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martedì 14 luglio 2020

Il caso arbëreshë


Il caso arbëreshë


Il Centro Europeo Spettacolo, Informazione e Cultura
La Casa Editrice ABE Napoli
L’Osservatorio sul Pluralismo Religioso
Book Fair Campania Avellino
Organizzano il
17 LUGLIO 2020 ALLE ORE 18
Presso il Salone del Centro Madonna del Pilone – Viale Michelotti 102– Torino
La Tavola Rotonda:
LE MINORANZE ETNICHE E LE RELIGIONI:
IL CASO ARBERESHE
Intervengono:
Luigi BERZANO – Università di Torino - Presidente CESNUR
Massimo GIUSIO – Osservatorio sul Pluralismo Religioso
Sergio ASTROLOGO – Docente e Storico dell’Ebraismo
Mons. Emanuele FERRERO – Chiesa Ortodossa Italiana
Arturo BASCETTA – Casa Editrice ABE Napoli – Premio “Penne d’Argento”
Silvio MAGLIANO – Regione Piemonte
___________________________________
Nel corso della manifestazione verranno attribuite le Penne d’Argento 2020
Distribuzione omaggio del testo DE MARTINO, DORA D’ISTRIA di Virgilio Iandiorio e Cataloghi ABE
Informazioni alla mail dellaSegreteria Organizzativa: astet@mail.com
Organizzata da:
Centro Europeo Spettacolo Informazione e Cultura

Casa Editrice ABE di Napoli
Osservatrio sul Pluralismo Religioso
Book Fair Campania Avellino
si svolgerà a Torino - Salone Madonna del Pilone - viale Michelotti n. 102 una tavola rotonda avente per tema: Le Minoranze etniche e le religioni il caso  arbëreshë  che vedranno tra i relatori:
il dott. prof. Luigi Bersano, docente all'Università di Torino e dirigente del Cesnur (Centro Studi sulle Nuove Religioni); il dott. prof. Sergio Astrologo, docente universitario e storico dell'Ebraismo; il dott. Arturo Bascetta, editore Ed. ABE e presidente del premio "Penne d'Argento"; il dott. Silvio Magliano, dirigente della Regione Piemonte. Tra gli organizzatori dell'evento anche il dott. prof. Massimo Giusio, dirigente dell'Osservatorio sul Pluralismo Religioso, Presidente Nazionale del Tribunale Nazionale Ecclesiastico della Chiesa Ortodossa Italiana e Vice Rettore dell'Università Ortodossa San Giovanni Crisostomo. 
Tra i relatori anche mons. Emanuele Ferrero, in rappresentanza della Chiesa Ortodossa Italiana, canonico antoniano e responsabile della Parrocchia San Martino di Tours di Torino.

Gli arbëreshë sono una minoranza etno-linguistiaca presente soprattutto nell'Italia meridionale. Gli italo-albanesi italiani, contrariamente a quello che si può pensare, non vengono dall'Albania ma sono popolazioni di etnia albanese originarie dalle regioni greche dell'Epiro, della Morea  e dell'Attica (tribù greco-albanese degli arvaniti) emigrata in Italia tra il 1400 e il 1800 per sfuggire alle persecuzioni turco-ottomane. Gli arvaniti erano di religione greco-ortodossa e, fino alla Contro Riforma (Concilio di Trento 1542-1463), le comunità italiane  dipendevano dal Patriarcato bulgaro di Ocride (oggi si trova nella Repubblica della Macedonia del Nord). Distribuiti in almeno 50 località dove ancora si parla  l'arbëreshë (tra Abruzzo, Molise, Campania, Puglia,  Basilicata, Calabria e Sicilia) con oltre 100.000 locutori, gli italo-albanesi subirono un processo di latinizzazione e cattolicizzazione da parte dei governi spagnoli (che governarono il Regno di Napoli fino al 1714) e dei successivi governi borbonici. Non essendo, la Chiesa Cattolica, riuscita nell'intento di latinizzare detta popolazione, che ha mantenuto costumi e spiritualità ortodosse, soltanto nel XX secolo la Chiesa di Roma ha costituito due Eparchie sui juris di rito bizantino, quella di Lungro (1919) per le comunità dell'Italia peninsulare e quella di Piana degli Albanesi (1937) per le cumunità della Sicilia. 
Oggi nel Sud diversi albanesi stanno riscoprendo le loro radici ortodosse e diverse comunità sono ritornate all'Ortodossia (in Calabria grazie soprattutto al Patriarcato di Costantinopoli nel reggino e a quello Russo nel cosentino) e sempre più sono gli arbëreshë che si stanno avvicinando all'autoctona Chiesa Ortodossa Italiana. A titolo meramente informativo va ricordato che uno dei primi Presidenti del Consiglio del neo-costituito Regno d'Italia fua Francesco Crispi, patriota liberale, anticlericale e massone che fu, insieme a Garibaldi, uno deigli ideatori della spedizione dei mille che portò all'unificazione della nostra Patria.

dott. prof. mons. Filippo Ortenzi
 Rettore Università  Ortodossa San Giovanni Crisostomo
tel. +39 0621119875b – cell. +39 3917065512
email: unisangiov.crisostomo@gmail.com                           


venerdì 10 luglio 2020


Le basi teologiche dell’impegno civile di Ugo Bassi
La statura politica ed il ruolo di patriota svolto da Ugo Bassi nel periodo risorgimentale, trovano un ancoraggio profondo, indissolubile e coerente, nella sua figura di sacerdote ispirato ad una interpretazione radicale e socialmente orientata del messaggio evangelico. Egli ha incarnato nel suo stesso vissuto quella predicazione rivoluzionaria che rappresenta, insieme alla biografia di partigiano dell’indipendenza, il lascito più originale di questo martire della libertà. Tralasciando gli aspetti più legati al secolo, cercheremo di illuminare e ricostruire le basi teologiche del suo agire, di quella «teologia politica» come Carl Schmitt definiva il pensiero di san Paolo, che va, dunque, in primis ricercata nella formazione dottrinale di Ugo Bassi innervata, com’è noto, dalla sua appartenenza alla scuola dei padri Barnabiti. Ora, senza entrare in profondità nelle vicende di questo Ordine, vale qui la pena richiamarne le origini per così dire remote, la genesi, che ben spiega su quali basi spirituali e simboliche il Bassi si sia accostato alle Sacre Scritture, soprattutto per inquadrare lo spirito dei tempi nei quali venne formandosi l’orizzonte dottrinale da cui si sviluppò il loro ruolo nel sociale. Per farlo dobbiamo necessariamente risalire il filo della storia sino alla nascita dei gruppi evangelici all’interno di quella nuova relazione tra l’uomo, il Creato ed i suoi simboli, che fu la teologia del XII secolo: la Prima Scolastica, al cui interno, vasto e accogliente come una Cattedrale gotica, pieno di fermenti e dibattiti teologici, di germi di rinnovamento e di allegorie, trovarono posto proprio quei movimenti che fondarono la predicazione di Ugo Bassi molti secoli dopo. Per tornare alle appartenenze del nostro, dobbiamo cominciare col ricordare che i Padri Barnabiti, ovvero l’Ordine dei Chierici Regolari di san Paolo, come di fatto si chiamano, fu pensato nel 1532 da Antonio Maria Zaccaria, Bartolomeo Ferrari e Jacopo Antonio Morigia quando, entrati in contatto con la realtà dell’oratorio dell’Eterna Sapienza a Milano, si accorsero che la sua missione era in crisi e pensarono così di trasformarlo in una nuova formazione religiosa che avrebbe dovuto essere composta da tre collegi: sacerdoti, religiose e laici. Il collegio maschile venne approvato nel 1533 da Clemente VII, mentre due anni dopo Paolo III, con la bolla Debitum pastoralis autorizzava il collegio femminile a costituirsi in monastero, ponendolo sotto la regola di sant’Agostino. Subito dopo lo Zaccaria si fece promotore anche del collegio dei laici, che furono chiamati “coniugati” di san Paolo. Sin dalle prime uscite pubbliche il nuovo Ordine si impose ai milanesi per le sue pratiche, il modo di predicare, di vestire e le sue penitenze. A causa del loro zelo religioso nel richiamarsi al Vangelo furono anche accusati di pelagianesimo, la dottrina cristiana, poi condannata come eretica, secondo la quale il peccato originale fu dei soli progenitori ma non macchiò la natura umana, che ne subì solo le conseguenze. Da questo discende che la volontà dell’essere umano è in grado di scegliere ed attuare il bene senza la necessità della grazia divina. L’umanità ha dunque la possibilità, per mezzo della propria volontà, di obbedire al Vangelo e quindi, conseguentemente, di assumersi la responsabilità piena dei suoi peccati; i peccatori sono veri e propri criminali che hanno bisogno per l’espiazione dell’esempio di Gesù e del suo perdono. E già questo ci illumina sul substrato dottrinale dell’azione del Bassi, certamente influenzato dall’idea di praticare il Vangelo come forma di autodeterminazione, ma soprattutto, lo chiariremo analizzando alcuni passaggi delle sue prediche, dalla necessità di mettere l’essere umano nella condizione di scegliere attraverso quella che teologicamente verrà definita nella Scolastica l’«intelligenza evangelica». Questo tratto della sua cultura teologica emerge chiaramente dall’ultimo discorso di fronte al plotone di esecuzione, in cui la radice evangelica dell’impegno sociale rifulge chiarissima ma, come vedremo anche riprendendo alcuni passaggi di un suo dialogo mentre difendeva Venezia, egli non si ferma certo alla vicinanza con i derelitti ed alle opere di carità, bensì cerca una soluzione politica di lungo periodo per attuare l’orizzonte evangelico in tutta la sua radicalità. E dunque negli echi del pelagianesimo possiamo trovare già le tracce della visione dottrinale del Bassi ma, ancor più interessante ai nostri fini, è certamente l’accusa rivolta ai primi Barnabiti di essere seguaci dei Poveri di Lione, cioè dei Valdesi, che poi sarebbero divenuti tra i principali gruppi evangelici. Sorti come movimento pauperistico e scomunicati dalla Chiesa cattolica nel 1184, nel 1523 aderirono alla Riforma protestante nella corrente calvinista. Per confutare tali accuse le autorità civili ed ecclesiastiche milanesi sottoposero i Barnabiti a due processi; interessante notare come proprio alla vigilia del primo, iniziato il 5 ottobre 1534 e conclusosi senza alcuna sentenza, essi iniziarono a praticare la vita comunitaria in povertà. Il secondo processo iniziò nel giugno 1536 e terminò con una assoluzione. Nonostante questo, anzi, proprio per questo, è evidente che nel clima della piena Rinascenza il Vaticano è ancora sensibile a queste eresie e cerca di sradicarle totalmente dall’orizzonte dei fedeli. Ma volgiamoci adesso decisamente verso il XII secolo per cercare di capire il clima teologico che si respirava in quel periodo, dal quale Ugo Bassi sembra uscito senza soluzione di continuità. In coerenza con il contenuto delle nostra relazione analizzeremo dunque i due pilastri principali della teologia del XII secolo e vedremo come ne derivi l’impostazione teologica del nostro patriota sacerdote e massone. Il primo pilastro della Scolastica è decisamente la «scoperta» della Natura, qui con la maiuscola, la Natura naturans di Aristotele, con tutte le implicazioni e le analogie tra micro e macrocosmo che consentiranno all’uomo medioevale di cominciare quella elevazione verso il cielo che vedrà nell’architettura gotica il suo mutus liber e nell’Alchimia la sua Arte sacra. Quando parliamo di «scoperta» della Natura non intendiamo il semplice sentimento della stessa espresso dai poeti dell’epoca, né della sua espressione plastica che pur ne diedero, nei fioriti capitelli gotici, i Maestri muratori di quel tempo. Parliamo invece di qualcosa di più profondo; della presa di coscienza cioè, negli uomini del XII secolo, di avere a che fare con una realtà vivente, presente, intelligibile, le cui forze e leggi andavano comprese perché essi stessi ne facevano parte. E questa visione, come si può bene immaginare, aveva implicazioni profonde anche sulla relazione tra fede e ragione, dove assistiamo ai primi sussulti di quel nuovo equilibrio che vedrà, ad esempio, la limitazione dei diritti ecclesiali in ambito secolare voluta dai Re francesi Filippo Augusto e Luigi IX, pur canonizzato come santo, ed il ricorso a prove razionali nelle contese giudiziarie piuttosto che ai mezzi dell’ordalia, e così via. Per una descrizione completa di questi aspetti normativi rinviamo al magistrale volume di Tullio Gregory Anima mundi. La filosofia di Guglielmo Conches e la Scuola di Chartres. Ma forse anche in Notre Dame de Paris di Victor Hugo, quella scoperta della Natura è descritta altrettanto bene, in particolare nelle splendide pagine dedicate all’architettura che concepì la celebre Cattedrale quale compendio dell’Opera alchemica, come ci ricorda Fulcanelli. Ed è dalla convinzione, ripresa dagli Antichi, che l’Universo fosse un Tutto, un Cosmo tratto dal Caos per volere divino, che nasce il termine universitas usato in senso assoluto e astratto per designare appunto l’Universo. Senza dubbio un termine mediato dallo studio di Scoto Eriugena, per il quale la Totalità, espressione del divino, penetra equamente ed indistintamente ognuna delle sue parti. Dio, dunque, ha concepito il mondo come un unico organismo vivente. Per Scoto, inoltre, ragione e fede sono fonti valide di vera conoscenza, per questo non possono essere in contraddizione; però se così fosse, è la ragione che deve prevalere. Questa affermazione, assieme alla prospettiva di tendenza panenteistica che egli sostenne nel De divisione naturae, gli valsero il sospetto di eresia. Giusto per chiarire il concetto diciamo che il panteismo e il panenteismo presentano aspetti comuni ma non coincidono totalmente: il primo vede l’universo pieno di Dio il secondo lo vede come parte di Dio. E allora, come ci dice Onorio di Autun, il grande testimone di questo rinnovato uso del termine, universitas-universo, l’armonia di questo Tutto è      tale proprio perché si esprime nella stessa diversità degli esseri che lo costituiscono. Est mundus ordinata collectio creaturarum. L’universitas è quindi un Cosmo la cui contemplazione riempie di una gioia che avvicina al divino. Queste schematiche considerazioni sulla cosmo-visione del XII secolo, sono la prova di un non banale razionalismo ottimista. Tendenze naturalmente non ben viste dalla Chiesa del tempo; ed è proprio di questo che Guglielmo di Conches, noto per aver cercato di espandere i limiti dell’umanesimo cristiano, così si lamenta: «Ignorando le forze della natura, vogliono che rimaniamo impantanati nella loro ignoranza, negano il diritto alla ricerca e ci condannano a rimanere come zotici in una fede senza intelligenza». E Abelardo di Bath, imbevuto di spirito di ricerca e della saggezza dei suoi maestri arabi, esprime nei medesimi termini la protesta nelle Quaestiones naturales: «Se trascurassimo di conoscere la mirabile bellezza razionale dell’universo in cui abitiamo, meriteremmo di esserne cacciati come un ospite incapace di apprezzare la dimora nella quale viene accolto». È    a questo punto che si manifesta il parallelismo tra uomo-microcosmo ed universo-macrocosmo. La tesi, già espressa da Platone il cui pensiero diverrà determinante nella formazione teologica della Scolastica successiva, sarà così veicolata dal tema di Dionigi e di Eriugena della «continuità» (continuitas) tra uomo e cosmo. Come ben rileva Marie Dominique Chenu nel suo La teologia del XII secolo, questa idea eserciterà all’epoca un fascino pari a quella dell’evoluzione nel XIX. La chiave dell’intelligenza dell’universo, e dell’uomo al suo interno, allora, è nell’indagare la relazione ordinata, ma dinamica, che lega tra loro tutti gli esseri considerati come una «teofania» in cui la causalità e il significato coincidono. Una visione ecologico-escatologica si direbbe oggi, e che, trasposta nell’epoca risorgimentale, faceva ricomprendere nelle prediche di Ugo Bassi anche la contemplazione della bellezza della natura come parte della liberazione d’Italia. Nell’idea di continuitas è oltretutto contenuto il concetto che l’attività delle gerarchie divine, che pur partono dalla Trinità per discendere verso il Mondo, non genera una condizione di semplice subalternità delle forme inferiori a quelle superiori, ma implica una partecipazione delle prime al Principio increato dalla Tearchia, così Dionigi chiama la Trinità, che si trasmette dunque direttamente fino ai limiti dell’universo ma che, al tempo stesso, unifica tutte le creature nell’ordine e nella conoscenza, costituendo così, in definitiva, le forme della partecipazione all’Essere del Vero. Non dirà forse Maestro Eckhart: «L’occhio col quale io vedo Dio, è lo stesso occhio con cui Dio mi vede; l’occhio mio e l’occhio di Dio non sono che un solo occhio, una sola visione, una sola conoscenza, un solo amore»?. E ancora, mi si scusi per questo esempio ulteriore tratto dal sufismo; come ci ricorda Alberto Venturi nel suo L’esoterismo islamico: «L’espressione «unicità dell’essere» (wahadat al-wugud), vuole appunto alludere al fatto che ogni essere esistente partecipa dello stesso Principio essenziale, di un’unica realtà che dà esistenza al tutto e che tutto contiene, ma, si badi bene, senza che ciò comporti confusione tra l’Uno ed il molteplice». Con queste premesse teologiche è facile allora capire il senso profondo, teofanico appunto, dell’afflato verso l’eguaglianza e la pari dignità di tutti gli uomini e di tutto il vivente così profondamente sentiti e predicati da Ugo Bassi. Il secondo pilastro di cui vogliamo brevemente parlare sono decisamente i movimenti evangelici, la grande fonte di ispirazione dottrinale ed esegetica del Bassi. Dom André Wilmart, monaco benedettino, noto medievalista e liturgista, grande esperto della spiritualità medioevale, affermava appunto che l’origine della spiritualità moderna socialmente orientata si colloca proprio nel XII secolo. Ora, per non dilungarci troppo e dovendo scegliere tra i tanti esempi possibili, cominciamo con una citazione di Stefano di Muret, modesto patrono di un gruppo di «poveri di Cristo», morto nel 1124 che, a chi gli domandava a quali principii ispirarsi per essere un buon cristiano rispondeva: «Se vi domandano a quale Ordine appartenete, rispondete a quello del Vangelo, che è alla base di tutte le regole. Questa sia la vostra risposta a quanti pongono un simile interrogativo. Quanto a me, non accetterò mai di essere chiamato monaco, o canonico, o eremita: questi titoli sono così alti per me ed implicano una tale misura di perfezione che non presumerò certo di applicarmeli». Sette secoli dopo, l’essenza di questa modestia evangelica riecheggia, speculare, nella invettiva contro «Roma sentina di vizi», pronunciata a Bologna da Ugo Bassi: «Il libro di Dio» - dunque il Vangelo - «è troppo completo, perché Papi e dottori vi possano aggiungere qualche cosa del loro. Ogni cristiano giuri sulla vita dei propri figli e metta in pegno le proprie sostanze che ne osserverà i precetti. Chi può si dica cristiano.... se no si chiarisca per infame, per eretico, per rinnegato colui che tradisce i divini precetti; esca fuori della chiesa, sia da tutti riprovato e maledetto». Questo proposito radicale aveva trovato la sua efficacia istituzionale nella Cristianità quando Francesco di Assisi, presentandosi ad Innocenzo III vincolato dal Concilio lateranense a non ammettere nuovi Ordini religiosi, gli rispose: «Non ho una regola nuova; la mia sola regola è il Vangelo». Così il Nuovo Testamento affermava la sua irriducibile originalità e radicalità nell’organizzazione della società e del pensiero umano. Il caso di san Francesco, per certi versi il prototipo dell’operatore socio-evangelico, ci dice dell’incontro tra le Sacre Scritture ed una società nuova che doveva essere per cosi dire ribattezzata. Il punto di partenza è evidentemente la povertà, considerata qui non solo come ascesi morale, ma condizione per l’affermazione del Regno di Dio in questo mondo. Al tempo stesso, questi movimenti combattono la povertà economica e quella sociale, proprio come forme che impediscono la povertà evangelica intesa sia come comunanza di beni sia come rinuncia ai privilegi. La caratteristica più acuta di questa povertà evangelica è dunque la sensibilità alla miseria dei poveri che andava riscattata in questo mondo per affermare il disegno di Dio. E qui si innesta una componente fondamentale per capire l’ispirazione teologica di Ugo Bassi, e cioè che per questi movimenti i poveri sono i «nuovi profeti» nati per annunciare il messaggio messianico. È oltretutto chiaro come, da Francesco di Assisi a Pier Damiani, questa tradizione profetica conserva ed afferma il rifiuto di scendere a compromessi col mondo feudale e con la sua ricca chiesa, una contraddizione che così faceva riflettere Ottone di Frisinga: «Certo sarebbe preferibile una Chiesa povera a quella ricca, ma se la prima è migliore la seconda è più felice!». Simili posizioni, comuni a molti alti prelati infeudati, doveva alimentare la rivolta morale dei movimenti evangelici e provocare così il risveglio di quell’intelligenza del mistero cristiano che avrebbe portato un radicale progresso, non solo in teologia, ma anche nella relazione tra la società ed il clero. Giusto per sostanziare: Francesco era figlio di un commerciante di stoffe e si fece frate e Valdo era a sua volta un commerciante di Lione che diede vita autonomamente ad una confraternita; esponenti dunque di strati sociali che anelavano a liberarsi dal giogo feudale anche con atti radicali come quelli testimoniati dal poverello di Assisi. In questi passaggi teologico-politici ritroviamo la fonte delle parole di Ugo Bassi quando dice, nel suo intervento durante la difesa di Venezia: «Fate come i feudatari di Francia, che in un sol giorno rinunziarono generosamente ai loro privilegi, e le classi furono eguagliate. Riunitevi nelle piazze, il migliore di voi divenga il sacerdote di Cristo... si fondi la chiesa evangelica, si adotti la dottrina di Cristo, nulla più nulla meno. Il popolo elegga nei pubblici comizi i suoi parrochi ed i suoi Vescovi. I ricchi sulla mensa sacra vengano a deporre 1’obolo della carità da distribuirsi al povero fratello; e quella sarà la vera comunione». E dunque il Vangelo, come dicono sia Francesco sia Ugo Bassi, va praticato sine glossa, senza quelle spiegazioni cioè che ne svigoriscono il senso per adeguarne il contenuto alle condizioni terrene date, e la sua testimonianza è il solo veicolo omogeneo a questa comunicazione. Nascono così le tre operazioni del legere, disputare, praticare il Vangelo, nelle quali Ugo Bassi è indiscutibile maestro. L’autentica funziona magistrale della sacra pagina comporta dunque la predicazione, e la parola di Dio non si compie che nella trasmissione del suo messaggio. Esegesi, dogmatica e predicazione sono solidali per chi vuole che si realizzi il Vangelo attraverso una partecipazione all’azione presente della parola. Alano di Lilla, uno degli autori cari all’agnostico Borges, che lo cita nel suo racconto l’Aleph, non considerava forse la predicazione della parola di Dio come l’atto supremo del cristiano giunto alla perfezione? Ascoltiamo ancora Ugo Bassi: «Io parlai al popolo con quella libertà di cui il Redentore fu primo a darne esempio, il quale se accoglieva di buon grado il pubblicano, non risparmiava mai gli Scribi e i Farisei. Se io mi mostrai poco amico dei grandi, è che la maggior parte di costoro, assorbendo più di quanto lor spetta dei beni della terra, lasciano l’altra parte dei loro fratelli nello squallore e nella abbiezione; se io divisi i miei denari cogli orfani, colle vedove, coi derelitti, è che lo stesso Redentore li raccomanda nelle sue sante pagine del Vangelo. Gesù Cristo costituì gli uomini in comunanza, e venne a effondere il suo sangue qui in terra per rannodare gli uomini, e stringerli cosi ad un patto, affinché alcuno non potesse godere il superfluo, quand’altri non fosse provveduto del necessario; che lasciò appunto il suo Vangelo qui in terra per insegnare a tutelare il debole contro il potente, l’oppresso contro l’oppressore. Deplorabile esempio! Il suo Vicario, i suoi seguaci si sono collegati coi tiranni, ed eglino stessi col male esempio preparano l’umanità ad ogni sorta di usurpazione, di sacrilegi, di avarizia, e di barbarie! Apostati in veste di agnelli, siete entrati entro la greggia fedele per divorare gli armenti. Voi adunque siete fuori del Vangelo, fuori della comunione dei fedeli. Indietro nemici della religione e di Dio... indietro!!... Noi faremo causa contro di voi!!... La società si scuote dal suo profondo letargo; alfine si alza! E noi, forti della parola del Vangelo, spiegheremo il temuto stendardo. Stendardo precorso dalle riforme, dalle costituzioni, dalle repubbliche: stendardo che in mezzo ad un’aureola di luce si presenta sovra un lontano orizzonte, e viene salutato e benedetto dai popoli. È il medesimo stendardo che sollevò Gesù Cristo al tempo dell’abbrutimento e dell’oltraggioso servaggio; il suo simbolo è      la croce; il suo motto è libertà, fratellanza, scritto sopra il libro degli Evangeli. Né ciò solamente egli vedeva, ma affermata cogli altri principii, la sublime eguaglianza nel perdono!». La chiarezza e l’aderenza di queste parole alla visione del Vangelo come prefigurazione ma anche pratica concreta verso un ordine terreno basato sul trinomio che campeggia all’Oriente di ogni tempio latomistico ci pare così evidente che non dobbiamo ulteriormente commentarle. Ultimo elemento, ma non certo per importanza, che caratterizza questo periodo e questo movimento, è la ripresa nella Cristianità degli Ordini cavallereschi. Cavalieri del Tempio, Cavalieri del Santo Sepolcro, sono, alle frontiere interne ed esterne, milizie che si ispirano alla povertà evangelica; pensiamo solo al nome dei Templari: Pauperes commilitones Christi templique Salomonis. E forse proprio in questo Ordine possiamo ritrovare quella combinazione tra povertà evangelica e militanza guerriera, fervore religioso e impegno nella difesa militare dei valori, così consustanziali alla figura di Ugo Bassi. Ecco dunque che le idee di Libertà, Uguaglianza, Fratellanza divengono le componenti stesse della simbologia della croce, dove la Libertà, cioè il libero arbitrio, rappresenta il suo asse principiale e le sue due braccia, Eguaglianza e Fraternità, raffigurano il piano sul quale essa deve necessariamente svilupparsi. La simbologia della croce era così importante per Ugo Bassi, che egli ne aveva con sé una tricolore, come ci ricorda questo brano delle Memorie tratto dalla descrizione della sua predicazione in Bologna: «La solennità del gesto, la maestà degli sguardi e del portamento, l’abito severo, la croce tricolore sul mantello; il Cristo velato nella destra, formavano di lui un terribile inesorabile giudice in quel momento. Il popolo bolognese fu testimonio di tutto questo». Diremo che il Cristo velato fu consegnato da Pio IX ai volontari che partivano per la guerra contro l’Austria, ordinando il Pontefice di scoprirlo soltanto il giorno che fosse stata liberata l’Italia. Possiamo dunque immaginare la reazione di Ugo Bassi al tradimento del Pontefice. Dobbiamo necessariamente finire qui la nostra relazione ma, in chiusura, lasciateci riportare almeno l’incipit del suo discorso durante la difesa di Venezia nel 1848, il cui testo completo si trova nel libro di memorie a lui dedicato dall’amico Gualtieri ed edito in Bologna nel 1861, e che vale la pena leggere, dato che si tratta di una vera e propria summa non solo del suo orizzonte teologico e sociale, ma della temperie risorgimentale in generale. 


Ecco dunque le sue parole: «Figlio mio. Quando al Signore piacerà ritogliere l’Italia dalle mani dell’Austriaco ladrone, credi tu che l’opera della rigenerazione sia compiuta? Quando l’Italia fosse una repubblica e tutti fossimo cittadini di una sol patria e avessimo libere leggi, e il nostro senato, e poderose flotte e forti eserciti, e fiorissero le lettere, l’arti, il commercio; un gran passo resta a farsi dall’umanità a cui non pensano i suoi politici ed i suoi guerrieri. Quando avrai distrutto il dispotismo del tiranno, contro il quale gli uomini sono almeno affratellati, l’odio il più difficile a vincersi è il dispotismo di famiglia. A dispetto di tutte le leggi e di tutti i sacri nomi di questo mondo, a dispetto di tutte le insegne più venerande, delle forme di governo più libero, tu avrai in ogni casa un despota, in ogni officina un barbaro padrone; sarà il medesimo che farà rumore sulle piazze esaltando la libertà per tornare nella sua casa col fiero cipiglio per tribolare la vita dei suoi soggetti. E i governi a ciò non penseranno; egoisti ambiziosi anch’essi cercheranno perpetuare il loro nome con monumenti di vanagloria». Qui siano di fronte ad una visione profetica di alta valenza sociale, quasi una prefigurazione della necessità di vigilare sempre sulla realizzazione dei caposaldi della nostra Costituzione inscritti nella sua Prima Parte, un’opera ancora tutta da compire.



Foto del docenteRaffaele K. Salinari

Per gentile concessione del prof. Raffaele Salinari, docente dell'Università di Bologna "Alama Mater Studiorum". Relazione tenuta  l''11 novembre 2017 per il Convegno su Ugo Bassi organizzato dalla R.L. Ugo Bassi di Bologna.

venerdì 3 luglio 2020

L'avv. Pietro Barone nel Corpo Docente dell'Università Ortodossa San Giovanni Crisostomo

L'avv. Pietro Barone nel Corpo Docente dell'Università Ortodossa San Giovanni Crisostomo
L'avv. Pietro Barone con mons. Filippo e Francesco Russo, 
Gran Priore della Confraternita dei Cavalieri Templari Ugone dei Pagani

L'avv. Pietro Barone, nato a Mileto (Miletos) città calabra d'origine greca della costa tirrenica, è uno dei più apprezzati avvocati del Foro di Roma. Persona animata di profondi ideali patriottici e risorgimentali, è stato Presidente della VIII circoscrizione di Roma. Di spirito mazziniano e garibaldino è una delle anime del Comitato per la Postulazione di Ugo Bassi, il sacerdote barnabita, patriota e cappellano della Legione Garibaldina, assassinato dalla reazione clerico-asburgica a Bologna l'8 agosto del 1849. L'avvocato è inoltre un componente il Gran Magistero della Confraternita dei Cavalieri Templari Ugone dei Pagani della quale è Gran Priore il barone Francesco Russo di Cortimpiano, per la quale dirige il Priorato di Roma e del Lazio.



 Il prof. dott. avv. Pietro Barone è venuto ad arricchire il nostro corpo docente con la cattedra di Diritto Ecclesiastico.

martedì 26 maggio 2020

Corpus Paolinum



Corpus Paolinum 




Il Corpus Paolinum comprende tre opere dell’Apostolo dette Lettere Pastorali. Esse sono: I e II Timoteo e a Tito. Sono dette tali perchè sono dirette a pastori o delegati che operano a contatto diretto con i cristiani nella Chiesa. Le lettere pastorali hanno in comune lo stesso argomento o tematica: l’impostazione teologica per la guida delle Chiese nascenti. Timoteo e Tito erano appunto alla guida rispettivamente delle Chiese di Efeso e di Creta. Delle tre lettere prenderemo in esame solamente la Prima Lettera a Timoteo. Breve cenno biografico di Timoteo. Chi è Timoteo? È discepolo e compagno di Paolo, nativo di Listri in Licaonia; figlio di padre greco e madre giudeo-cristiana, gli venne concesso da Paolo la circoncisione. Paolo lo prese con sé durante il II viaggio apostolico (At 16, 1-5). Timoteo rimase solo con Sila (Silvano, altro collaboratore di Paolo) a Berea quando Paolo fu costretto a fuggire precipitosamente e che Timoteo raggiunse poi a Corinto. Fu mandato, in seguito, in Macedonia a compiere delicate missioni. Nelle Lettere viene associato a Paolo nel saluto, in particolare a quelle inviate ai Tessalonicesi, poi ai Corinzi, Filippesi, Colossesi e nel saluto finale ai Romani. Divenne per certi aspetti, in seguito a compiti delicati ricevuti, uno dei compagni più intimi e fidati di Paolo. Ma ritorniamo alle lettere. Timoteo opera nella Chiesa di Efeso per incarico dello stesso Apostolo, quando questi gli scrisse la presente lettera (1Tm), dal tono quasi confidenziale e piena di consigli utili per la guida spirituale della comunità. Nella lettera sono contenute indicazioni a vescovi, presbiteri e diaconi circa le loro qualità e le virtù necessarie per poter esercitare il proprio ministero, (Sono per così dire lettere dirette ai nostri vescovi, sacerdoti, diaconi e anche aspiranti tali). L’autore della lettera Dai primi secoli e fino a qualche tempo fa si è sempre ritenuto che l’autore fosse Paolo, ma negli ultimi decenni sono state approfondite le ricerche per cui molti studiosi ritengono che non sia Paolo l’autore delle lettere. Vedremo perchè. Ciò però non impedisce di affermare che esse sono ritenute canoniche e perciò ispirate. Ci sono motivi che fanno pensare che non siano di Paolo: 1) è un genere di scrittura il cui inizio non è comune al linguaggio di Paolo, il quale usa una sua singolare e personale espressione (Io Paolo, servo…); 2) il genere letterario di chi scrive, il quale firma il suo nome con uno pseudo grafico; 3) è un autore che ha scritto le lettere molti anni dopo la morte di Paolo, intorno agli anni 100/110 d.C.. Si tratta probabilmente di uno che conosceva bene Paolo. Vi si nota uno stile diverso, il vocabolario che usa e così la teologia. Si parla per la prima volta e in modo chiaro della struttura gerarchica della Chiesa: il Pastore o Vescovo, gli anziani o Presbiteri, i diaconi. Il genere del vocabolario teologico usato è inedito, viene pronunciato per la prima volta la parola deposito della fede, una espressione mai detta in precedenza da Paolo sia a Timoteo che a Tito. Ancora, per la prima volta appare un altro termine poco adoperato da Paolo: Salvatore, presente nelle lettere pastorali. Per tutte queste considerazioni, gli esperti sono giunti alla conclusione di cui abbiamo fatto cenno pocanzi. Data della lettera: probabilmente dopo una missione in Macedonia verso il 64 o 66, ma certamente prima della prigionia romana, durante la quale scrisse la 2a. Motivi della lettera: la nuova dottrina cristiana è esposta alle influenze di un movimento eretico, che mescola idee giudaiche e speculazioni orientali; falsi dottori circolano tra la comunità, atteggiandosi quali conoscitori della legge. Paolo venuto a conoscenza di ciò scrive appunto la lettera. Contenuto della lettera: abbiamo già fatto cenno all’inizio. Vengono date direttive per la guida della Chiesa. Paolo ha affidato a Timoteo la cura delle Chiese tra i pagani. Insiste con lui perchè eserciti con fermezza e coraggio la funzione ricevuta da Cristo mediante il rito delle imposizioni delle mani: l’annuncio della verità (1, 3-20). L’organizzazione del culto (2, 1-15), la direzione del popolo di Dio nelle diversità dei suoi gruppi: i carismi (3, 16). È il punto di partenza di una riflessione teologica e spirituale sul ministero della Chiesa. Indirizzo. La lettera inizia con il consueto saluto. L’autore scrive: «Paolo, apostolo di Cristo Gesù, per comando di Dio nostro salvatore e di Cristo Gesù nostra speranza, a Timoteo, mio vero figlio nella fede: grazia, misericordia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù Signore nostro» (1, 1-2). Nei primi versetti del Io capitolo si possono cogliere due espressioni singolari della lettera: Paolo, secondo l’autore, è apostolo di Cristo Gesù, per comando di Dio, ciò sta a significare che è Dio che ci ha voluto salvi. Timoteo è chiamato da Paolo mio vero figlio nella fede, sono noti i sentimenti di affetto che Paolo nutre per il suo più caro discepolo. Dal versetto 3 si entra nel vivo del problema che ha provocato l’intervento dell’Apostolo: l’esortazione a Timoteo a continuare nella lotta contro i falsi dottori, i quali stanno divulgando false dottrine e pretendono di essere conoscitori dalla legge, e contro i pagani. Paolo mette in guardia il discepolo dal pericolo della diffusione di una dottrina non conforme a quella insegnata da lui, con le conseguenze che ognuno crede di essere competente nello studio della legge giudaica e di farsi una idea propria del Vangelo. Il calore umano delle parole e l’incoraggiamento hanno grande effetto sul carattere piuttosto timido e giovane del discepolo, preoccupato a dover portare da solo il peso della comunità di Efeso. Quindi l’Apostolo passa a parlare di sé: «Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perchè mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento [Un po’ di autocritica e una secca risposta a quanti gli contestavano la legittimità di Apostolo di Gesù Cristo. Poi aggiunge]. Ma mi è stata usata misericordia, perchè agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù» (1, 12-14). (La stessa fiducia può essere concessa a qualunque uomo per mezzo della grazia, purchè riconosca le proprie colpe e invochi la misericordia di Dio). (cap 2) Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati. Paolo raccomanda Timoteo circa l’organizzazione del culto: compito primario del responsabile di una comunità, un culto che comprenda: domande di preghiere, ringraziamenti per tutti per fare, egli dice, cosa gradita a Dio, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvi. È una affermazione teologica di grande importanza. Ciò vuol significare che non c’è predestinazione alla condanna per nessuno: il rischio è solo dalla parte dell’uomo che può respingere il dono di Dio e autoescludersi dalla salvezza. Una salvezza non preclusa, peraltro, a quelli che non appartengono alla Chiesa, purchè siano retti e onesti (2, 1-7). (cap 3) La scelta dei vescovi e dei diaconi. Un intero capitolo dal contenuto di carattere pastorale, riguarda la scelta dei vescovi e dei diaconi, e termina con discorso sulla Chiesa e il mistero rivelato. Per la prima volta, grazie a questa lettera, possiamo avere un’idea della gerarchia e dell’ordinamento di autorità che andava stabilizzandosi nella Chiesa. L’Apostolo fondatore è l’autorità primaria e può guidare la Chiesa anche per mezzo di delegati quali ad esempio Timoteo o Tito. Questi personaggi corrispondono all’incirca ai futuri vescovi e dopo la morte degli apostoli saranno loro successori alla guida delle chiese locali. Il primo dovere dei delegati è scegliere alcuni aiutanti: gli anziani o sorveglianti delle loro chiese. Esistono però due categorie di aiutanti: i sorveglianti o anziani e i diaconi. Quali requisiti e quali compiti devono avere. I sorveglianti o vescovi sono persone che devono godere di stima di tutta la comunità, Paolo insiste che i vescovi devono essere irreprensibili, sotto tutti gli aspetti. Il loro compito gravoso, pieno di responsabilità con doti non comuni in quanto si collocano come guida e maestri della comunità. Sono persone sposate e il loro stile di vita nell’ambito familiare è la migliore dimostrazione delle loro qualità. I diaconi o servitori (una definizione da tener ben presente) hanno come compito principale la cura dei poveri e la distribuzione dei doni e dell’aiuto fraterno dei cristiani, ciò richiede: determinate qualità morali come per gli anziani, soltanto non viene richiesto la capacità di insegnare, quello che deve primeggiare in essi è lo spirito di servizio, la carità, virtù comuni a tutti i seguaci di Cristo. Al versetto 2° troviamo un preciso riferimento alle donne alle qual Paolo raccomanda che siano dignitose, non pettegole e sobrie, ovviamente deve riferirsi a donne diaconesse di cui parla lo stesso Paolo nella Lettera ai Romani (16, 1). Riprende il discorso sui diaconi ai quali viene richiesto di non risposarsi e di impegnarsi bene nella direzione e nella educazione dei loro figli e le loro famiglie, essi devono fornire un autentico esempio di vita cristiana. Alla luce di quanto sopra possiamo dire che queste raccomandazioni costituiscono per noi insegnamento quanto mai utile e prezioso e che ognuno dovrebbe fare proprio alfine di capire sempre di più quale deve essere il senso della nostra vocazione diaconale. La Chiesa e il mistero rivelato. Gli ultimi versetti del 3° capitolo sono per così dire degli ammonimenti solenni che l’Apostolo rivolge a Timoteo circa il comportamento da tenere nella casa di Dio. Una chiara indicazione su quali debbano essere le principali caratteristiche che deve possedere un vescovo nella Chiesa che Paolo chiama casa di Dio e della responsabilità morale che egli deve avere nella guida spirituale e pastorale della comunità. Paolo afferma inoltre che i capi sono solamente i servi e amministratori, mentre la Chiesa maestra di verità è portatrice del mistero della salvezza. Probabilmente l’Apostolo vuole mettere in guardia il suo discepolo da ogni possibile, umana tentazione autoritaria, mentre il vescovo deve essere soltanto un testimone del mistero di pietà e responsabile della fede dei suoi fedeli. I doveri pastorali. Il 4° capitolo è interamente dedicato dall’autore ai doveri pastorali di Timoteo, doveri che secondo Paolo devono costituire l’arma da contrapporre ai falsi profeti, i quali con le loro false dottrine stanno provocando l’allontanamento di molti cristiani. In particolare Paolo esorta Timoteo ad essere di esempio, nonostante la giovane età; lo raccomanda di essere fedele sia nel comportamento che nelle parole; sollecito nella carità come nella fede; lo invita a mettere in azione la grazia ricevuta per mezzo della imposizione delle mani ad opera di coloro che lo hanno scelto dimostrandogli di essere uniti con lui (la coinonia). Quindi un breve accenno alla prudenza, ora che è lui ad imporre le mani su altri chiamati al servizio della Chiesa, siano essi, dice Paolo, presbiteri o diaconi. L’ultima citazione dell’Apostolo ci interessa molto da vicino, è un punto sul quale riflettere con serietà per comprendere a quale compito delicato è chiamato il diacono. Un compito che non può prescindere da un cammino di preparazione e di formazione per una sempre migliore conoscenza della verità e da un comportamento coerente della vita. Un chiaro e severo monito per tutti noi. La carità cristiana. Il 5° capitolo della lettera è interamente dedicato alla carità che Timoteo deve avere verso tutte le categorie dei cristiani. Paolo esorta alla carità verso i fedeli in generale, ma con un accenno particolare alle vedove; questo delle vedove è un riferimento molto frequente nei testi dell’Antico Testamento; il Signore ha sempre raccomandato di non abusare e non maltrattare le vedove, deboli e indifese, ma di aiutarle insieme ai loro figli. L’Apostolo Paolo fornisce chiare istruzioni a Timoteo su come comportarsi nei confronti dei fratelli e suggerisce quanto segue: - gli anziani non vanno ripresi con asprezza, ma come se fossero padri; - i giovani vanno avvicinati come fratelli; - le donne anziane come se fossero madri; - le donne più giovani come sorelle, in tutta purezza. Non manca il riferimento agli schiavi, come già avvenuto nelle Lettere ai Corinzi, Galati Efesini, Tito, ecc.. Paolo rivolge una raccomandazione agli schiavi credenti in Cristo, quello cioè di rispettare i padroni perchè non venga bestemmiato il nome di Dio a causa loro; alla stessa maniera si rivolge ai padroni credenti affinchè abbiano riguardo verso gli schiavi e li considerino come fratelli. La lettera si conclude con un altro severo ammonimento rivolto ai ricchi (c. 6). Paolo suggerisce un capovolgimento di mentalità e di comportamento, sicuramente attuale anche per i cristiani dei giorni nostri. Quanti di essi fanno un retto uso delle ricchezze? Affinchè questo monito serva come esempio per tutti noi lo trascriviamo per intero: «Ai ricchi in questo mondo raccomanda di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza sull’incertezza delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dá con abbondanza perché ne possiamo godere; di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera» (6, 17-19). Una vera lezione di vita cristiana che ci deve far riflettere molto. Paolo si congeda da Timoteo invitandolo a custodire la verità della sacra dottrina e a tenersi fuori dai pericoli delle false dottrine. Una lettera stupenda, piena di insegnamenti di fede e di carità fraterna!







Italo Valente

giovedì 21 maggio 2020

San Costantino e Elena



San Costantino e Elena
Il 21 maggio le Chiese Ortodosse commemorano San Costantino il Grande, isapostolo e imperatore romano e la sua mamma Sant'Elena Imperatrice.

San Costantino (Flavius Valerius Aurelius Constantinus), nacque nella Mesia Orientale a Naissus (odierna Niš, in Serbia), è stata una figura importante per la diffusione e il consolidamento del cristianesimo nell'Impero Romano, tanto che le Chiese Ortodosse lo venerano come Isapostolo, cioè Eguale agli apostoli, al contrario la Chiesa Cattolica non lo ha inserito nell'elenco dei Santi. San Costantino è ricordato oltre che come imperatore che ha difeso i confini dell'impero sconfiggendo e impedendo le invasioni da parte delle popolazioni barbariche (franchi,  alemanni, sarmati ecc.) o persiane (sasanidi) e ristrutturato l'impero, per quattro importanti avvenimenti:
la Battaglia di Saxa Rubra (detta anche di Ponte Milvio) dovele armate di  Costantino, pur inferiori di numero (40.000 legionari e 8.000 cavalieri) sconfissero l'imponente esercito di Massenzio (forte di 100.000 militi e 18.000 cavalieri). Secondo quanto riferito da Eusebio nella "Storia Ecclesiastica" Costantino stava marciando col suo esercito quando, alzando lo sguardo verso il sole, vide una croce di luce e sotto di essa la frase greca "Εν Τουτω Νικα" ("Con questo vinci"), reso in latino come In hoc signo vinces, "Con questo segno vincerai". Dapprima insicuro del significato della visione, Costantino ebbe nella notte un sogno nel quale Cristo gli spiegò di usare il segno della croce contro i suoi nemici e pertanto, come riportato dallo storico, retore romano  Lattanzio fece apporre sugli scudi il monogramma di Cristo o Chi-Rho. La battaglia ebbe luogo il 28 ottobre 312, e dopo questa vittoria Costantino fu acclamato a Roma quale unico imperatore dell'Occidente. La data del 28 ottobre è celebrata dalla Chiesa Ortodossa Italiana quale giornata della vittoria della Cristianità.

Il Rescritto di Tolleranza (o Editto di Milano) firmato da Costantino per l'Occidente e Licinio per l'Oriente nel febbraio del 313 a Milano, che poneva fine a secoli di persecuzione contro i cristiani e proclamava il principio della libertà di culto e della tolleranza religiosa (Costantino, pur favorendo il cristianesimo non perseguitò mai i seguaci delle altre fedi presenti nell'impero quali l'ebraismo e i numerosi culti pagani).

«Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità"

la fondazione di Costantinopoli - Nuova Roma (latino  Constantinopolis  Nova Roma, greco   Κωνσταντινούπολις, Νέα Ῥώμη, - Konstantinoupolis  Nea Rhōmī),costruita sul sito dove sorgeva la cittadina greca di Bisenzio (latino Byzantium - greco ΒυζάντιονByzàntion)  inaugurata il 30 maggio 330 per essere la nuova capitale dell'Impero Romano (caduto ufficialmente il 29 maggio 1453 con la caduta di Costantinopoli in mano turca). Il nome Costantinopoli è rimasto alla città anche in epoca ottomana, fino al 28 marzo 1930 quando la Repubblica Turca gli cambiò nome in Istambul.

Il Concilio di Nicea I (o primo Concilio Ecumenico) Convocato e presieduto dall'Imperatore il 20 maggio del 325 a Nicea (città della Bitinia, corrispondente all'attuale città turca di  Iznik), che è stato il I Concilio Ecumenico della Cristianità, durante il quale furono stabilite delle regole sul battesimo degli eretici e sulla clemenza verso i  lapsi (cristiani che per salvarsi la vita avevano abiurato durante le persecuzioni), sull'organizzazione ecclesiastica,  che per  l'ordinazione di un vescovo occorrano  almeno tre vescovi della provincia (previo assenso e conferma da parte del vescovo metropolita della Provincia stessa), sull'obbligo di tenere almeno due sinodi annuali in ogni provincia, la codificazione del Credo, la dottrina dell'ὁμοούσιος (homooùsios) ossia che il Figlio è della stessa essenza del Padre, il calcolo della Pasqua cristiana ecc. Il Concilio terminò il 25 luglio del 325.


Sant'Elena Imperatrice (Flavia Iulia Helena) era la mamma dei San Costantino. Nata in Bitinia nel 248  a Drepanum (fatta ribattezzare Helenopolis in suo onore dal figlio ed oggi ubicata nel territorio dell'odierna cittadina turca di  Hersek) è stata Augusta dell'Impero Romanoe moglie dell'imperatore Costanzo Cloro.   Fervente cristiana, a lei si deve, durante un pellegrinaggio a Gerusalemme avvenuto nell'anno 327,  il ritrovamento della «Vera Croce», ossia la croce sulla quale  Gesù fu crocifisso contenente  il Titulus crucis (il cartello posto sulla croce).



Mons. Filippo Ortenzi
Rettore Università Ortodossa San Giovanni Crisostomo
tel. +39 0621119875b – cell. +39 3917065512
email: unisangiov.crisostomo@gmail.com




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