di santità) emanato dai resti di un santo e per il martirio subito, la santa rimane un esempio di pietà cristiana e di testimonianza della fede.


mons. Filippo Ortenzi

Rettore Università Ortodossa San Giovanni Crisostomo



giovedì 19 novembre 2020

Il Culto dei defunti presso gli ortodossi

  Il Culto dei defunti presso gli ortodossi


Il mese di novembre nella tradizione italiana e in generale della Chiesa cattolica latina è il mese dedicato alla commemorazione delle anime dei defunti. Nella tradizione ortodossa, non vi sono invece periodi dell'anno dedicati all'uopo, ma ogni momento è buono e giusto per fare memoria dei nostri cari.

Quando si parla di defunti, è ovvio che il tema principale è la morte, che per ogni cristiano dovrebbe rappresentare il momento più solenne della vita! Si sta passando infatti dal mondo "finito" a quello eterno e quindi "infinito". 
Tuttavia come ricordato nell' opera "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" di G. Leopardi, spesso l'uomo teme persino il suo giorno natale : "Forse...(...)..dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale!", l'uomo è tentato a cadere nella disperazione di una vita insignificante, proprio perchè segnata da un epilogo come la morte! 

Per il vero cristiano, la morte del corpo è la fine del purgatorio, che se è stato compiuto bene ci riserverà la vita eterna accanto a nostro Signore Gesù Cristo! In questa ottica, davanti all'imminente morte di una persona cara, non bisogna farsi prendere dallo sconforto e bisogna chiamare il prete affinchè ci si prenda cura della sua anima, bisogna somministrargli l' unzione degli infermi, la comunione, la confessione e pregare! Il Signore saprà se guarirlo o no! Il malato se cosciente deve partecipare attivamente alla preghiera!
E' alquanto inutile, anche se comprensibile, lasciarsi prendere dal pianto e privare i nostri cari del conforto finale, dato dalla nostra preghiera, segno del nostro conforto e sostegno al trapasso!

Nella tradizione ortodossa, dopo il consueto lavaggio e vestimento della salma, viene posta una croce nelle mani, giunte sul petto del defunto, a simboleggiare che la persona ha preso la sua croce e ha seguito Gesù nella sua vita. Null'altro deve essere messo all'interno della bara, neanche se il defunto aveva oggetti particolari alla quale era legato in vita perchè non può prendere con sé nulla di terreno, ma solo le ricchezze spirituali che ha costruito.
La sepoltura di un cristiano ortodosso avviene solo dopo il funerale in chiesa e deve avvenire in una bara di legno posta nella nuda terra, affinchè il corpo possa tornare facilmente alla terra. Una semplice croce o una piccola lapide con incisa una croce starà a testimoniare il luogo di sepoltura.

La cura spirituale e la commemorazione del defunto continuano per 40 giorni dopo la morte, giorni dove se possibile bisognerebbe commissionare una messa al giorno, o in alternativa almeno il terzo, nono e quarantesimo giorno, in occasione appunto del terzo, nono e quarantesimo giorno di commemorazione, è tradizione offrire i cosiddetti "pasti memoriali" ad amici e parenti intervenuti, invitando anche poveri e bisognosi, una buona opera in onore del defunto. Ai pasti memoriali è tradizione servire il Kolivo, grano bollito con aggiunta di miele e frutta secca, il grano a memoria del fatto che come il seme sepolto genera nuova vita anche noi siamo sepolti per una nuova vita e il miele e la frutta secca a significare la dolce vita in Cristo che ci attende dopo la morte!

 Padre Gianni de Paola

lunedì 16 novembre 2020

Simbologia della Croce Ortodossa


Simbologia della Croce Ortodossa


 

Guardando una Croce ortodossa, ciò che solitamente cade subito all’occhio è il “predellino inclinato” posto nella parte inferiore ove poggiano i piedi di Gesù. Tuttavia la Croce della tradizione ortodossa è piena di simbolismi e segni che rimandano a fatti delle sacre scritture, rendendo di fatto il Simbolo per eccellenza della cristianità uno scrigno  che custodisce il cuore della professione di fede del cristiano.

Vediamo di analizzare alcuni segni, almeno i più appariscenti:

1. La croce ortodossa non ha appeso il Cristo, inteso come la rappresentazione  tridimensionale dell’uomo, ma sulla scia di non apprezzare le statue, bensì al massimo le icone, sul crocifisso tradizionale ortodosso troviamo raffigurato Cristo Crocifisso, il nostro Salvatore! C’è da notare che non porta la corona di spine e che i suoi piedi sono inchiodati singolarmente, con due chiodi diversi. Dietro il corpo sono raffigurate la lancia, con la quale gli venne trafitto il costato e la canna con in punta una spugna, con la quale gli porsero l’aceto da bere.

2. Sopra la testa possiamo trovare scritte le espressioni in greco "IC XC NI KA'" che significano “Gesù Cristo vince”. Sulla  tavola più in alto (come in quella latina) sono incise le lettere INBI, in greco (in latino INRI), incisione imposta da Pilato per scherno e che significa “Gesù di Nazaret, Re dei Giudei”.

3. Sulla barra centrale, dove sono distese le braccia e inchiodate le mani, troviamo le raffigurazioni del sole (a sinistra) e della luna piena (a destra) che ricordano un passo di Gioele “Il sole si muterà in tenebra, e la luna in sangue” (GI 2:31). sopra le braccia troviamo l’iscrizione “Il Figlio di Dio” mentre sotto di esse “Ci prosterniamo davanti alla tua Croce, o Sovrano, e glorifichiamo la tua santa Risurrezione”.

4. Veniamo infine alla barra diagonale su cui sono inchiodati i piedi. Non vi sono documenti storici e archeologici che ne garantiscono la realtà, ma nella tradizione ortodossa ormai ha assunto un tale importante significato che non potrebbe non esserci e tra l’altro è degno di venerazione secondo quanto riportato nel Salmo 98:5 “Adoriamo lo sgabello dei suoi piedi ..”La Croce ortodossa assume le sembianze di una bilancia, simbolo della giustizia o del “Giudizio”, Gesù infatti fu crocifisso in mezzo a due ladroni, di cui uno, per essere pentito dei propri errori finì in paradiso, l’altro all’inferno, pertanto la parte alta della barra indica l’ascesa al paradiso, la parte bassa la discesa all’inferno.



☦️Padre Gianni de Paola

domenica 15 novembre 2020

DALL’AMORE AL SUICIDIO: I FRUTTI CONTAMINATI DELLA SOCIETÀ ANOMICA

 DALL’AMORE AL SUICIDIO: 

I frutti contaminati della società anomica

«C’è un interesse in ciò che è nascosto e ciò che il visibile non ci mostra. Questo interesse può assumere le forme di un sentimento decisamente intenso, una sorta di conflitto, direi, tra visibile nascosto e visibile apparente.» - Rene Magritte

Che cosa è l’amore? E’ un fatto individuale o investe aspetti di natura sociale? E se sì, che influenza ha la società anomica sulla capacità di amare degli uomini? Dal punto di vista biochimico possiamo affermare che l’amore garantisce la sopravvivenza della specie mediante una serie di ricombinazioni continue del DNA, cosa che assicura la sussistenza di una continua e necessaria variabilità genetica. Il sesso, di conseguenza, diventa lo strumento atto a garantire la discendenza della specie. L’amore è ontologicamente un sentimento fondamentale, supportato dal meccanismo biochimico che gestisce i complessi stadi emotivi degli individui ed è localizzato e gestito in una specifica area del nostro cervello conosciuta come nucleo accumbens. Questa struttura cerebrale sovrintende il nostro sistema di premialità, determinando gli stimoli piacevoli e tutta l’energia positiva che ci caratterizza, mediante la quale, riusciamo a sentire gioia, contentezza, piacere dei successi, euforia sino alla sublime estasi di un bacio. In ogni emisfero cerebrale risiede un nucleo accumbens, la complessa area celebrale regolatrice del senso di piacere, del consolidamento delle cose che apprendiamo, dell’euforia fino alla garanzia di sussistenza di un intero sistema motivazionale che ci porta a vivere ogni giorno i piaceri del nostro sé bios interrelato con il nostro sé psichico all’interno dell’ambiente in cui siamo inseriti e con cui interagiamo. Gli ultimi studi delle neuroscienze hanno dimostrato, però, che a questa specifica struttura cerebrale non sono legate solo le esperienze piacevoli, bensì essa coordina anche gli scenari avversi inducendo gli stimoli necessari ad eludere situazioni che possono determinare disagio. Il nucleo accumbens risulta fortemente connesso al sistema limbico, connessione garantita mediante la sua parte esterna detta shell che regola il livello di dopamina, serotonina ed altri neurotrasmettitori la cui concentrazione è strettamente legata agli stati emotivi individuali. Lo shell avvolge la zona centrale detta core, che determina, a sua volta. il set dei movimenti connessi alle emozioni. Questa struttura complessa ci aiuta a pianificare e valutare situazioni, facilitare l’apprendimento, la comprensione e la memorizzazione arrivando ad influire anche sui piaceri legati a sesso e cibo e ciò in funzione del “percorso dopaminergico”, il neuro trasmettitore del piacere e della felicità ma, purtroppo anche della dipendenza. Il nucleo accumbens di fatto attiva le motivazioni dell’individuo, secondo la topica che, definisce Rete 1 la sede dell’euforia, del piacere e della gioia attivate dalle encefaline, mentre l’altra e identificata come Rete 2 è la sede della depressione, dell’ansia e insonnia, attivata dalle dinorfine. Le strutture cerebrali innanzi descritte sono collegate al cingolato anteriore, e siamo così giunti allastruttura ove nasce “l’euforia da cotta”. A questo punto possiamo transitare, edotti, da una fredda ed arida trattazione biochimica al legame con quello che possiamo chiamare “amore che si avvicenda”, che parte dal primo stato, quello dell’infatuazione, il quale a seguito di input generati da sensi ed olfatto provoca il rilascio di dopamina, la molecola della felicità. L’oggetto del nostro amore diviene la nostra droga, e mentre in lui aumenta il testosterone in lei aumenta il livello di estrogeni. La “cotta” esplode in tutta la sua sensazionale magnificenza percettiva. L’attaccamento è lo stato successivo che in genere esplode nell’arco di 180 giorni dal primo incontro, per cui alla dopamina si aggiungono altre molecole come la feniletilamina che amplia gli stati emotivi esaltanti. La risultante di tutto ciò è un letterale impazzimento d’amore dovuto alla riduzione di serotonina, regolatore dell’umore, e qui vale il detto “l’amore è cieco” e questo perché i complessi meccanismi biochimici limitano le capacità di giudizio critico. Ed è qui che la fase di attaccamento si affievolisce visto e i livelli di cortisolo, ormone dello stress, aumentano trasportandoci nella fase della passione con rilascio di oxitocina che spinge a provare sensazioni di dolcezza e tenerezza. Si giunge infine, all’ultima fase di questo processo ciclico: il bivio, durante il quale il sistema limbico valuta ansie e paure, seppur continuando a produrre endorfine, sostanze il cui tenore è elevato durante i rapporti sessuali e che generano sensazioni piacevoli e di euforia, e quindi le fasi cicliche dell’amore ricominciano. E se al bivio il processo si blocca? L’andamento ciclico delle fasi d’amore si interrompe e irrompe la figura dell’abbandonato/a che diventa lo stato emotivo più doloroso da gestire. Allora i livelli di dopamina salgono vertiginosamente per cui ritorna un desiderio ossessivo-compulsivo rivolto verso la persona amata. In molti casi il soggetto “abbandonato” presenta dopo un breve periodo una sindrome depressiva, spesso talmente grave da incidere con ferite nell’anima arrivando a condizionare negativamente la qualità della vita dell’individuo per un lungo periodo. Ma l’amore fin qui descritto è visto prevalentemente nell’ottica biochimica, ma esiste una via di lettura alternativa da percorrere per comprendere il fenomeno dell’innamoramento nei suoi ulteriori e molteplici aspetti chiedendoci “di chi”, in che “contesto” e “come” ci siamo innamorati? È chiaro che l’amore costituisce un evento che riorganizza interamente il nostro cervello nel momento in cui veniamo in contatto con una persona che ci attrae Ciò pervade il nostro sistema sinaptico, tutti i neurotrasmettitori si attivano determinando la pulsione attrattiva, lo stato euforico, l’eccitazione ed anche l’ossessione dell’altro. Tutto questo ci distoglie dal contatto con la realtà quotidiana perché in maniera incontrollata pensiamo sempre a quella persona della quale costruiamo dentro di noi un modello predittivo, finalizzato ad anticipare ciò che penserà, ciò che potrebbe provare, quali saranno le sue reazioni agli stimoli proposti dal nostro agire nella costante paura di sbagliare ed essere male interpretati. Qui nasce un grande dilemma, ed esso appare quando il modello mentale costruito incontra la realtà. Nella maggioranza dei casi gli scenari previsionali divergono da ciò che avviene e allora è lecito chiedersi se di fatto noi ci innamoriamo di un’altra persona oppure soltanto dell’idea che abbiamo costruito di essa? I meccanismi biologici dei vari stati connessi all’amore li abbiamo tutto sommato analizzati, e a questo punto par d’uopo interrogarsi circa le interrelazioni tra il sé bios e il sé psichico di un individuo nella fase di innamoramento e del ruolo che gioca la realtà. Ma cos’è la realtà? La si può identificare solo con il mondo fisico? Che relazione ha la realtà con lo stato mentale connesso ad esempio a un incubo da cui ci svegliamo riconnettendoci d’improvviso ad un mondo ed a una realtà vissuta e abbandonata nella fase onirica. Ciò che rappresenta la realtà a questo punto può essere definita solo individuando specifiche condizioni psicofisiche, in un determinato contesto spazio temporale ed è pertanto e comunque solo il frutto della nostra immaginazione. Ma la nostra identità personale, così complessa specie se rapportata ai fenomeni legati alla sfera emotiva e nello specifico quella affettiva, ha un legame comunque collaterale con gli usi e le consuetudini sociali? una persona che fa uso di stupefacenti, alterando il suo sé psichico, in che modo gestirà emozioni e sensazioni nei confronti dell’altro da sé? Gli stati di alterazione psichica indotti da sostanze chimiche rimbalzano da individuo a individuo e il diffuso uso specie di droghe porta solo a effimeri risultati in cui stati di onnipotenza e superamento di ogni difficoltà si alternano a stai depressivi e stati comportamentali patologici. Non si ama più! alterare chimicamente Il sé psichico rende gli individui incapaci di amare e si finisce per simulare condivisione artata di buoni sentimenti diffusi in ogni dove, finalizzati solo al vano e inutile tentativo di manipolazione dell’altro nella speranza di rendere invisibile il proprio stato di grave disagio e comunque trarre vantaggio dal rapporto interpersonale. Una nuova e diversa realtà viene proposta a seguito della diffusione trasversale delle droghe in tutte le fasce sociali, ma questo è solo un approccio deterministico strettamente connesso alla diffusione di sostanze psicoattive, atte ad attenuare il dolore di una presunta inadeguatezza alla gestione delle interrelazioni sociali, in un contesto ove la fatica del vivere si frappone all’ossessione di dover apparire in antitesi alla certa consapevolezza di non essere adeguati. Allora in questo caso non è l’alterazione chimica che determina lo stato della realtà percepita, ma è il deficit psicologico, dalla necessità di attenuare degli effetti inconsci degli archetipi, i modelli primordiali impressi nella matrice cerebrale, direttamente legati ai comportamenti di specie ed in particolare nella relazione uomo-donna, con una palese asimmetria tra il ruolo femminile del modello “cacciatore-raccoglitore” e quello maschile, oggi depauperato a seguito del deficit di mezzi di comunicazione simbolicamente generalizzati che l’individuo maschio non può più ostentare rispetto all’alter femmina che paradossalmente riesce ancora ad esprimere il ruolo suo decisionale circa la scelta nel rapporto di coppia Tutta la struttura sociale viene lesa da questa commistione di situazioni devianti che a livello sociale comportano una sindrome lesiva delle relazioni tra individui, tra individui e sovrastrutture sociali e tra le sovrastrutture stesse. E’ questa la rappresentazione che descrive la mortale anomia sociale. A questo punto è necessario riportare il discorso su un piano più umano, meno vivisezionante nei vari aspetti positivi e negativi biologici e chimici e comportamentali. Parlo dell’agire umano rapportato alla complessità degli stati emotivi individuali. Utilizzerò quindi uno strumento alquanto singolare per gestire questa transizione, uno strumento semplice ma efficace per i suoi alti contenuti simbolici e cioè una favola, la favola del “Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry. Vi siete mai chiesti quante volte avete detto al compagno o alla compagna “Ti voglio bene”? E quante volte avete usato la frase “Io ti amo”? “Ti voglio bene” e “Io ti amo” sono due affermazioni equivalenti? Una implica l’altra? Rappresentano due elementi complementari o alternativi di una stessa condizione emotiva? O sono affermazioni solo legate ai diversi stadi del ciclo dell’amore prima descritto? E qui ci aiuta a capire la favola……. “Ti amo”, disse il Piccolo Principe. “Anche io ti voglio bene” rispose la rosa. “Ma non è la stessa cosa” rispose lui. “Voler bene significa prendere possesso di qualcosa, di  qualcuno. Significa cercare negli altri ciò che riempie le aspettative personali di affetto, di compagnia. Voler bene significa rendere nostro ciò che non ci appartiene, desiderare qualcosa per completarci, perché sentiamo che ci manca qualcosa.” E in queste parole è rappresentata la distanza abissale tra il sentimento del voler bene e la condizione privilegiata di poter esprimere amore. Voler bene istaura un rapporto di aspettative bidirezionali, si ripongono nell’altro aspettative e risposte che servono a soddisfare unicamente nostri bisogni e necessità Si tratta di “impossessarsi dell’altro”, riversando e cercando un egoistico riflesso mediato della propria immagine interiore, delle aspettative personali di affetto, di vicinanza, di compagnia ed anche di condivisione. Tutto quanto l’agire è finalizzato a rendere nostro, specie a livello interiore, ciò che non ci appartiene e voler quindi appagare il nostro desiderio di completamento desiderando qualcosa sempre desiderato e che ci manca e che vedi riflesso nell’altro e tu vuoi e pertanto devi appropriartene. Voler bene diventa quindi uno stato in cui “attaccarsi ad una persona” viene attuato in funzione dei propri bisogni e nell’impulso di soddisfacimento delle nostre necessità. A causa della singolarità autoreferenziale che contraddistingue ogni individuo, difficilmente le condizioni di soddisfacimento reciproco nella condizione del “volersi bene”, costituiscono un modello stabile per cui esiste la probabilità che il rapporto di coppia diventi asimmetrico e quindi se le aspettative riposte nell’altro non sono ricambiate in maniera soddisfacente, paradossalmente ci sentiamo delusi ed inadeguati. Amare è un rarissimo stato di grazia che dona la capacità di vedere il mondo con gli occhi dell’altro, desiderare il meglio per l’altro anche se le motivazioni dell’agire sono all’opposto. Amare è permettere all’altro di essere felice, anche quando le condizioni di vita conducono a percorsi diversi. E’ un sentimento disinteressato che nasce dalla propensione a donarsi nei confronti della persona amata, pertanto l’amore non può essere fonte di sofferenza così come avviene nella condizione di voler bene ad un altro. L’assenza di dolore nell’amore è determinata dal fatto che non ci si aspetta nulla in cambio, il sentimento esiste per il sublime e puro piacere di donare la propria interiorità assoluta all’altro. Questa profonda condizione dell’essere parte però dal fatto che si può amare solo chi conosciamo profondamente perché amare significa affidare all’altro da sé la propria vita e la propria anima in modo assolutamente disinteressato. La conoscenza dell’altro diventa un elemento fondamentale, poiché il “salto nel buio” determinato dalla meravigliosa condizione di provare amore, non prevede condizioni di restituzione e risarcimento di ciò che ha un valore assoluto e cioè l’anima ceduta. La conoscenza dell’altro significa sapere delle sue gioie e dei suoi dolori, degli stati di euforia e di sconforto, dei suoi successi e delle cadute che hanno scandito la vita dell’altro, accettando uno stato di “sintonia mentale” che va oltre il bene e il male, oltre il tempo e lo spazio, in un universo fatto di gioia e felicità riflessa negli occhi dell’altro. Ma esiste un vincolo, non possiamo amare chi non conosciamo, perché l’amore è eterno ed unico e questo stato prescinde inspiegabilmente da qualunque azione neuro-chimica, costituendo uno stato comportamentale complesso e attribuibile solo a chi riesce ad avere la fortuna di avere qualcuno da amare. Nella società anomica la condizione di “volersi bene” diventa particolarmente difficile, gli assetti socioeconomici, il lavoro, l’instabilità della famiglia determinano alterazioni di questo rapporto bidirezionale, dopo poco tempo si rimane ambedue delusi nel rapporto di coppia. Finita la passione neuro-chimica si sconfina nelle aride secche delle opportunità e dei mancati traguardi, della delusione delle aspettative e su larga scala il rapporto di coppia subisce delle modificazioni del suo iter evolutivo andando ad intaccare le influenze moderatrici delle consuetudini definite dal set delle dotazioni culturali connesse al rapporto di coppia nelle specifiche realtà microeticniche. La società globalizzata incide su l’eterogeneità degli stati emotivi del singolo individuo che è fortemente influenzata dagli indirizzi e dai modelli di “labeling” sociale imposti dai mass-media. Si privilegia la capacità di ostentare solo l’apparenza, mentre si cerca di annullare l’interiorità, l’intelligenza e la fantasia Social network e format televisivi, concorrono a condizionare il processo di definizione della propria identità, personale ed anche sessuale specie quando si è indotti a confrontarsi con un effimero quanto vuoto modello comportamentale che ha ragione di esistere solo ed esclusivamente sui palcoscenici televisivi e nelle campagne pubblicitarie. Concludo affermando che è ormai nulla la capacità di amare degli individui mentre è di difficile realizzazione anche lo stato del “volersi bene”, per cui la solitudine pervade gli uomini che non riescono più a rapportarsi adeguatamente sia sul piano sia emotivo che su quello razionale e quindi il dolore derivante da una percezione di realtà distorta, che non ci piace, trova sfogo solo ed esclusivamente in varie forme di dislocazione emotiva. Prima di giungere allo stato patologico della dissonanza cognitiva si tenta in extremis un recupero di umanità e di rapporto affettivo con qualcosa che si muove, che vive e che risponde ai nostri richiami. un qualcosa che possiamo conformare egoisticamente alle nostre abitudini e che nel contempo non ci può contraddire né creare problemi: quindi compriamo un cane! Rimando alla prossima puntata in cui analizzeremo gli effetti sociali ed individuali delle tecniche di controllo sociale.


ing. dott. prof. Ambrogio Giordano

Pro-Rettore Università Ortodossa San Giovanni Crisostomo

Ambrogio Giordano, Presidente Nazionale della Fraternità Ortodossa e membro della Curia e del Consiglio Nazionale Ecclesiastico della Chiesa Ortodossa Italiana è nato a Foggia il 5/9/1961. Attualmente ricopre la carica di Dirigente Tecnico presso AMIU Puglia Spa. È laureato in Ingegneria Civile ed Ambientale, Sociologia indirizzo mass media e comunicazione, Pianificazione Territoriale Urbanistica e Ambientale ed ha anche conseguito un Master universitario di II Livello in Scienze Criminologiche. Da anni si occupa di problemi inerenti l’ambiente, modelli matematici e temi sociali collegati al mondo del lavoro ed ai fenomeni di devianza sociale, collaborando con numerose Organizzazioni, Enti ed Associazioni con finalità sociali e culturali. Attualmente è presidente del comitato tecnico scientifico dell’Associazione Rinascita e Rose. Ha collaborato alla stesura di numerosi testi organizzando e presiedendo convegni inerenti tematiche legate alla filosofia, alla logica matematica e tematiche socio-economiche. Tra i suoi interessi la filosofia, la logica e le scienze sociali. Molti dei suoi scritti sono rintracciabili su numerosi blog e sui social network.

venerdì 13 novembre 2020

HA SENSO NEL MONDO MODERNO LA RISCOPERTA DELLA SPIRITUALITA' DEI PRIMI MONACI D'ORIENTE?

Ha senso nel mondo moderno

la riscoperta della spiritualità d'oriente?



Il cammino d'interiorizzazione seguito dai monaci può apparire alla nostra coscienza moderna, affannata nel compimento di azioni esteriori, inutile o per lo meno rinunciatario di ciò che chiamiamo, con termine solenne, gli impegni storici. Se, con uno sforzo notevole di mente, cerchiamo di immaginare il giudizio che un monaco potrebbe dire della nostra affannosa ricerca dell'azione, esso potrebbe esser formulato così: "agli uomini moderni, religiosi o no, cercano di ricoprire con lo stordimento del fare e del discorrere - discorrere è perseguire un sentiero che porta alla distruzione - il proprio interiore vuoto”. L'inversione delle energie dall'esteriorità verso l'interiorità, conduce ad una rottura del livello ordinario di coscienza. Le realtà esteriori non appaiono più - come oggetto di opposizioni o di conquista, ma stimolatrici di un rapporto inconsueto d'amore-comunione. Il pensiero umano ha tre differenti connotazioni: "la connotazione angelica che è la scoperta del significato spirituale delle creature; quella umana che è la considerazione oggettiva e spassionata delle creature; infine quella demoniaca che non cerca la conoscenza ma il possesso delle creature “. (Evagrio).

dott. prof. mons. Maximus
Vice Rettore Università Ortodossa San Giovanni Crisostomo

mercoledì 11 novembre 2020

L'ORTODOSSIA riprende la concezione platonica dell'anima tripartita? Perché?

 L'ORTODOSSIA riprende la concezione platonica dell'anima tripartita? Perché?


Il nostro saggio maestro, Gregorio Nisseno, insegna che l'anima è tripartita. Quando le buone energie si sviluppano nella sfera mentale si ha il giusto discernimento, la sagacia e la saggezza. Quando si sviluppano nella parte concupiscibile, si ha la castità, l'amore vero, la padronanza di se. Quando nella sfera irascibile, si ha il coraggio e la pazienza. Quando si sviluppano in tutta l'anima, si ha la rettitudine. Compito del giusto discernimento è il combattere le forze ostili, vigilare sulle virtù, sradicare i vizi e il trattare opportunamente le cose indifferenti; la sagacia ordina con rettitudine tutto ciò che serve al nostro scopo; la saggezza contempla, in tutti i loro aspetti, le creature corporee ed incorporee. La castità guarda con occhio puro le creature, specialmente quelle che ci agitano con raffigurazioni contro la ragione; l'amore ci manifesta l'immagine divina, conforme all'Archetipo, in ogni essere umano, anche quando lo spirito del male cerca di degradare qualcuno davanti a noi; la padronanza di s‚ ci fa rifiutare con gioia ogni delizia del palato. La pazienza e il coraggio allontanano il timore dei nemici e fanno sopportare volenterosamente le afflizioni. La rettitudine custodisce l'armonia e la concordia di tutte le parti dell'anima.
dott. prof. Maximus (Giusio)
corepiscopo - Presidente del Tribunale Nazionale Ecclesiastico
Vice Rettore dell'Accademia Ortodossa San Giovanni Crisostomo

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